15.22 – La morte di Lazzaro (Giovanni 11.1-16)
1Un certo Lazzaro di Betània, il villaggio di Maria e di Marta sua sorella, era malato. 2Maria era quella che cosparse di profumo il Signore e gli asciugò i piedi con i suoi capelli; suo fratello Lazzaro era malato. 3Le sorelle mandarono dunque a dirgli: «Signore, ecco, colui che tu ami è malato».
4All’udire questo, Gesù disse: «Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato». 5Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro. 6Quando sentì che era malato, rimase per due giorni nel luogo dove si trovava. 7Poi disse ai discepoli: «Andiamo di nuovo in Giudea!». 8I discepoli gli dissero: «Rabbì, poco fa i Giudei cercavano di lapidarti e tu ci vai di nuovo?». 9Gesù rispose: «Non sono forse dodici le ore del giorno? Se uno cammina di giorno, non inciampa, perché vede la luce di questo mondo; 10ma se cammina di notte, inciampa, perché la luce non è in lui». 11Disse queste cose e poi soggiunse loro: «Lazzaro, il nostro amico, si è addormentato; ma io vado a svegliarlo». 12Gli dissero allora i discepoli: «Signore, se si è addormentato, si salverà». 13Gesù aveva parlato della morte di lui; essi invece pensarono che parlasse del riposo del sonno. 14Allora Gesù disse loro apertamente: «Lazzaro è morto 15e io sono contento per voi di non essere stato là, affinché voi crediate; ma andiamo da lui!». 16Allora Tommaso, chiamato Dìdimo, disse agli altri discepoli: «Andiamo anche noi a morire con lui!».
L’episodio della morte e resurrezione di Lazzaro occupa nel Vangelo di Giovanni un posto particolare: è il settimo ed ultimo da lui narrato e, rispetto ai precedenti, viene arricchito di una gran quantità di particolari; delle resurrezioni operate da Gesù è la terza, quella che scatenò, nei capi dei saceroti e dei farisei, l’assoluta determinazione di ucciderLo. Si tratta di una vicenda che ci costringe a raccogliere dei dati importanti e a fare riflessioni anche particolari.
Sappiamo dell’esistenza di Lazzaro, il cui nome significa “Dio aiuta”, solo in questo Vangelo poiché i sinottici parlano di Marta e Maria sua sorella minore; non a caso Giovanni nei primi due versi si preoccupa di inquadrare questa famiglia, citando il gesto di Maria nel cospargere “di profumo il Signore”. Se quindi abbiamo dei dati sulle due sorelle, nulla sappiamo del mestiere o del carattere di Lazzaro, ma in compenso, dal messaggio che le due sorelle gli mandano, “Signore, ecco, colui che tu ami è infermo” e dalla nota dello stesso Giovanni, “Gesù amava Marta, sua sorella e Lazzaro”, notiamo la presenza di un sentimento particolare. Questo verrà ribadito poi al verso 11 quando viene detto “Lazzaro, il nostro amico, si è addormentato”.
Già da questi particolari brevemente raccolti abbiamo materiale su cui lavorare e la prima cosa che personalmente ho sottolineato è che Marta, Maria e Lazzaro ebbero con Gesù un rapporto particolare senza diventare discepoli, per lo meno non nel senso comunemente inteso, vale a dire entrando nel numero di quelli che lo seguivano ovunque andasse dopo aver rinunciato a una vita normale fatta di lavoro, famiglia e pratiche religiose.
Ora, ragionando su queste tre persone vediamo che il fatto di restare a casa propria senza vendere tutto, darlo ai poveri e seguire Gesù non impedì a Marta di occuparsi dell’ospitalità ed aiutare con le sue competenze Lui e i discepoli, né a Maria, la più propensa alla riflessione spirituale, di elaborare verità e fatti che la porteranno ad agire con la famosa unzione che esamineremo, che porterà a queste parole del Maestro: “Versando questo profumo sul mio corpo, lei lo ha fatto in vista della mia sepoltura. In verità io vi dico: dovunque sarà annunciato questo Vangelo, nel mondo intero, in ricordo di lei si dirà anche ciò che ha fatto”.
Del terzo personaggio della famiglia, Lazzaro, si può dire solo che certamente non era diverso dalle sorelle quanto ad attitudine a ricevere il Vangelo perché altrimenti Gesù non lo avrebbe amato né avrebbe usato la parola “amico”, che certo nessuno impiega per indicare una persona indifferente. Va poi rivolto uno sguardo attento ai verbi usati, nel caso di specie l’ “ami” al verso terzo, riferito a Lazzaro, e l’ ”amava” al quinto, al nucleo famigliare: l’amore per Lazzaro è indicato con “filèin”, che indica l’affezione verso una persona cara, che nel caso dei tre personaggi è “agapàn”, impiegato per indicare delle persone che si sono scelte e per le quali si nutre un sentimento volto a costruire qualcosa: è un verbo meno appassionato rispetto al primo, ma sicuramente più elevato. E tutti e tre godevano di questa attenzione affettiva di Nostro Signore.
Altra annotazione va fatta sul termine “nostro amico”, quindi anche del discepoli, che nel Nuovo Testamento è utilizzato solo qui, riferito ad un rapporto che Gesù aveva con una persona e viene da pensare che Lazzaro non era ritenuto un semplice conoscente anche da parte di tutti gli altri. L’essere “amico” ci fa ritenere allora Lazzaro come una persona che aiutava e favoriva apertamente Gesù e il suo gruppo. Se Lui, che chiamò i discepoli “amici miei” in Luca 12.4, con “nostro amico” allude a intimità, condivisione, partecipazione. E non possiamo che concludere con Giovanni 15.13-15: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici – quindi Gesù per tutti coloro che avrebbero creduto in Lui per essere salvati –. Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che io ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi”.
Tornando al nostro testo non possiamo trascurare nemmeno il villaggio di Betania, che significa “casa del pane”, villaggio che “distava da Gerusalemme meno di tre chilometri” (11.18), dove Gesù aveva persone che credevano in Lui ed erano piene di gratitudine per i benefici ricevuti, come Simone il lebbroso che aveva organizzato il famoso convito (Matteo 26, Marco 14). Sempre in quel villaggio Nostro Signore si recava per dormire quando si intratteneva in città, come quando “entrò a Gerusalemme, nel tempio. E dopo aver guardato ogni cosa attorno, essendo ormai l’ora tarda, uscì con i dodici verso Betania” (Marco 11.11). Appena fuori di questo villaggio avvenne l’episodio del fico sterile (Marco 11.12) e, sempre nello stesso capitolo, fu in un paese vicino che i discepoli avrebbero trovato quel “puledro legato” che verrà utilizzato per l’ingresso di Gesù a Gerusalemme: “Andate nel villaggio di fronte a voi e subito, entrando in esso, troverete un puledro legato, sul quel nessuno è ancora salito. Slegatelo e portatelo qui. E se qualcuno vi dirà: «Perché fate questo?», risponderete «Il signore ne ha bisogno, ma lo rimanderà qui subito»” (vv.2-4).
Dopo aver brevemente inquadrato l’ambiente, veniamo agli eventi: Gesù, che si trovava nella Perea, viene raggiunto da un messaggero delle due sorelle; sono otto parole, “Signore, ecco, colui che tu ami è malato”: non è una comunicazione ordinaria nel senso che tutto lascia intuire tanto l’urgenza che la gravità delle condizioni in cui versava Lazzaro perché non Lo avrebbero certo disturbato per una semplice febbre. Piuttosto, in quell’ “ecco”, traducibile anche con “vedi”, rileviamo tutto lo stupore per quanto stava succedendo in quanto, molto probabilmente, tutta la famiglia era ancora legata al concetto di benedizione dell’Antico Patto, quando la malattia e altri inconvenienti erano esclusi. Può anche essere che le due sorelle fossero comunque convinte che, credendo, potessero essere risparmiate da grandi sofferenze come poteva essere la morte di un loro caro, di trovarsi al riparo da quanto può turbare anche gravemente la salute di una persona. Allo stesso tempo vediamo che manca qualsiasi riferimento alla necessità di una presenza di Gesù in loco, ma quelle parole contengono una dichiarazione di fede, quasi a dire “fa’ come ritieni giusto”.
A questo punto accade qualcosa di anomalo rispetto ad altri miracoli precedentemente operati: Lazzaro non viene guarito né immediatamente, né a distanza come in altri casi (ricordiamo il figlio del funzionario reale in 4.43-54 o il servo del centurione in Matteo 8.5-13), non viene dato un messaggio teso a tranquillizzare le sorelle del tipo “state tranquille, ci penso io”, ma abbiamo la consegna, al messaggero e ai presenti, di una verità difficile in quel momento da capire e per noi da interpretare: “Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato” (v.4). Pensiamo a cosa avrebbero capìto Marta e Maria: il loro fratello non sarebbe morto; però, restava da risolvere il significato delle altre parole, perché se Lazzaro fosse guarito naturalmente, nel senso che la febbre lo avesse abbandonato, che quella malattia fosse stata “per la gloria di Dio” non avrebbe avuto senso.
Se invece prendiamo le parole di Gesù intendendo che “Questa malattia non poterà alla morte” intesa come fine di tutto, di separazione dell’anima e dello spirito dal corpo che si corromperà fino alla polvere, le possiamo inquadrare nel loro significato corretto perché l’infermità di Lazzaro non lo avrebbe ucciso. Gesù, contrariamente alle aspettative delle due sorelle, non guarisce subito Lazzaro liberandole dall’angoscia perché la “Gloria di Dio” e il fatto che “per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato” sono il vero fine di quella malattia che sarebbe sfociata in una morte sì, ma temporanea. E il miracolo che il Figlio di Dio avrebbe compiuto lo avrebbe “glorificato” proprio perché con esso avrebbe inequivocabilmente dimostrato di essere tale e infatti sappiamo che fu proprio quella resurrezione a generare, come detto all’inizio, la decisione assoluta di ucciderLo assieme a Lazzaro. Ricordiamo le parole “Molti dei Giudei che erano venuti a Maria, considerato tutto quanto che Gesù aveva fatto, credettero in lui. Ma alcuni di loro andarono dai farisei, e dissero loro ciò che Gesù aveva fatto”.
I credenti dovrebbero tenere sempre presente che, per chi ha posto la propria fede nel Figlio di Dio, non può esistere nessuna malattia che “porta alla morte” così come nessuna morte è veramente tale perché si tratta solo di un passaggio di stato, diverso e soprattutto migliore nel senso più vero del termine. Questo non toglie che la dipartita di una persona cara ci lasci deserti, che il dolore provato non assomigli alla sradicazione di un albero piantato nel cuore, che il silenzio e il vuoto che lascia siano importanti, ma se l’amore che si porta verso questo fratello o sorella è vero, non potrà mai “tramontare il sole” proprio sulla nostra sofferenza e penseremo a chi è venuto a mancare come un essere finalmente libero dal proprio corpo di carne ora alla presenza del Padre, cosa che non ha fatto altro che aspettare per tutta la sua vita spirituale terrena.
Tornando alla cronologia del racconto, anche il verso 6 è particolarissimo, perché dopo la nota sui sentimenti di Gesù verso Marta, Maria e Lazzaro, leggiamo “Quando sentì che era malato, rimase per due giorni nel luogo dove si trovava”, che parrebbe farci optare per un disinteresse nei confronti dell’amico morente, o forse già morto visto che, quando raggiungerà Maria, questa gli dirà “Signore, manda già cattivo odore: è lì da quattro giorni” (v.39). Al contrario, il comportamento di Gesù è assimilabile a quello già avuto quando, trovandosi coi discepoli sulla barca, dormiva mentre tutti gli altri si affannavano e lo svegliarono dicendo “Maestro, non t’importa che siamo perduti?” (Marco 4.38). In entrambi gli episodi tutto ciò che avrebbe dovuto fare Gesù era stato fatto: nel caso delle due sorelle c’erano state le sue parole, “questa malattia non porterà alla morte”, che avrebbero dovuto essere sufficienti, in quello dei discepoli sulla barca c’era la Sua presenza e il Suo stesso sonno, sinonimo di tranquillità assoluta e antitesi di qualunque timore.
Da tutto questo possiamo dedurre che ogni qualvolta veniamo assaliti dal timore di non poter uscire da una situazione che tutti umanamente giudicherebbero insuperabile – come la morte e una tempesta in cui la barca affonda soffocata dalle onde –, ciò è dovuto alla carne che domina esattamente come agisce su tutti gli altri esseri umani che non sanno, né possono, né appartengono, né hanno a che fare con gli interventi diretti di Dio. Qualunque avvenimento umanamente doloroso e angosciante può venire superato con l’abbandonarsi al Padre non perché abbiamo bisogno di un rifugio o di un amico immaginario, di un dio da noi creato come spesso avviene, ma proprio perché consapevoli che per ogni credente esiste un progetto, una protezione diretta che, se passa per la morte, in realtà non lo è perché la prospettiva è quella della vita eterna, l’opposto della “morte seconda” alla quale non esisterà rimedio alcuno.
Nel caso di Lazzaro, leggiamo che appunto dopo i due giorni è Gesù a dire ai suoi “Andiamo in Giudea” (regione in cui si trovava Betania) nel senso che è solo a Lui che spetta, quale Signore di tutte le cose, il momento di operare, intervenire a favore dell’uomo qualunque sia la situazione in cui versa.
Dopo la frase dei discepoli che vollero far notare al loro Maestro l’inopportunità della cosa, “I Giudei poco fa cercavano di lapidarti e tu ci vai di nuovo?” e la relativa spiegazione, cioè dopo aver risposto che nulla poteva accadergli di negativo fino a quando non sarebbe giunta la sua ora, abbiamo un’altra espressione che dovrebbe dirci molto, ma che così non fu per i discepoli: “Lazzaro, il nostro amico, si è addormentato, ma io vado a svegliarlo”. Questo ci riconduce a un’altra espressione che Gesù uso con i presenti alla morte della figlia di Giàiro, “La fanciulla non è morta, ma dorme” (Matteo 9.24). A quell’affermazione leggiamo che “la gente lo derideva”, qui invece abbiamo, dimentichi di quelle parole, le parole dei discepoli, “Signore, se si è addormentato, si salverà”, incapaci di capirne il senso. In entrambi i passi, poi, c’è a dominare su tutto quel “ma” di Gesù, il solo in grado di cambiare la storia e le strade di una persona, o di un popolo, o del mondo intero.
“Io vado a svegliarlo”: solo Lui, che aveva “le chiavi della morte e degli inferi” (Apocalisse 1.18) lo poteva fare e infatti leggiamo “Lazzaro è morto e io sono contento per voi di non essere stato là, affinché voi crediate; ma andiamo da lui” (v.15). Perché “contento per voi”? Perché i discepoli erano già stati testimoni di altre due eventi analoghi di persone morte da poco, per cui se si fosse trovato a Betania alla morte di Lazzaro quella resurrezione avrebbe potuto venire interpretata soltanto come la terza del Suo Ministero. Oppure, sempre se fosse stato là, lo avrebbe potuto guarire come fece con la suocera di Pietro. Resuscitando invece un cadavere a quattro giorni dal decesso, quando gli effetti della decomposizione iniziavano a farsi sentire con l’odore, avrebbe realmente potuto dimostrare che “nulla è impossibile a Dio”.
Le parole “affinché voi crediate” indicano non il fatto che i discepoli vedendo quel miracolo avrebbero creduto in Lui – lo avevano già fatto – ma proprio capissero che fosse il Signore nel senso più ampio del termine, in grado di chiamare un’anima dalla morte e risuscitare il corpo che la conteneva. Amen.
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