IL TERZO ANNUNCIO DELLA PASSIONE (Marco 10.32,34)

15.27 – Il terzo annuncio della passione (Marco 10.32-34)

 

32Mentre erano sulla strada per salire a Gerusalemme, Gesù camminava davanti a loro ed essi erano sgomenti; coloro che lo seguivano erano impauriti. Presi di nuovo in disparte i Dodici, si mise a dire loro quello che stava per accadergli: 33«Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai capi dei sacerdoti e agli scribi; lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani, 34lo derideranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo uccideranno, e dopo tre giorni risorgerà».

 

Prima di iniziare il commento del brano va dato un brevissimo quadro geografico degli avvenimenti: Gesù è a Betania, il Sinedrio riunito si trova a Gerusalemme, pochi chilometri in linea d’aria. Saputa la decisione di quell’organo di governo, “Gesù dunque non andava più in pubblico fra i Giudei, ma da lì si ritirò nella regione vicina al deserto, in una città chiamata Efraim, dove rimase con i discepoli” (Giovanni 11.54). I Vangeli non ci danno particolari notizie di ciò che avvenne in quel territorio salvo che si avvicinava la Pasqua, l’ultima da Lui vissuta e si mise in viaggio percorrendo, come vedremo con gli episodi e le località che seguiranno, la strada più lunga, cioè quella che passava per Gerico, la stessa ove aveva ambientato la parabola detta del “Buon Samaritano”.

Nell’occasione di questo ultimo viaggio verso Gerusalemme, Marco annota quanto gli riferisce l’apostolo Pietro, che fu al pari degli altri colpito da tre elementi, per primo il fatto che “Gesù camminava davanti a loro”, cioè al gruppo di persone che lo seguivano sul cui numero non possiamo dire salvo che quando leggiamo “presi in disparte i Dodici” dovevano essere tante.

Abbiamo quindi un primo atteggiamento di Gesù che cammina davanti al gruppo: perché? Non per fare da guida, non perché non desiderasse avere compagnia durante il viaggio, ma in quanto sapeva ciò che lo attendeva, vale a dire la conclusione del Suo Ministero terreno per morte violenta e non vedeva l’ora che tutto ciò si verificasse, come già aveva dichiarato in Luca 12.50: “Ho un battesimo nel quale sarò battezzato, e come sono angosciato finché non sia compiuto”.

“Battesimo” da “baptìzo”, cioè immergere. Non in acqua, non nello Spirito, ma nella sofferenza, nel sangue fino alla morte ignominiosa sulla croce, come poi dirà dettagliatamente nei versi da 33 a 34.

Abbiamo poi, sempre soffermandoci sul verso di Luca, “come sono angosciato”, di difficile traduzione dal greco “sunéxo” utilizzato nel Nuovo Testamento per indicare tormento o acuto dolore continui (Matteo 4.24 “conducevano a lui tutti i malati, tormentati da varie malattie e dolori”), uno stato d’animo che perdura nel tempo (2 Corinti 5.14 “L’amore del Cristo ci possiede”), il conflitto fra due opposti intenti (Filippesi 1.23 “Sono stretto fra queste due cose: ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; ma per voi è più necessario che io rimanga nel corpo”), e infine timore accompagnato da angoscia (Luca 8.37 “…la popolazione del territorio dei Gheraséni gli chiese che si allontanasse da loro, perché avevano molta paura”). Possiamo quindi ragionevolmente supporre che nello stato d’animo di Gesù ci fossero tutti questi elementi assieme. Sunéxo, da dizionario di greco antico, ha come terzo significato proprio “l’essere costretto, stretto, oppresso da qualcosa”, mai da qualcuno, per cui va da sé che si tratti di un pensiero o da una situazione che causa quel tipo particolare di sofferenza.

Il camminare di Gesù “davanti a loro”, allora, testimonia il Suo atteggiamento interno: agisce volendo accelerare i tempi, andando incontro al Suo arresto, ai processi, alle violenze sulla sua persona che si risolveranno nella morte di croce. E i discepoli ne furono impressionati e temettero perché avevano ben presente il fatto che, a Gerusalemme, si sarebbero verificati eventi non da loro controllabili. Erano impauriti, credo, perché non lo avevano mai visto così, evidentemente più di quanto, in Luca 9.51 dopo la Trasfigurazione, leggiamo letteralmente “…ed egli indurì il volto per andare a Gerusalemme”.

E, ben conoscendo il loro stato d’animo, (“sgomenti” e “impauriti”), ecco che Gesù prende “di nuovo in disparte i Dodici” – non la folla che lo seguiva – per ripetere appunto “di nuovo”, cioè per la terza volta, ciò che dovevano sapere e che non avevano ancora compreso.

Luca, dopo “Ecco, noi saliamo a Gerusalemme” aggiunge “e tutte le cose scritte dai profeti attorno al Figlio dell’uomo saranno adempiute”, quindi quelle strettamente attinenti alle sue sofferenze fisiche e morali di cui troviamo dettagliata descrizione nel Salmo 22 e nel capitolo 53 del profeta Isaia che qui non riporto ma che andrebbero lette, senza trascurare Daniele 9. 26, “Un consacrato sarà soppresso senza colpa in lui”. Non si possono non sottolineare in proposito le parole di Stefano in atti 4.27,28, “Davvero in questa città Erode e Ponzio Pilato, con le nazioni e i popoli d’Israele, si sono alleati contro il tuo santo servo Gesù, che tu hai consacrato – ecco il rimando a Daniele – per compiere ciò che la tua mano e la tua volontà avevano deciso che avvenisse”.

A questo punto Gesù, che non poteva fermarsi ad un richiamo ai profeti, specifica: “sarà consegnato ai capi sacerdoti e agli scribi”, cioè a coloro che, fino a quel momento, erano stati impotenti a confutare la Sua dottrina e soprattutto a catturarlo; “lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani”, inequivocabile riferimento ai Romani che detenevano l’ordine pubblico in città. Le parole “lo derideranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo uccideranno e dopo tre giorni risorgerà” sono il vero aggiornamento alle parole di Davide, Isaia e Daniele perché, dalla lettura dei loro testi che abbiamo prima indicato, sono dettagli che non rileviamo, ma che possiamo intuire: “Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la bocca; era come un agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori” (Isaia 53.7).

I Dodici erano chiamati a sapere tutte queste cose, ma Luca, a conclusione della spiegazione di Gesù, scrive “Ma quelli non compresero nulla di tutto questo; quel parlare restava oscuro per loro e non capivano ciò che egli aveva detto”: sono tre situazioni che denotano l’incapacità dell’uomo naturale a comprendere le cose di Dio, come dimostreranno di lì a poco Giacomo, Giovanni e la loro madre Salome.

I Dodici, Giuda a parte perché i suoi pensieri erano altri e opposti, avevano dato prova di una forte abnegazione, avevano seguito il loro Maestro fin lì, avevano avuto il mandato di guarire e predicare, eppure ora si ritrovano incapaci di comprendere perché le loro convinzioni impedivano loro una corretta interpretazione di quelle parole: Gesù era “il Cristo, il Figlio dell’Iddio vivente” e come tale non poteva morire. Era il Messia vittorioso e come tale non sarebbe stato mai sconfitto e nella prospettiva profetica dell’eternità avevano ragione, ma come accettare che Dio potesse morire, anche se per soli tre giorni? Quando mai la vittoria ha conosciuto umiliazione? In base alla loro esperienza, Gesù fino ad allora era passato indenne non solo di fronte a qualunque complotto, ma anche ai tentativi di lapidazione e a Nazareth se ne era allontanato da quanti volevano gettarlo giù da una rupe, quindi “quel parlare rimaneva per loro oscuro” nel senso che, anche ragionandoci attorno, con tutte le esperienze pregresse che avevano fatto al riguardo, non riuscivano a trovare un significato, una ragione, un perché. E restarono muti perché “non capivano ciò che egli aveva detto”, quasi parlasse una lingua diversa dalla loro.

La stessa cosa capita molto spesso ai credenti quando si trovano di fronte a passi difficili della Scrittura, Antica o Nuova che sia, ma purtroppo anche a versi semplici dove devono mettersi in gioco praticando ciò che trovano scritto.

Le parole udite dai Dodici erano talmente fuori dalla loro comprensione che le dimenticarono subito (salvo ricordarsene per lo Spirito più avanti) giungendo a non credere a Maria Maddalena (e alle altre donne) che, dopo avere visto e parlato con Gesù risorto, “…andò ad annunciarlo a quanti erano stati con lui ed erano in lutto e in pianto. Ma essi, udito che era vivo e che era stato visto da lei, non credettero” (Marco 16.10,11).

Ricordiamo anche le parole dei due discepoli che incontrarono Gesù lungo la strada di Emmaus quando, non avendolo riconosciuto perché “i loro occhi erano impediti a riconoscerlo”, gli dissero “Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele – ecco la concezione terrena del Messia –; con tutto ciò sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. Ma alcune donne, delle nostre – quindi persone non estranee, coinvolte al pari di loro – ci hanno sconvolti: si sono recate al mattino alla tomba e, non avendo trovato il suo corpo, sono venute a dirci di avere avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. Alcuni dei nostri sono andati alla tomba e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l’hanno visto”, quindi devono essersi per forza sbagliate (Luca 24.21-24).

Circa la mancata comprensione delle parole di Gesù, possiamo citare altre occasioni, la prima delle quali in Luca 2.50 dove, alle Sue parole quando si trovava fra i maestri nel Tempio “Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?” è scritto che Giuseppe e Maria “Non compresero ciò che aveva detto loro”. Ancora, come certamente ricorderemo, la nota al secondo annuncio della Passione, “Essi però non capirono queste parole: restavano per loro così misteriose che non ne coglievano il senso e avevano timore di interrogarlo su questo argomento”.

La stessa cosa avvenne all’esposizione dell’identità di Gesù con il pastore delle pecore: “Ma essi non capirono di che cosa parlava loro” (Giovanni 10.6) così come quando vi fu l’ingresso trionfale a Gerusalemme è scritto che “i suoi discepoli sul momento non compresero queste cose; ma, quando Gesù fu glorificato, si ricordarono che di lui erano state scritte queste cose e che a lui essi le avevano fatte” (Giovanni 12.16). E comunque anche noi, se ci voltiamo indietro e passiamo in rassegna la nostra vita trascorsa, possiamo renderci conto di quante cose non capivamo, pur avendole a portata di mano: scelte da fare che abbiamo sbagliato, percorsi da intraprendere dai quali ci siamo tenuti lontani, rinunce irrisolte, concetti trascurati, pensieri insufficienti.

E mi viene in mente che, alla Croce, Gesù fu realmente solo perché a parte la presenza di sua madre e le altre donne con Giovanni, gli altri non c’erano; soprattutto, avvertiva tutto l’odio che Lo circondava, la derisione, l’indifferenza

Quanto avvenne in tutti questi episodi, compreso quello qui esaminato brevemente, assume per il credente un significato importante e cioè che tutto quanto ha acquisito finora, indipendentemente dagli anni che possa avere, va sempre approfondito, scoperto e riscoperto, affrontando un cammino spirituale anche lento, che più di quello rapido dà più possibilità di realizzazione a meno che il Signore non decida diversamente. Occorre rivisitare direi continuamente le posizioni che abbiamo assunto davanti a Dio tramite un esame che ci distolga il più possibile, come i Dodici in questo terzo annuncio, dai nostri preconcetti o da un metodo di pensiero che, forse, appartiene a una tradizione nostra, umana, che va ad inquinare e rallenta il nostro cammino spirituale. Amen.

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CAIAFA, SOMMO SACERDOTE (Giovanni 11.47-57)

15.26 – Caiafa, sommo sacerdote (Giovanni 11.47-57)

 

47Allora i capi dei sacerdoti e i farisei riunirono il sinedrio e dissero: «Che cosa facciamo? Quest’uomo compie molti segni. 48Se lo lasciamo continuare così, tutti crederanno in lui, verranno i Romani e distruggeranno il nostro tempio e la nostra nazione». 49Ma uno di loro, Caifa, che era sommo sacerdote quell’anno, disse loro: «Voi non capite nulla! 50Non vi rendete conto che è conveniente per voi che un solo uomo muoia per il popolo, e non vada in rovina la nazione intera!». 51Questo però non lo disse da se stesso, ma, essendo sommo sacerdote quell’anno, profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione; 52e non soltanto per la nazione, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi. 53Da quel giorno dunque decisero di ucciderlo.
54Gesù dunque non andava più in pubblico tra i Giudei, ma da lì si ritirò nella regione vicina al deserto, in una città chiamata Èfraim, dove rimase con i discepoli. 55Era vicina la Pasqua dei Giudei e molti dalla regione salirono a Gerusalemme prima della Pasqua per purificarsi. 56Essi cercavano Gesù e, stando nel tempio, dicevano tra loro: «Che ve ne pare? Non verrà alla festa?». 57Intanto i capi dei sacerdoti e i farisei avevano dato ordine che chiunque sapesse dove si trovava lo denunciasse, perché potessero arrestarlo.

 

“Allora” è un chiaro riferimento al fatto che “molti dei Giudei, visto tutto ciò che Gesù aveva fatto, credettero in lui”. La conseguenza non poté essere che una sola e cioè una forte preoccupazione per il futuro di tutto quel sistema politico-religioso esistente. Notiamo che i capi dei sacerdoti e i farisei, riunito il Sinedrio, non negano affatto la verità (“quest’uomo fa molti segni”), ma non la vogliono accettare per cui qualunque altro miracolo fosse stato prodotto non avrebbe avuto alcun effetto su di loro. Ecco perché disse “Questa generazione è una generazione malvagia; essa cerca un segno, ma non le sarà dato alcun segno, se non quello di Giona” (Luca 11.29)

È molto importante la parola usata, cioè “segni”, non “miracoli” perché, anche se potrebbe sembrare che indichino la stessa cosa, così non è perché il “segno” è qualcosa che viene inequivocabilmente da Dio o è da lui ordinato, mentre il miracolo può essere anche qualcosa di simulato, di presunto. Ricordiamo tra i “segni” l’arcobaleno quale “segno dell’alleanza che io pongo fra me e voi” (Genesi 9.12), la circoncisione, “segno dell’alleanza fra me e voi”, tutti i grandi avvenimenti narrati nel libro dell’Esodo e così via fino alla visione dell’apostolo Giovanni in Apocalisse 15.1 quando scrive “E vidi nel cielo un altro segno, grande e meraviglioso: sette angeli che avevano sette flagelli; gli ultimi, poiché con essi è compiuta l’ira di Dio”.

Quindi, dicendo “quest’uomo fa molti segni”, in pratica quei Giudei è come se dicessero “Quest’uomo dimostra di essere davvero ciò che dice: cosa facciamo?”.

La prima riflessione fattibile è quindi rimarcare la differenza fra quanti credettero in Gesù grazie alla risurrezione di Lazzaro, che “non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio”, e coloro che invece “andarono dai farisei, e riferirono loro ciò che Gesù aveva fatto”: gli uni fanno una scelta di vita, gli altri di morte, perché vogliono far sì che venisse annullato, in quale modo non sapevano, quel “segno” che parlava infinitamente più dei miracoli di guarigione degli indemoniati quando fu detto “Se io scaccio i demòni per mezzo dello Spirito di Dio, allora è giunto a voi il regno di Dio” (Matteo 12.18).

Di fronte alla risurrezione di Lazzaro alcuni capitolano di fronte all’evidenza di Gesù come Signore, altri persistono in una fede che non aveva più senso ignorando deliberatamente il fatto che quei Cherubini posti a guardia di Eden con “la fiamma della spada guizzante” erano stati in un certo senso tolti perché “Io sono la via, io sono la verità e la vita. Solo per mezzo di me si va al Padre” (Giovanni 14.6). Quindi si era aperta la via per un futuro certo di beatitudine. L’uomo, che indubbiamente può fare molto coi propri mezzi per determinare il proprio futuro terreno (ammesso che non trovi ostacoli insuperabili), nulla può per quello spirituale. Gesù, poi, era ed è l’unica via proprio perché Dio fattosi uomo, cioè in tutto simile a noi quanto al corpo.

La riunione del concistoro, quindi del Sinedrio, organizzata dai “capi dei sacerdoti e i farisei”, ci riporta a Salmo 2.2, “Insorgono i re della terra e i prìncipi congiurano insieme contro il Signore e il suo consacrato”, dove vediamo applicato un primo riferimento del verso, in attesa di tutti gli altri in cui i “re della terra e i prìncipi” sono identificabili coi persecutori della Chiesa dalle origini fino agli ultimi tempi in cui l’Avversario stabilirà l’Anticristo che si identificherà con la Bestia cui “fu concesso di fare guerra contro i santi e di vincerli, le fu dato potere sopra ogni tribù, popolo, lingua e nazione. La adoreranno tutti gli abitanti della terra, il cui nome non è scritto nel libro della vita dell’agnello, immolato fin dalla fondazione del mondo” (Apocalisse 13.7,8).

Il comportamento di coloro che riuniscono il concistoro per perorare la causa dell’annientamento di Gesù, è cambiato ed esprime molta più preoccupazione rispetto a quando, alla Festa delle Capanne, consideravano chi aveva creduto in Lui come un fatto solo disturbante: allora infatti, alle guardie che non riuscirono ad arrestarlo perché dissero “Mai un uomo ha parlato così”, replicarono “Vi siete lasciati ingannare anche voi? Ha forse creduto in lui qualcuno dei capi, o dei farisei? Ma questa gente, che non conosce la Legge, è maledetta!” (Giovanni 7.45-49). Ora, invece, è tutto diverso perché “Molti dei Giudei (…) vedendo ciò che aveva compiuto, credettero in lui”.

Ciò che viene paventato al concistoro è descritto al verso 48, “Se lo lasciamo continuare così, tutti crederanno in lui, verranno i romani e distruggeranno il nostro tempio e la nostra nazione”: Gesù, secondo loro, se non fermato avrebbe proseguito nella sua opera, i miracoli sarebbero aumentati e avrebbero finito per convincere altri che – attenzione – non si sarebbero ribellati ai Romani, ma fondamentalmente al Sinedrio che non avrebbe avuto più alcun potere ponendo fine a quello stato di indipendenza relativa che la Nazione ebraica ancora possedeva, svolgendo quell’Organo una funzione di mediazione nella vita politica e religiosa del Paese.

Poi naturalmente c’è un discorso squisitamente politico: i Romani diffidavano degli ebrei, sapevano che erano sempre pronti a insorgere e, proprio partendo da come la predicazione di Gesù si sarebbe sviluppata, era facile prevedere che le folle sarebbero accorse a Lui in massa, lo avrebbero fatto re d’Israele in contrapposizione al procuratore di Gerusalemme e all’imperatore di Roma provocando l’intervento militare che avrebbe fatto strage di israeliti, distruggendo il Tempio e la nazione. È curioso notare che tutti questi timori si concretarono nel 70, quando Nostro Signore era salito al Padre da 37 anni circa.

 

Il Sinedrio teneva le sue riunioni in un luogo del Tempio chiamato “l’aula della pietra squadrata” oppure, per i casi d’emergenza, nella casa del sommo sacerdote che lo presiedeva. Tutti sedevano a semicerchio di modo che potessero vedersi fra loro; il presidente, appunto il sommo sacerdote, sedeva nel centro e gli anziani a destra e a sinistra di lui. Il Sinedrio contava settanta membri più il presidente, ma la sua seduta era legale se le presenze erano almeno ventitré: c’erano allora, nella riunione di cui parla Giovanni, coloro che avevano creduto in Gesù? Alla luce del numero legale, credo di no anche perché partecipare a quell’assemblea avrebbe provocato in loro non pochi problemi di coscienza. Se mai, non si può escludere ci fossero i discepoli di Gesù “ma in occulto, per paura dei Giudei”, come Nicodemo.

A questo punto emerge la figura di Giuseppe Caiafa, o Caifa, che incontreremo spesso da qui in poi, che deteneva l’ufficio di sommo sacerdote assieme ad Anna, padre di quell’ “eccellentissimo Teofilo”, anche lui sommo sacerdote, cui Luca dedica il Vangelo e gli Atti. Anna, suocero di Caiafa, era stato deposto dalla sua carica nell’anno 15 dal procuratore romano Valerio Grato, lo stesso che poi eleggerà nel 18 Caiafa al suo posto, che vi rimase fino al 36. Il fatto che Giovanni scriva di lui “sommo sacerdote di quell’anno” ha lasciato ipotizzare che sia Anna che Caiafa si succedessero alla carica un anno ciascuno. Entriamo qui in un campo problematico perché, se per la Legge la funzione di sommo sacerdote durava per tutta la vita, siamo in un tempo in cui Israele era comunque soggetto ai Romani che nominavano e destituivano i sommi sacerdoti a loro piacimento proprio come fece Valerio Grato, predecessore di Ponzio Pilato. Comunque, a quel tempo i sommi sacerdoti erano due, uno in carica e l’altro – verrebbe da dire – “supplente”, per quanto fosse Anna che deteneva il maggior rispetto proprio perché, legalmente, il sommo sacerdozio spettava a lui.

A questo punto cerchiamo di esaminare le parole di Caiafa che in questa circostanza non parlò come un uomo comune, ma “profetizzò” essendo “sommo sacerdote di quell’anno”, cioè la sua carica – a prescindere dal fatto che stava per venire chiusa la dispensazione della Legge – lo poneva comunque come responsabile – mi si passi il termine – della comunicazione fra JHWH e il popolo ragion per cui, pur essendo convinto di parlare da se stesso, in realtà in quel momento veniva usato da Dio per stabilire una verità fondamentale e cioè che “è conveniente per voi che un solo uomo muoia per il popolo, e non vada in rovina la nazione intera”: anche qui abbiamo una frase che ha una doppia lettura, la prima della quale è politica e sulla quale è inutile soffermarsi, mentre la seconda è così sottile da costringere l’apostolo alla nota del verso 51 in cui afferma che Gesù non doveva morire “solo per la nazione, ma per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi”, come “pecore senza pastore”. Così scrive l’apostolo Pietro nella sua prima lettera: “Eravate erranti come pecore, ma ora siete stato ricondotti al pastore e custode delle vostre anime” (1.25): può esservi un custode più perfetto?

“È conveniente che uno solo muoia per il popolo” ha così due letture, quella di Caiafa e quella dello Spirito; nel primo caso si voleva che fosse risolto il problema di eventuali massacri da parte dei Romani, nel secondo, quello appunto dello Spirito che aveva parlato tramite Caiafa, il perdono dei peccati sarebbe potuto venire solo dal sacrificio dell’Agnello di Dio e non da un animale, per quanto innocente. Certo che quel sommo sacerdote non era consapevole del doppio senso della frase, ma lo Spirito aveva parlato così, nonostante l’indegnità del personaggio che dalle sue parole iniziali, “Voi non capite nulla”, originale “Non avete nessuna conoscenza”, con cui Caiafa manifesta tutto il suo disprezzo verso i suoi non simili.

Certo quest’uomo, inconsapevolmente, con la nota di Giovanni richiama Isaia 49.6 quando, nel secondo canto del Servo, scrive “È troppo poco che tu sia mio servo per restaurare le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti d’Israele. Io ti renderò luce delle nazioni, perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra” mentre lo stesso apostolo ha nella prima lettera “Se qualcuno ha peccato, abbiamo un Avvocato presso il Padre: Gesù Cristo, il giusto. È lui la vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo”. Ecco quindi dove risiede il significato delle parole di Caiafa, personaggio accomunabile a Balaam, mago e incantatore di cui possiamo leggere in Numeri 24.1-10. Senza andare così lontano, riguardo al fatto che Dio si serve degli uomini senza che questi ne siano consapevoli, credo possa bastare anche il censimento voluto da Cesare Augusto, che consentì a Gesù di nascere a Betlehem e non a Nazareth come sarebbe altrimenti avvenuto, vanificando le profezie su di Lui attestanti il fatto che sarebbe nato, appunto, là.

Proseguendo la lettura del nostro testo, vediamo che “da quel giorno cercavano di ucciderlo” nel senso che lì si prese la decisione ufficiale, quella che Gesù venne a sapere e che fece sì che si spostasse nel territorio di Efraim. Evidentemente, quella notizia venne anche alle orecchie di Giuda perché proprio al verso 57 leggiamo “Intanto i capi dei sacerdoti e i farisei avevano dato ordine che chiunque sapesse dove si trovava lo denunciasse, perché potessero arrestarlo”: chi meglio di lui poteva farlo? Se chiunque avrebbe potuto segnalare la presenza di Gesù da qualche parte, Giuda avrebbe potuto farlo catturare stando dall’interno del gruppo dei discepoli, indicandolo con precisione a chi non lo conosceva salutandolo e baciandolo di fronte a tutti. E considero terribili le parole che gli disse, “Salve – cioè salute a te – Maestro!” (Matteo 26.48).

Concludendo queste riflessioni: da qui in poi abbiamo la ferma decisione del Sinedrio di eliminare Gesù una volta per tutte. L’intervento di Caiafa ufficializza inconsapevolmente una verità fondamentale sul ruolo del Cristo e in un certo senso anticipa le Sue parole nel terzo annuncio della passione, quando cercò di far capire ai discepoli ciò che sarebbe successo e non volendo che si trovassero impreparati. E pregò per essi, affinché la loro fede non venisse meno. Amen.

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