15.29 – TRA VOI NON È COSÌ (Marco 10.41-45)

15.29 – Tra voi non è così (Marco 10.41-45)

 

41Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni. 42Allora Gesù li chiamò a sé e disse loro: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. 43Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, 44e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. 45Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».

 

Il verso 41 è la chiave di lettura non tanto delle parole di Gesù, ma di tutto l’episodio iniziato con l’avvicinarsi a Lui di Giacomo e Giovanni, sostenuti dalla loro madre, per chiedergli di poter sedere l’uno alla Sua destra e l’altro alla Sua sinistra una volta venuta la Sua gloria. È un verso sottovalutato, letto con frettolosità e soprattutto con la nostra mentalità che lo interpreta vedendo i dieci scandalizzati dalla proposta appena fatta al loro Maestro e nient’altro. Ciò ho pensato io stesso per anni, ma questa interpretazione non tiene conto del carattere dei dodici e dei rapporti che si instauravano fra loro soprattutto quando Gesù non era presente.

I Dodici erano uomini scelti da Gesù e a loro sarebbe stata affidata la costituzione e costruzione della Chiesa; in quanto tali, va sempre tenuto presente che la loro vita passò attraverso tre tappe fondamentali, vale a dire la chiamata, la formazione e l’azione vera, quest’ultima possibile solo una volta disceso lo Spirito Santo che non solo avrebbe ricordato loro quanto detto dal Maestro, ma soprattutto li avrebbe posti nelle condizioni di comprendere ed attualizzare quelle parole.

Nel Vangelo, quando si parla dei Dodici, va sempre tenuto presente che tutto quanto da loro fatto e detto avviene nel periodo intermedio e quindi, nonostante non fossero certo persone rozze o negative, erano quelli che erano, cioè uomini. Così li vediamo tante volte discutere tra loro su “chi fosse il maggiore”, quindi il capo o comunque il più importante, litigare perché nessuno di loro aveva pensato di comprare il pane (Matteo 16.5-7), vietare a una persona di cacciare i demoni nel nome di Gesù perché non era dei loro (Luca 9.49), cercare di guarire un epilettico dando per scontato di riuscirvi (Marco 9.18 e seg.), non credere all’annuncio della risurrezione da parte delle donne, non capire tante cose tra le quali un punto fondamentale qual era la morte e resurrezione imminenti del loro Maestro.

Allora, anche in virtù del tipo di insegnamento che verrà dato loro dal verso 42 in poi, è molto più facile che l’indignazione dei dieci verso Giacomo e Giovanni non fosse dovuta al fatto che i due avevano frainteso un principio importante qual era il posto preparato a destra e sinistra di Gesù, ma perché erano stati preceduti in tal senso ed erano invidiosi! E le parole di Gesù che seguono confermano questa tesi perché apre il suo discorso con i “governanti delle nazioni” che “dominano su di esse e i capi le opprimono”, quindi accennando a intrighi di palazzo e calcoli per avere favori, posizioni di prestigio e soprattutto mantenerle ad ogni costo.

“Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo”, con tutto quel che segue, la avrebbe voluta pronunciare ciascuno dei dodici con i medesimi scopi e ricordiamo che già Pietro, poco tempo addietro, aveva chiesto a Gesù “Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; che cosa dunque ne avremo?” (Matteo 19.27) avendo in risposta una promessa che tutti gli altri avevano sentito, “Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna”.

Ecco allora che Nostro Signore, nel passo in esame, conscio che il fraintendimento di Giacomo e Giovanni non costituiva un caso isolato, provvede a chiamarli a sé come aveva fatto tutte le volte in cui era necessario che ricevessero un insegnamento mirato e importante. Questo inizia come abbiamo accennato, “Voi sapete che coloro che sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono”, cioè li esorta a riflettere partendo dalla semplice osservazione di ciò che è tangibile.

In questa frase abbiamo due soggetti, “i governanti” e “i capi”, quindi viene chiamata in causa la totalità del potere, la sua architettura volta a reprimere e opprimere nei modi più svariati i suoi sottoposti. La prima cosa che si sa di una società è che questa non può reggersi senza un apparato repressivo che la mantenga, concedendo una libertà più o meno ampia ai suoi membri che, il più delle volte, liberi sono solo in apparenza. Non esiste nessun Paese, nessuno Stato in cui essere veramente liberi.

Se quindi, tornando ai nostri versi, il sedere alla destra e alla sinistra di Gesù nella sua gloria era un desiderio ispirato dalla carne, ecco che Lui provvede immediatamente a sgombrare il campo dalle illusioni e dalle consuetudini: “Tra voi però non è così”, cioè non può essere perché, se siete miei discepoli, anzi apostoli con tutto quello che comporta, ciò a cui dovete aspirare non è il pervenire ad una società gerarchica, piramidale, con onori e rituali di varia natura, perché siete/sarete Chiesa, quindi una realtà completamente diversa.

“Tra voi però non è così”, cioè nel momento in cui vi organizzerete con “governanti” e “capi” che “dominano” e “opprimono”, cesserete di essere miei rappresentanti, perderete la capacità di predicare il Vangelo e di portare delle anime alla salvezza, predicherete vuoto e illusione. Attenzione perché tutto questo non autorizza l’anarchia, ma inquadra semplicemente la vera autorità spirituale in seno alla Chiesa ed ecco perché “chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore”, principio che è un filtro teso a bloccare qualunque ambizione perché chi aspira a diventare importante in senso umano nella Comunità cristiana rifuggerà subito il concetto di servire e ancor di più il secondo principio, cioè “chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti”. I due termini, “servitore” e “schiavo”, possiamo vederli come i più bassi della scala sociale del tempo e nostra, per quanto non più in uso ma concettualmente impiegati.

A conferma poi che il principio stabilito in quella sede non sia filosofico, Gesù parla subito di sé: “Il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”, quindi in pratica se Lui aveva tutto il diritto di venire adorato in quanto Figlio di Dio, come Figlio dell’uomo era venuto per “servire”, cioè porsi allo stesso livello della creatura bisognosa e mettersi al suo servizio nel senso di indicarle la strada verso la salvezza fino a “dare la sua vita in riscatto per molti”, quindi una posizione, un ruolo più totale di quello era impossibile. Poteva giudicare tutti come Dio puro e non lo fece. Poteva accettare gli onori che avrebbero voluto attribuirgli quanti lo riconoscevano come Messia, ma non volle nemmeno questo, servendo fino a “dare la sua vita in riscatto per molti”, quella vita alla quale nessun uomo vuole mai rinunciare.

È importante sottolineare che i termini “servitore” e “schiavo” vanno rapportati non a una posizione subordinata ai desideri altrui, ma al “servire” di Gesù, che divenne “servo” non al volere capriccioso degli uomini, ma del loro voler elevarsi, cercare per trovare davvero, risolvere nel senso più nobile del termine un’esistenza che altrimenti, indipendentemente dalla loro posizione sociale, si sarebbe trascinata fino all’inconcludenza della morte, che poi della vita è è il punto di arrivo.

Non va neppure dimenticato quel suo “dare la sua vita in riscatto per molti”, termine che nella Scrittura allude a un pagamento quale equivalente per una vita tolta (Esodo 21.30), al prezzo per la liberazione di uno schiavo (Levitico 25.51), al risarcimento interiore di sofferenze (Proverbi 13.8), al prezzo di redenzione per un condannato a morte (Esodo 21,80) ed è usato per indicare liberazione da morte, calamità o peccato (Salmo 49.7,8; Isaia 35.10). Ecco cosa ha comportato il riscattare la creatura da parte di Gesù.

A questo punto, andando più in profondità nei due termini “servitore” e “schiavo”, il greco ha per il primo diàkonos, parola che nella Chiesa verrà utilizzata per quelli che ministravano ai poveri e agli infermi e attendevano alle necessità della Comunità cristiana, mentre per il secondo abbiamo doùlos, molto più forte, correttamente tradotta nella nostra versione e in altre.

Credo che, nella storia della Chiesa, nessun uomo sia stato più “servo” dell’apostolo Paolo, che dalla sua conversione, superato il periodo della formazione curata personalmente da Dio, affrontò ogni genere di persecuzione, prigionia, percosse, viaggi, malattie e sofferenze pur di portare il Vangelo agli altri. Anche senza la lettura del libro degli Atti, fondamentale per conoscere le vicende della Chiesa primitiva, l’esame delle cartine dei viaggi dell’Apostolo che troviamo in pressoché tutte le Bibbie non può lasciarci indifferenti se pensiamo ai mezzi allora in uso per spostarsi. E certo il “servire” di Paolo non si limitò alle fatiche nella carne, ma comprese quelle spirituali non solo nel formare quelli che sarebbero stati i futuri responsabili delle varie Chiesa, ma anche nel soffrire perché il Vangelo veniva interpretato falsamente e con scopi diversi dalla salvezza delle anime, senza contare tutto l’impegno profuso nelle lettere che costituiscono il quinto vangelo, senza le quali noi stessi non avremmo tutti quegli orientamenti dottrinali che Gesù non poté dare perché disse “Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera perché non parlerà da sé, ma dirà tutto quello che avrà udito e vi annunzierà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà del mio e ve lo annunzierà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo vi ho detto che prenderà del mio e ve lo annunzierà” (Giovanni 16.12-15).

Possiamo infine concludere con il nostro Esempio e Riferimento per eccellenza, Gesù Cristo e al suo “servire”, commentato da Paolo in questo modo: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso, assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore!» a gloria di Dio Padre” (Filippesi 2.5-11). Amen.

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15.28 – GIACOMO, GIOVANNI, SALOME (Marco 10.35-40)

15.28 – Giacomo, Giovanni, Salome (Marco 10.35-40)

 

35Gli si avvicinarono Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo, dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». 36Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». 37Gli risposero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra». 38Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?». 39Gli risposero: «Lo possiamo». E Gesù disse loro: «Il calice che io bevo anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati. 40Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato».

 

Si tratta di un episodio avvenuto dopo il terzo annuncio della Passione che non è collocabile con precisione nel tempo, ma dovette avvenire prima dell’arrivo del gruppo a Gerico. Protagonisti, dal parallelo di Matteo 20, furono gli apostoli Giacomo e Giovanni assieme alla loro madre Salome, che fu lei a presentare a Gesù la richiesta di cui abbiamo letto. Prima di affrontare il testo credo però sia necessario dare alcuni cenni su questi personaggi, per quanto i primi due molto noti.

Giacomo e Giovanni erano figli di un certo Zebedeo, il cui nome significa “Dio dona”, persona nota e stimata dagli abitanti del lago di Galilea per la piccola flotta di barche da lui posseduta e per il lavoro che dava a diversi operai. In Marco 1.16-20, quando i suoi due figli furono chiamati da Gesù, leggiamo infatti che “Essi lasciarono il loro padre Zebedeo nella barca con i garzoni e andarono dietro a lui”. Zebedeo era un uomo benestante, tanto che oltre a possedere una propria casa, poteva contare con tutta la sua famiglia dell’amicizia del sommo sacerdote di quel tempo, Giuseppe Caiafa. Leggiamo in proposito che “…questo discepolo – Giovanni – era conosciuto dal sommo sacerdote ed entrò con Gesù nel cortile del sommo sacerdote” (Giovanni 18.15).

Di Giacomo, più anziano di Giovanni essendo menzionato per primo nell’organigramma apostolico, sappiamo poco: non vi sono descrizioni della sua personalità, racconti che possano chiarire in qualche modo il suo carattere a parte il soprannome che Gesù pose tanto a lui quanto al fratello, “Boanerges”, probabilmente per descrivere il suo carattere impulsivo ed irruente che la grazia di Dio modificò.

Unitamente a Pietro, Giacomo e Giovanni formarono il gruppo più sensibile e intimo tra i discepoli che seguirono Gesù dopo la chiamata sulle sponde del Lago di Galilea; furono poi presenti, assieme a Filippo, Natanaele e Andrea, al miracolo delle nozze di Cana. Questi discepoli assistettero poi alla trasfigurazione, alla risurrezione della figlia di Giairo e all’agonia di Gesù nel Getsemane.

La descrizione di Giacomo può continuare ricordando l’episodio che lo ritrae incerto e pauroso quando fuggì con gli altri otto lasciati all’inizio dell’orto a pregare.

Questo apostolo, dopo aver ricevuto il dono dello Spirito Santo nel giorno di Pentecoste ed aver testimoniato di Gesù di fronte al sinedrio ebraico (Atti4.35; 5.29), venne subito imprigionato dai soldati di Erode Agrippa ed in seguito decapitato (Atti 12.2), divenendo così il primo degli apostoli a patire cruento martirio a causa del nome di Gesù, anche se se il primo vero martire della Chiesa fu Stefano.

 

Molto più sostanzioso e completo è il racconto fatto su Giovanni, che fu onorato dall’affetto particolare del suo Maestro quando disse di se stesso “il discepolo che Gesù amava” o “il discepolo diletto che riposava sul petto di Gesù” (Giovanni 13.25; 21.20). Anche Pietro lo riconobbe come colui che godeva di una fiducia particolare da parte del Maestro, facendogli chiedere chi sarebbe stato a tradirlo (13.23) ed a lui Gesù affidò Sua madre (19.26).

Ancora, a Giovanni fu profetizzato che sarebbe morto di morte naturale e che avrebbe vissuto a lungo, contrariamente a ciò che fu detto a Pietro riguardo alla sua morte, che sarebbe avvenuta tragicamente. Giovanni, poi, rimase con Pietro e venne con lui incarcerato e battuto dopo aver guarito lo zoppo mendicante alla porta del Tempio detta “Bella” (Atti 3.1-3; 4. 7,13,19). Fu poi, come sappiamo autore di un Vangelo, tre lettere e dell’Apocalisse, redatta sotto diretta dettatura di Gesù.

 

La madre di Giacomo e Giovanni era Salome, donna che faceva parte di quel gruppo che seguì Gesù durante i tre anni del Suo ministero in Israele sovvenendolo con le loro facoltà (Luca 8.1-3). Come vediamo da Matteo 22, era una persona intraprendente, forse sorella di Maria madre di Gesù, per quanto non abbiamo prove inequivocabili.

 

Ora, dai pochi dati raccolti, mi pare evidente che quanto i tre chiesero al Signore fosse dettato dal colossale fraintendimento secondo cui, in quanto suoi parenti, Giovanni e Giacomo potessero avere una corsia preferenziale di trattamento rispetto agli altri, sedendo alla sua destra e alla sua sinistra nella Sua gloria. Ricordiamo che i Dodici e i discepoli non ragionavano secondo lo Spirito – né avrebbero potuto farlo perché non era ancora disceso –, ma secondo i dati che avevano a disposizione: erano certi che Gesù fosse il Messia e che quindi avrebbe avuto un regno vittorioso e glorioso e, interpretandolo in senso umano, sotto quest’ottica Gli chiedono di poter avere una posizione assolutamente privilegiata tralasciando completamente alcuni principi che erano stati loro esposti, come l’esentarsi dalla mentalità dell’avere i primi posti, dall’ambire ad essere “il più grande”, regola che qui verrà ricordata ancora una volta.

Venendo ora all’episodio, il parallelo di Matteo 20, identico quanto alla risposta avuta, imputa alla madre di Giacomo e Giovanni la richiesta, che “si prostrò per chiedergli qualcosa”. Ora, sapendo che gli evangelisti non si pongono il problema di una narrazione concorde, ma che piuttosto tengono a dare dei quadri facendo risaltare i personaggi in un modo o in un altro, non possiamo che concludere che Marco abbia voluto mettere l’accento sul fatto che i due fratelli avevano recepito in pieno quello che era il desiderio della loro madre alla quale Matteo, che era presente, attribuisce l’intervento diretto, “Di’ che questi miei figli siedano uno alla tua destra e uno alla tua sinistra nel tuo regno” (v.21).

Non rileviamo una particolare reazione di sdegno da parte di Gesù, che comprendendo ciò che era alla base di quella richiesta si limitò a far rilevare quanto fosse distante da Lui un simile modo di pensare: rispondendo “Voi non sapete ciò che chiedete” intendeva proprio questo, che Salome, Giacomo e Giovanni non avevano capito nulla dei piani di Dio e della predestinazione – in senso scritturale e non certo filosofico – degli eletti. Credo che questo fraintendere contenga un insegnamento importante e cioè che l’essere umano non può comprendere alcunché di Dio se lo Spirito Santo non provvede a illuminarlo. Se infatti “l’uomo naturale non comprende le cose di Dio perché per lui sono pazzia”, è altrettanto vero che la sola volontà umana, la rinuncia, l’appartarsi dal mondo, non potrà mai arrivare ad una illuminazione.

Salome, Giacomo e Giovanni avevano consegnato la loro vita in mano a Gesù, mostrando una fede certo non comune o inferiore a quella degli altri, ma la visione che avevano dell’opera del Figlio di Dio era ancora imperfetta, non illuminata e per questo ancorata al loro essere umano che, poco prima, aveva impedito loro di comprendere l’annuncio della Passione che il loro Maestro dava per la terza volta.

Una lettura che personalmente trovo interessante di quest’episodio è che tutto, nella vita del cristiano, è una progressione, una scelta, un paradossale “non raggiungimento” della meta: Giacomo, Giovanni e Salome, prima di incontrare Gesù, erano persone buone e oneste, ma questo non bastava a salvarli. Incontrato il Figlio di Dio, credettero in Lui, ma con tutti i loro limiti, proprio come noi. Una volta disceso lo Spirito Santo, si verificò quanto già preannunciato loro, “…ma lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto” (Giovanni 14.26). Anche una volta disceso lo Spirito, nonostante il cambiamento di vita e il venire in possesso della Verità, non per questo avevano conseguito il premio né il posto preparato per loro nel cielo.

Ecco perché la vita cristiana esiste solo nel e dal momento in cui viene trovato il Dio, l’unico, a lungo ricercato e lo Spirito che si riceve, lungi dall’avere le manifestazioni registrate alla Pentecoste, è un lumicino che abilita all’orientamento a patto che venga custodito e rispettato, come leggiamo in Efesi 4.30 quando l’apostolo Paolo scrive “Non vogliate rattristare lo Spirito Santo di Dio, con il quale foste suggellati per il giorno della redenzione”: qui abbiamo le istruzioni tanto per una crescita spirituale, quanto per restare ancoràti alla carne e quindi vivere distanti, continuando a sbagliare e – visto che stimo riflettendo su un episodio preciso – continuare a non capire e fraintendere.

Poco prima ho parlato di non raggiungimento della meta: con questo non intendo dire che come credenti giriamo a vuoto, proseguiamo un percorso a tentoni fatto di continue tensioni che risolvono in delusioni; piuttosto il riferimento è a 1 Corinti 9.24, “Non sapete che, nelle corse allo stadio, tutti corrono, ma uno solo conquista il premio? Correte anche voi in modo da conquistarlo”, in cui viene descritto molto bene l’atteggiamento da tenere finché siamo in vita, cioè allenamento serio e corsa per vincere non un onore umano, ma quello che viene da Dio. Con questo paragone l’apostolo Paolo descrive l’atteggiamento mentale e non certo il fatto che occorra profondere ogni sforzo per conquistare un premio che, se non si arriva primi, non viene dato. Il vero atleta, infatti, prima di pensare a vincere, valuta e misura i progressi del proprio corpo, registra i dati che riporta quotidianamente per poi esaminarli e confrontarli andando a ritroso nel tempo, si alimenta in modo particolare, osserva tutta una serie di regole per poi misurarsi al meglio nella gara in cui, più che guardare agli altri, impegna tutto se stesso.

Che in proposito ci riguardano sono anche le parole in Filippesi 3.12-14: “Non ho certo raggiunto la meta, non sono arrivato alla perfezione, ma mi sforzo di conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Cristo Gesù. Fratelli, io non ritengo ancora di averla conquistata. So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la meta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù. In Cristo Gesù”.

Soffermandoci brevemente su queste parole, vediamo che la meta è quel “posto” prenotato, riservatoci dal Padre prima della fondazione del mondo e che Nostro Signore andò a “preparare” (Giovanni 14.2): questo comporterà il raggiungimento della “perfezione” perché non più ancoràti a un corpo di carne e santificati dalla presenza di Dio. Sapendo tutto questo Paolo, lungi dall’assomigliare a colui che sotterrò il talento affidatogli, dice “mi sforzo di conquistarla” e per questo continua a lavorare incessantemente per il Vangelo. Abbiamo poi “dimenticando ciò che mi sta alle spalle”, quindi ogni peso, ogni errore fatto perché il ricordo di ciò che siamo stati è solo un peso che portiamo inutilmente e, riflettendo, è importante ciò che siamo e che abbiamo raggiunto (se abbiamo saputo coltivare la nostra persona), non certo ciò che eravamo, quando agivamo in preda a un’immaturità che non dovrebbe più appartenerci.

Tornando al nostro episodio vediamo che all’ambizione umana allora dimostrata da Salome, Giacomo e Giovanni si contrappone quella spirituale, che aspira a una meta che sarà raggiunta solo quando l’essere umano avrà raggiunto il “posto” preparato per lui, che non verrà dato per favoritismi o raccomandazioni, ma per legittima possessione che non verrà certo usata per sopraffare gli altri o per vanto, come spesso accade nel mondo.

E concludendo questa prima parte, sono convinto che con le parole “non sta a me concederlo, è per i quali è stato preparato”, Gesù intenda far capire a Salome, Giacomo e Giovanni che avrebbero dovuto accontentarsi di far parte del piano del Padre che, in quanto non solo creatore ma proprio perché in quanto tale conosce perfettamente i propri figli, avrebbe dato loro un “posto” perfettamente compatibile con le loro persone, che a Lui dedicarono la vita. Amen.

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15.27 – IL TERZO ANNUNCIO DELLA PASSIONE (Marco 10.32,34)

15.27 – Il terzo annuncio della passione (Marco 10.32-34)

 

32Mentre erano sulla strada per salire a Gerusalemme, Gesù camminava davanti a loro ed essi erano sgomenti; coloro che lo seguivano erano impauriti. Presi di nuovo in disparte i Dodici, si mise a dire loro quello che stava per accadergli: 33«Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai capi dei sacerdoti e agli scribi; lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani, 34lo derideranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo uccideranno, e dopo tre giorni risorgerà».

 

Prima di iniziare il commento del brano va dato un brevissimo quadro geografico degli avvenimenti: Gesù è a Betania, il Sinedrio riunito si trova a Gerusalemme, pochi chilometri in linea d’aria. Saputa la decisione di quell’organo di governo, “Gesù dunque non andava più in pubblico fra i Giudei, ma da lì si ritirò nella regione vicina al deserto, in una città chiamata Efraim, dove rimase con i discepoli” (Giovanni 11.54). I Vangeli non ci danno particolari notizie di ciò che avvenne in quel territorio salvo che si avvicinava la Pasqua, l’ultima da Lui vissuta e si mise in viaggio percorrendo, come vedremo con gli episodi e le località che seguiranno, la strada più lunga, cioè quella che passava per Gerico, la stessa ove aveva ambientato la parabola detta del “Buon Samaritano”.

Nell’occasione di questo ultimo viaggio verso Gerusalemme, Marco annota quanto gli riferisce l’apostolo Pietro, che fu al pari degli altri colpito da tre elementi, per primo il fatto che “Gesù camminava davanti a loro”, cioè al gruppo di persone che lo seguivano sul cui numero non possiamo dire salvo che quando leggiamo “presi in disparte i Dodici” dovevano essere tante.

Abbiamo quindi un primo atteggiamento di Gesù che cammina davanti al gruppo: perché? Non per fare da guida, non perché non desiderasse avere compagnia durante il viaggio, ma in quanto sapeva ciò che lo attendeva, vale a dire la conclusione del Suo Ministero terreno per morte violenta e non vedeva l’ora che tutto ciò si verificasse, come già aveva dichiarato in Luca 12.50: “Ho un battesimo nel quale sarò battezzato, e come sono angosciato finché non sia compiuto”.

“Battesimo” da “baptìzo”, cioè immergere. Non in acqua, non nello Spirito, ma nella sofferenza, nel sangue fino alla morte ignominiosa sulla croce, come poi dirà dettagliatamente nei versi da 33 a 34.

Abbiamo poi, sempre soffermandoci sul verso di Luca, “come sono angosciato”, di difficile traduzione dal greco “sunéxo” utilizzato nel Nuovo Testamento per indicare tormento o acuto dolore continui (Matteo 4.24 “conducevano a lui tutti i malati, tormentati da varie malattie e dolori”), uno stato d’animo che perdura nel tempo (2 Corinti 5.14 “L’amore del Cristo ci possiede”), il conflitto fra due opposti intenti (Filippesi 1.23 “Sono stretto fra queste due cose: ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; ma per voi è più necessario che io rimanga nel corpo”), e infine timore accompagnato da angoscia (Luca 8.37 “…la popolazione del territorio dei Gheraséni gli chiese che si allontanasse da loro, perché avevano molta paura”). Possiamo quindi ragionevolmente supporre che nello stato d’animo di Gesù ci fossero tutti questi elementi assieme. Sunéxo, da dizionario di greco antico, ha come terzo significato proprio “l’essere costretto, stretto, oppresso da qualcosa”, mai da qualcuno, per cui va da sé che si tratti di un pensiero o da una situazione che causa quel tipo particolare di sofferenza.

Il camminare di Gesù “davanti a loro”, allora, testimonia il Suo atteggiamento interno: agisce volendo accelerare i tempi, andando incontro al Suo arresto, ai processi, alle violenze sulla sua persona che si risolveranno nella morte di croce. E i discepoli ne furono impressionati e temettero perché avevano ben presente il fatto che, a Gerusalemme, si sarebbero verificati eventi non da loro controllabili. Erano impauriti, credo, perché non lo avevano mai visto così, evidentemente più di quanto, in Luca 9.51 dopo la Trasfigurazione, leggiamo letteralmente “…ed egli indurì il volto per andare a Gerusalemme”.

E, ben conoscendo il loro stato d’animo, (“sgomenti” e “impauriti”), ecco che Gesù prende “di nuovo in disparte i Dodici” – non la folla che lo seguiva – per ripetere appunto “di nuovo”, cioè per la terza volta, ciò che dovevano sapere e che non avevano ancora compreso.

Luca, dopo “Ecco, noi saliamo a Gerusalemme” aggiunge “e tutte le cose scritte dai profeti attorno al Figlio dell’uomo saranno adempiute”, quindi quelle strettamente attinenti alle sue sofferenze fisiche e morali di cui troviamo dettagliata descrizione nel Salmo 22 e nel capitolo 53 del profeta Isaia che qui non riporto ma che andrebbero lette, senza trascurare Daniele 9. 26, “Un consacrato sarà soppresso senza colpa in lui”. Non si possono non sottolineare in proposito le parole di Stefano in atti 4.27,28, “Davvero in questa città Erode e Ponzio Pilato, con le nazioni e i popoli d’Israele, si sono alleati contro il tuo santo servo Gesù, che tu hai consacrato – ecco il rimando a Daniele – per compiere ciò che la tua mano e la tua volontà avevano deciso che avvenisse”.

A questo punto Gesù, che non poteva fermarsi ad un richiamo ai profeti, specifica: “sarà consegnato ai capi sacerdoti e agli scribi”, cioè a coloro che, fino a quel momento, erano stati impotenti a confutare la Sua dottrina e soprattutto a catturarlo; “lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani”, inequivocabile riferimento ai Romani che detenevano l’ordine pubblico in città. Le parole “lo derideranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo uccideranno e dopo tre giorni risorgerà” sono il vero aggiornamento alle parole di Davide, Isaia e Daniele perché, dalla lettura dei loro testi che abbiamo prima indicato, sono dettagli che non rileviamo, ma che possiamo intuire: “Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la bocca; era come un agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori” (Isaia 53.7).

I Dodici erano chiamati a sapere tutte queste cose, ma Luca, a conclusione della spiegazione di Gesù, scrive “Ma quelli non compresero nulla di tutto questo; quel parlare restava oscuro per loro e non capivano ciò che egli aveva detto”: sono tre situazioni che denotano l’incapacità dell’uomo naturale a comprendere le cose di Dio, come dimostreranno di lì a poco Giacomo, Giovanni e la loro madre Salome.

I Dodici, Giuda a parte perché i suoi pensieri erano altri e opposti, avevano dato prova di una forte abnegazione, avevano seguito il loro Maestro fin lì, avevano avuto il mandato di guarire e predicare, eppure ora si ritrovano incapaci di comprendere perché le loro convinzioni impedivano loro una corretta interpretazione di quelle parole: Gesù era “il Cristo, il Figlio dell’Iddio vivente” e come tale non poteva morire. Era il Messia vittorioso e come tale non sarebbe stato mai sconfitto e nella prospettiva profetica dell’eternità avevano ragione, ma come accettare che Dio potesse morire, anche se per soli tre giorni? Quando mai la vittoria ha conosciuto umiliazione? In base alla loro esperienza, Gesù fino ad allora era passato indenne non solo di fronte a qualunque complotto, ma anche ai tentativi di lapidazione e a Nazareth se ne era allontanato da quanti volevano gettarlo giù da una rupe, quindi “quel parlare rimaneva per loro oscuro” nel senso che, anche ragionandoci attorno, con tutte le esperienze pregresse che avevano fatto al riguardo, non riuscivano a trovare un significato, una ragione, un perché. E restarono muti perché “non capivano ciò che egli aveva detto”, quasi parlasse una lingua diversa dalla loro.

La stessa cosa capita molto spesso ai credenti quando si trovano di fronte a passi difficili della Scrittura, Antica o Nuova che sia, ma purtroppo anche a versi semplici dove devono mettersi in gioco praticando ciò che trovano scritto.

Le parole udite dai Dodici erano talmente fuori dalla loro comprensione che le dimenticarono subito (salvo ricordarsene per lo Spirito più avanti) giungendo a non credere a Maria Maddalena (e alle altre donne) che, dopo avere visto e parlato con Gesù risorto, “…andò ad annunciarlo a quanti erano stati con lui ed erano in lutto e in pianto. Ma essi, udito che era vivo e che era stato visto da lei, non credettero” (Marco 16.10,11).

Ricordiamo anche le parole dei due discepoli che incontrarono Gesù lungo la strada di Emmaus quando, non avendolo riconosciuto perché “i loro occhi erano impediti a riconoscerlo”, gli dissero “Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele – ecco la concezione terrena del Messia –; con tutto ciò sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. Ma alcune donne, delle nostre – quindi persone non estranee, coinvolte al pari di loro – ci hanno sconvolti: si sono recate al mattino alla tomba e, non avendo trovato il suo corpo, sono venute a dirci di avere avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. Alcuni dei nostri sono andati alla tomba e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l’hanno visto”, quindi devono essersi per forza sbagliate (Luca 24.21-24).

Circa la mancata comprensione delle parole di Gesù, possiamo citare altre occasioni, la prima delle quali in Luca 2.50 dove, alle Sue parole quando si trovava fra i maestri nel Tempio “Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?” è scritto che Giuseppe e Maria “Non compresero ciò che aveva detto loro”. Ancora, come certamente ricorderemo, la nota al secondo annuncio della Passione, “Essi però non capirono queste parole: restavano per loro così misteriose che non ne coglievano il senso e avevano timore di interrogarlo su questo argomento”.

La stessa cosa avvenne all’esposizione dell’identità di Gesù con il pastore delle pecore: “Ma essi non capirono di che cosa parlava loro” (Giovanni 10.6) così come quando vi fu l’ingresso trionfale a Gerusalemme è scritto che “i suoi discepoli sul momento non compresero queste cose; ma, quando Gesù fu glorificato, si ricordarono che di lui erano state scritte queste cose e che a lui essi le avevano fatte” (Giovanni 12.16). E comunque anche noi, se ci voltiamo indietro e passiamo in rassegna la nostra vita trascorsa, possiamo renderci conto di quante cose non capivamo, pur avendole a portata di mano: scelte da fare che abbiamo sbagliato, percorsi da intraprendere dai quali ci siamo tenuti lontani, rinunce irrisolte, concetti trascurati, pensieri insufficienti.

E mi viene in mente che, alla Croce, Gesù fu realmente solo perché a parte la presenza di sua madre e le altre donne con Giovanni, gli altri non c’erano; soprattutto, avvertiva tutto l’odio che Lo circondava, la derisione, l’indifferenza

Quanto avvenne in tutti questi episodi, compreso quello qui esaminato brevemente, assume per il credente un significato importante e cioè che tutto quanto ha acquisito finora, indipendentemente dagli anni che possa avere, va sempre approfondito, scoperto e riscoperto, affrontando un cammino spirituale anche lento, che più di quello rapido dà più possibilità di realizzazione a meno che il Signore non decida diversamente. Occorre rivisitare direi continuamente le posizioni che abbiamo assunto davanti a Dio tramite un esame che ci distolga il più possibile, come i Dodici in questo terzo annuncio, dai nostri preconcetti o da un metodo di pensiero che, forse, appartiene a una tradizione nostra, umana, che va ad inquinare e rallenta il nostro cammino spirituale. Amen.

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15.26 – CAIAFA, SOMMO SACERDOTE (Giovanni 11.47-57)

15.26 – Caiafa, sommo sacerdote (Giovanni 11.47-57)

 

47Allora i capi dei sacerdoti e i farisei riunirono il sinedrio e dissero: «Che cosa facciamo? Quest’uomo compie molti segni. 48Se lo lasciamo continuare così, tutti crederanno in lui, verranno i Romani e distruggeranno il nostro tempio e la nostra nazione». 49Ma uno di loro, Caifa, che era sommo sacerdote quell’anno, disse loro: «Voi non capite nulla! 50Non vi rendete conto che è conveniente per voi che un solo uomo muoia per il popolo, e non vada in rovina la nazione intera!». 51Questo però non lo disse da se stesso, ma, essendo sommo sacerdote quell’anno, profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione; 52e non soltanto per la nazione, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi. 53Da quel giorno dunque decisero di ucciderlo.
54Gesù dunque non andava più in pubblico tra i Giudei, ma da lì si ritirò nella regione vicina al deserto, in una città chiamata Èfraim, dove rimase con i discepoli. 55Era vicina la Pasqua dei Giudei e molti dalla regione salirono a Gerusalemme prima della Pasqua per purificarsi. 56Essi cercavano Gesù e, stando nel tempio, dicevano tra loro: «Che ve ne pare? Non verrà alla festa?». 57Intanto i capi dei sacerdoti e i farisei avevano dato ordine che chiunque sapesse dove si trovava lo denunciasse, perché potessero arrestarlo.

 

“Allora” è un chiaro riferimento al fatto che “molti dei Giudei, visto tutto ciò che Gesù aveva fatto, credettero in lui”. La conseguenza non poté essere che una sola e cioè una forte preoccupazione per il futuro di tutto quel sistema politico-religioso esistente. Notiamo che i capi dei sacerdoti e i farisei, riunito il Sinedrio, non negano affatto la verità (“quest’uomo fa molti segni”), ma non la vogliono accettare per cui qualunque altro miracolo fosse stato prodotto non avrebbe avuto alcun effetto su di loro. Ecco perché disse “Questa generazione è una generazione malvagia; essa cerca un segno, ma non le sarà dato alcun segno, se non quello di Giona” (Luca 11.29)

È molto importante la parola usata, cioè “segni”, non “miracoli” perché, anche se potrebbe sembrare che indichino la stessa cosa, così non è perché il “segno” è qualcosa che viene inequivocabilmente da Dio o è da lui ordinato, mentre il miracolo può essere anche qualcosa di simulato, di presunto. Ricordiamo tra i “segni” l’arcobaleno quale “segno dell’alleanza che io pongo fra me e voi” (Genesi 9.12), la circoncisione, “segno dell’alleanza fra me e voi”, tutti i grandi avvenimenti narrati nel libro dell’Esodo e così via fino alla visione dell’apostolo Giovanni in Apocalisse 15.1 quando scrive “E vidi nel cielo un altro segno, grande e meraviglioso: sette angeli che avevano sette flagelli; gli ultimi, poiché con essi è compiuta l’ira di Dio”.

Quindi, dicendo “quest’uomo fa molti segni”, in pratica quei Giudei è come se dicessero “Quest’uomo dimostra di essere davvero ciò che dice: cosa facciamo?”.

La prima riflessione fattibile è quindi rimarcare la differenza fra quanti credettero in Gesù grazie alla risurrezione di Lazzaro, che “non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio”, e coloro che invece “andarono dai farisei, e riferirono loro ciò che Gesù aveva fatto”: gli uni fanno una scelta di vita, gli altri di morte, perché vogliono far sì che venisse annullato, in quale modo non sapevano, quel “segno” che parlava infinitamente più dei miracoli di guarigione degli indemoniati quando fu detto “Se io scaccio i demòni per mezzo dello Spirito di Dio, allora è giunto a voi il regno di Dio” (Matteo 12.18).

Di fronte alla risurrezione di Lazzaro alcuni capitolano di fronte all’evidenza di Gesù come Signore, altri persistono in una fede che non aveva più senso ignorando deliberatamente il fatto che quei Cherubini posti a guardia di Eden con “la fiamma della spada guizzante” erano stati in un certo senso tolti perché “Io sono la via, io sono la verità e la vita. Solo per mezzo di me si va al Padre” (Giovanni 14.6). Quindi si era aperta la via per un futuro certo di beatitudine. L’uomo, che indubbiamente può fare molto coi propri mezzi per determinare il proprio futuro terreno (ammesso che non trovi ostacoli insuperabili), nulla può per quello spirituale. Gesù, poi, era ed è l’unica via proprio perché Dio fattosi uomo, cioè in tutto simile a noi quanto al corpo.

La riunione del concistoro, quindi del Sinedrio, organizzata dai “capi dei sacerdoti e i farisei”, ci riporta a Salmo 2.2, “Insorgono i re della terra e i prìncipi congiurano insieme contro il Signore e il suo consacrato”, dove vediamo applicato un primo riferimento del verso, in attesa di tutti gli altri in cui i “re della terra e i prìncipi” sono identificabili coi persecutori della Chiesa dalle origini fino agli ultimi tempi in cui l’Avversario stabilirà l’Anticristo che si identificherà con la Bestia cui “fu concesso di fare guerra contro i santi e di vincerli, le fu dato potere sopra ogni tribù, popolo, lingua e nazione. La adoreranno tutti gli abitanti della terra, il cui nome non è scritto nel libro della vita dell’agnello, immolato fin dalla fondazione del mondo” (Apocalisse 13.7,8).

Il comportamento di coloro che riuniscono il concistoro per perorare la causa dell’annientamento di Gesù, è cambiato ed esprime molta più preoccupazione rispetto a quando, alla Festa delle Capanne, consideravano chi aveva creduto in Lui come un fatto solo disturbante: allora infatti, alle guardie che non riuscirono ad arrestarlo perché dissero “Mai un uomo ha parlato così”, replicarono “Vi siete lasciati ingannare anche voi? Ha forse creduto in lui qualcuno dei capi, o dei farisei? Ma questa gente, che non conosce la Legge, è maledetta!” (Giovanni 7.45-49). Ora, invece, è tutto diverso perché “Molti dei Giudei (…) vedendo ciò che aveva compiuto, credettero in lui”.

Ciò che viene paventato al concistoro è descritto al verso 48, “Se lo lasciamo continuare così, tutti crederanno in lui, verranno i romani e distruggeranno il nostro tempio e la nostra nazione”: Gesù, secondo loro, se non fermato avrebbe proseguito nella sua opera, i miracoli sarebbero aumentati e avrebbero finito per convincere altri che – attenzione – non si sarebbero ribellati ai Romani, ma fondamentalmente al Sinedrio che non avrebbe avuto più alcun potere ponendo fine a quello stato di indipendenza relativa che la Nazione ebraica ancora possedeva, svolgendo quell’Organo una funzione di mediazione nella vita politica e religiosa del Paese.

Poi naturalmente c’è un discorso squisitamente politico: i Romani diffidavano degli ebrei, sapevano che erano sempre pronti a insorgere e, proprio partendo da come la predicazione di Gesù si sarebbe sviluppata, era facile prevedere che le folle sarebbero accorse a Lui in massa, lo avrebbero fatto re d’Israele in contrapposizione al procuratore di Gerusalemme e all’imperatore di Roma provocando l’intervento militare che avrebbe fatto strage di israeliti, distruggendo il Tempio e la nazione. È curioso notare che tutti questi timori si concretarono nel 70, quando Nostro Signore era salito al Padre da 37 anni circa.

 

Il Sinedrio teneva le sue riunioni in un luogo del Tempio chiamato “l’aula della pietra squadrata” oppure, per i casi d’emergenza, nella casa del sommo sacerdote che lo presiedeva. Tutti sedevano a semicerchio di modo che potessero vedersi fra loro; il presidente, appunto il sommo sacerdote, sedeva nel centro e gli anziani a destra e a sinistra di lui. Il Sinedrio contava settanta membri più il presidente, ma la sua seduta era legale se le presenze erano almeno ventitré: c’erano allora, nella riunione di cui parla Giovanni, coloro che avevano creduto in Gesù? Alla luce del numero legale, credo di no anche perché partecipare a quell’assemblea avrebbe provocato in loro non pochi problemi di coscienza. Se mai, non si può escludere ci fossero i discepoli di Gesù “ma in occulto, per paura dei Giudei”, come Nicodemo.

A questo punto emerge la figura di Giuseppe Caiafa, o Caifa, che incontreremo spesso da qui in poi, che deteneva l’ufficio di sommo sacerdote assieme ad Anna, padre di quell’ “eccellentissimo Teofilo”, anche lui sommo sacerdote, cui Luca dedica il Vangelo e gli Atti. Anna, suocero di Caiafa, era stato deposto dalla sua carica nell’anno 15 dal procuratore romano Valerio Grato, lo stesso che poi eleggerà nel 18 Caiafa al suo posto, che vi rimase fino al 36. Il fatto che Giovanni scriva di lui “sommo sacerdote di quell’anno” ha lasciato ipotizzare che sia Anna che Caiafa si succedessero alla carica un anno ciascuno. Entriamo qui in un campo problematico perché, se per la Legge la funzione di sommo sacerdote durava per tutta la vita, siamo in un tempo in cui Israele era comunque soggetto ai Romani che nominavano e destituivano i sommi sacerdoti a loro piacimento proprio come fece Valerio Grato, predecessore di Ponzio Pilato. Comunque, a quel tempo i sommi sacerdoti erano due, uno in carica e l’altro – verrebbe da dire – “supplente”, per quanto fosse Anna che deteneva il maggior rispetto proprio perché, legalmente, il sommo sacerdozio spettava a lui.

A questo punto cerchiamo di esaminare le parole di Caiafa che in questa circostanza non parlò come un uomo comune, ma “profetizzò” essendo “sommo sacerdote di quell’anno”, cioè la sua carica – a prescindere dal fatto che stava per venire chiusa la dispensazione della Legge – lo poneva comunque come responsabile – mi si passi il termine – della comunicazione fra JHWH e il popolo ragion per cui, pur essendo convinto di parlare da se stesso, in realtà in quel momento veniva usato da Dio per stabilire una verità fondamentale e cioè che “è conveniente per voi che un solo uomo muoia per il popolo, e non vada in rovina la nazione intera”: anche qui abbiamo una frase che ha una doppia lettura, la prima della quale è politica e sulla quale è inutile soffermarsi, mentre la seconda è così sottile da costringere l’apostolo alla nota del verso 51 in cui afferma che Gesù non doveva morire “solo per la nazione, ma per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi”, come “pecore senza pastore”. Così scrive l’apostolo Pietro nella sua prima lettera: “Eravate erranti come pecore, ma ora siete stato ricondotti al pastore e custode delle vostre anime” (1.25): può esservi un custode più perfetto?

“È conveniente che uno solo muoia per il popolo” ha così due letture, quella di Caiafa e quella dello Spirito; nel primo caso si voleva che fosse risolto il problema di eventuali massacri da parte dei Romani, nel secondo, quello appunto dello Spirito che aveva parlato tramite Caiafa, il perdono dei peccati sarebbe potuto venire solo dal sacrificio dell’Agnello di Dio e non da un animale, per quanto innocente. Certo che quel sommo sacerdote non era consapevole del doppio senso della frase, ma lo Spirito aveva parlato così, nonostante l’indegnità del personaggio che dalle sue parole iniziali, “Voi non capite nulla”, originale “Non avete nessuna conoscenza”, con cui Caiafa manifesta tutto il suo disprezzo verso i suoi non simili.

Certo quest’uomo, inconsapevolmente, con la nota di Giovanni richiama Isaia 49.6 quando, nel secondo canto del Servo, scrive “È troppo poco che tu sia mio servo per restaurare le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti d’Israele. Io ti renderò luce delle nazioni, perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra” mentre lo stesso apostolo ha nella prima lettera “Se qualcuno ha peccato, abbiamo un Avvocato presso il Padre: Gesù Cristo, il giusto. È lui la vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo”. Ecco quindi dove risiede il significato delle parole di Caiafa, personaggio accomunabile a Balaam, mago e incantatore di cui possiamo leggere in Numeri 24.1-10. Senza andare così lontano, riguardo al fatto che Dio si serve degli uomini senza che questi ne siano consapevoli, credo possa bastare anche il censimento voluto da Cesare Augusto, che consentì a Gesù di nascere a Betlehem e non a Nazareth come sarebbe altrimenti avvenuto, vanificando le profezie su di Lui attestanti il fatto che sarebbe nato, appunto, là.

Proseguendo la lettura del nostro testo, vediamo che “da quel giorno cercavano di ucciderlo” nel senso che lì si prese la decisione ufficiale, quella che Gesù venne a sapere e che fece sì che si spostasse nel territorio di Efraim. Evidentemente, quella notizia venne anche alle orecchie di Giuda perché proprio al verso 57 leggiamo “Intanto i capi dei sacerdoti e i farisei avevano dato ordine che chiunque sapesse dove si trovava lo denunciasse, perché potessero arrestarlo”: chi meglio di lui poteva farlo? Se chiunque avrebbe potuto segnalare la presenza di Gesù da qualche parte, Giuda avrebbe potuto farlo catturare stando dall’interno del gruppo dei discepoli, indicandolo con precisione a chi non lo conosceva salutandolo e baciandolo di fronte a tutti. E considero terribili le parole che gli disse, “Salve – cioè salute a te – Maestro!” (Matteo 26.48).

Concludendo queste riflessioni: da qui in poi abbiamo la ferma decisione del Sinedrio di eliminare Gesù una volta per tutte. L’intervento di Caiafa ufficializza inconsapevolmente una verità fondamentale sul ruolo del Cristo e in un certo senso anticipa le Sue parole nel terzo annuncio della passione, quando cercò di far capire ai discepoli ciò che sarebbe successo e non volendo che si trovassero impreparati. E pregò per essi, affinché la loro fede non venisse meno. Amen.

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