15.25 – LA RISURREZIONE DI LAZZARO (Giovanni 11.38-46)

15.25 – La risurrezione di Lazzaro (Giovanni 11.38-46)

 

38Allora Gesù, ancora una volta commosso profondamente, si recò al sepolcro: era una grotta e contro di essa era posta una pietra. 39Disse Gesù: «Togliete la pietra!». Gli rispose Marta, la sorella del morto: «Signore, manda già cattivo odore: è lì da quattro giorni». 40Le disse Gesù: «Non ti ho detto che, se crederai, vedrai la gloria di Dio?». 41Tolsero dunque la pietra. Gesù allora alzò gli occhi e disse: «Padre, ti rendo grazie perché mi hai ascoltato. 42Io sapevo che mi dai sempre ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato». 43Detto questo, gridò a gran voce: «Lazzaro, vieni fuori!». 44Il morto uscì, i piedi e le mani legati con bende, e il viso avvolto da un sudario. Gesù disse loro: «Liberatelo e lasciatelo andare». 45Molti dei Giudei che erano venuti da Maria, alla vista di quello che aveva compiuto, credettero in lui. 46Ma alcuni di loro andarono dai farisei e riferirono quello che Gesù aveva fatto”

 

Gesù quindi, “ancora una volta commosso profondamente” per le ragioni che abbiamo esposto, “si recò al sepolcro” con Marta e Maria seguìto dai Giudei. Il “sepolcro” cui dà cenno Giovanni era, data la famiglia benestante, costruito nel tufo orizzontalmente con un piccolo atrio dal quale si accedeva alla camera funeraria vera e propria. L’atrio era quello che comunicava con l’esterno con una porta che veniva, a sepoltura ultimata, chiusa da una grossa e pesante pietra che vi veniva fatta rotolare sopra. Questi erano i sepolcri nei terreni collinosi; in quelli pianeggianti lo scavo era verticale.

A questo punto abbiamo l’ordine di Gesù, “Togliete la pietra!” sul quale possiamo fare qualche riflessione: prima, nessuno ne capì il motivo e fu trovato da tutti illogico, Marta per prima. Per lei era assurdo che Nostro Signore potesse far qualcosa per il fratello visto che era lì “da quattro giorni”, proprio quando l’anima, secondo una tradizione giudaica, dopo aver cercato inutilmente per tre giorni di tornare nel corpo, il quarto vi rinunciava e lo abbandonava per sempre. Seconda osservazione riguarda i presenti perché era proibito aprire un sepolcro per evitare la contaminazione dovuta al contatto col cadavere. Suppongo che grande fu la riluttanza in proposito e credo che fu aperto solo perché Gesù a Betania era molto conosciuto.

Terza considerazione la farei sull’ambiente e cioè che lì ogni cosa “sapeva di morte”: abbiamo il dolore per la dipartita di Lazzaro, le lacrime sparse, quel silenzio così anomalo che riflette lo stato d’animo dei presenti, interrotto magari da qualche mormorio o calpestio, comunque un ambiente “pesante”, destinato a mutare radicalmente qualche istante dopo l’ordine di Dio di togliere via la pietra. Quarta considerazione: nessuno sapeva cosa sarebbe successo tranne Gesù, che avrebbe chiamato Lazzaro dalla morte alla vita. E così è sempre, anche nel caso del credente che, nel momento in cui accoglie il Figlio di Dio dentro di sé, risorge a nuova vita: infatti si affida a Colui che “dà vita ai morti e chiama all’esistenza le cose che non esistono” (Romani 4.17) e noi siamo quelli che “da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo” (Efesi 2.5).

Quinta e ultima considerazione: nessuno tra i presenti – è stato già scritto – comprese quell’ordine perché nessun uomo potrà mai comprendere il piano di Dio se Lui stesso non glielo rivela. Isaia 55.8 riporta “I miei pensieri non sono i vostri pensieri e le vostre vie non sono le mie vie”. La presenza di Gesù in quel luogo poteva essere garanzia di consolazione, ma nessuno tra i presenti poteva sapere come avrebbe agito, neppure una volta dato l’ordine di togliere la pietra che copriva l’ingresso del sepolcro.

La risposta di Marta è interessante perché in essa possiamo intravedere due sentimenti il primo dei quali – non necessariamente nell’ordine che le vennero alla mente – è l’assurdità della situazione: aprire un sepolcro con dentro un morto che per giunta già mandava cattivo odore era cosa del tutto inutile; poi, in qualità di sorella maggiore, si preoccupa del fratello non desiderando che il suo corpo fosse disturbato, quindi abbiamo un profondo senso di rispetto per lui.

Anche qui mi viene un paragone con Pietro, forse perché entrambi sono personaggi accomunati da una grande forza d’animo, di carattere e impulsivi: Marta, come l’apostolo, aveva dato da poco una formidabile testimonianza col suo credere in Gesù definendolo “Il Cristo, il Figlio di Dio, colui che deve venire nel mondo”, ma ora non ha idea di cosa Lui stia per fare e si frappone, per quanto inconsapevole, fra la resurrezione del fratello (che non immaginava sarebbe avvenuta) e l’artefice di questa proprio come Pietro che, all’annuncio del Maestro in merito alla Sua futura morte, reagì rimproverandolo “Dio non voglia, Signore, questo non ti accadrà mai” (Matteo 16.22). Sono certo due circostanze diverse, ma l’intento ostativo è lo stesso: l’essere umano raramente accetta immediatamente il volere o il piano che Dio ha per lui ed ecco perché per Marta abbiamo il richiamo “Non ti ho detto che, se crederai, vedrai la gloria di Dio?”.

E che cos’è la “gloria di Dio”? Tutto ciò che esula dall’ordinario umano, che lo vince, che trascende. “Gloria di Dio” è un’anima che si converte e ne dà testimonianza, è l’inizio di una nuova vita, un’esistenza che pone Cristo al centro e da lì fino a un corpo che risorge, la Nuova Gerusalemme, i Nuovi cieli e Nuova terra, la nostra esistenza là. La “Gloria di Dio” è il tutto cui siamo destinati: “saremo per sempre col Signore” (1 Tessalonicesi 4.17).

Poi, “Vedrai la gloria di Dio” non è solo una promessa fatta a Marta, ma ad ogni persona che crede nella morte e resurrezione di Gesù per il riscatto dei propri peccati, nell’ “Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo”; Marta, e i presenti con lei, ebbero un’ennesima prova di come il Signore può operare nei confronti di un corpo non solo inerte, ma sotto decomposizione cioè quando ogni organo dà prova ufficiale di una corruzione cui è impossibile porre rimedio.

A questo punto, tolta la pietra a chiusura del sepolcro facendola rotolare, abbiamo un intervento verbale di ringraziamento di Gesù al Padre. Non è quello che definiremmo “preghiera” in senso stretto perché non chiede nulla, ma lo è se andiamo oltre il termine, che contempla la comunicazione di qualunque sentimento o necessità per cui “preghiera” è per noi studio, lavoro, dialogo con Lui, attesa, silenzio e contemplazione.

Le parole di Gesù furono pronunciate ad alta voce e vediamo che iniziano con un ringraziamento, “Padre, io ti rendo grazie perché mi hai ascoltato”, parole dette “per la gente che mi sta attorno, perché credano che mi hai mandato”: qui dobbiamo prestare la massima attenzione perché i presenti, testimoni di un evento che nessuno avrebbe potuto contestare, dovevano sapere sì che Gesù era Figlio di Dio e come tale in grado di risuscitare un morto, ma soprattutto lo dovevano riconoscere tanto come Uno con il Padre, quando come Colui che tutto faceva tranne che l’agire da solo ed ecco perché pregava continuamente! Nessuna guarigione, piccola o grande, avveniva dietro iniziativa personale ed i presenti avevano bisogno di sapere che chi aveva visto lui aveva visto il Padre (14.9), che il Figlio da sé non poteva far nulla (5.17) e che quindi tutta la sua vita era di sottomissione a Lui per il pieno, perfetto recupero della creatura caduta, ferita e umiliata dal peccato. Ecco perché abbiamo il ringraziamento.

C’è però un’altra lettura per la preghiera di Gesù ad alta voce e cioè che, consapevole dell’ascolto del Padre, si sottopone al giudizio di tutti i presenti: Deuteronomio 18.22 afferma che “Quando il profeta parlerà in nome del Signore e la cosa non accadrà e non si realizzerà, quella parola non l’ha detta il Signore. Il profeta l’ha detta per presunzione. Non devi aver paura di lui”.

 

Finito questo intervento, abbiamo il secondo imperativo, questa volta a Lazzaro come persona, quindi rivolto alla sua realtà, spirito, anima e corpo, “Lazzaro, vieni fuori!”. Lo chiama per nome e Lazzaro non può fare a meno di sentire e di ubbidire a quella voce, cosa impensabile e assolutamente straordinaria per tutti, ma non per chi crede perché sa già di essere destinato alla resurrezione che porta alla vita eterna. Gesù ha fatto qualcosa di straordinario per noi che abitiamo un corpo di carne, ma non per Lui che, prima di occuparsi dell’uomo alla creazione, era là col Padre che stendeva l’Universo. Con la resurrezione dell’amico, il Figlio di Dio ha voluto anticipare, dare un esempio di quello che sarà la resurrezione di tutti, che non potranno non rispondere alla “tromba di Dio” che li chiamerà a risorgere.

Qui si parla di tutti gli uomini e le donne vissuti/e da Adamo in poi. Si parla di corpi di cui non esiste nemmeno la polvere, corpi che sono andati ben oltre la decomposizione di quattro giorni, ma che sono stati bruciati, che sono affogati, seppelliti sotto frane o valanghe, esseri di cui non esiste più memoria, ma sappiamo ciò che vide l’apostolo Giovanni: “il mare restituì i morti che esso custodiva, la Morte e gli inferi resero i morti da loro custoditi e ciascuno venne giudicato secondo le sue opere” (Apocalisse 20.13).

La risurrezione di Lazzaro rende quindi testimonianza di tutte queste cose, è un miracolo che va oltre, confermando che di fronte alla chiamata rigeneratrice di Dio, in salvezza o in giudizio, sarà impossibile nascondersi e resistere perché la volontà umana non esisterà più nel senso che ogni scelta sarà già stata fatta e sarà finito il tempo del libero arbitrio.

Mi sono chiesto quanto tempo passò da quando Gesù ordinò a Lazzaro di uscire e a quando comparve sulla porta del sepolcro: stante il fatto che ogni miracolo fatto ebbe sempre un effetto immediato, credo che ci abbia impiegato il tempo necessario ad una persona avvolta in bende per scendere dal loculo e guadagnare l’uscita, raggiunta con fatica stante l’impedimento dato dal rivestimento funebre che fu probabilmente secondo l’uso egiziano in cui si avvolgevano le membra separatamente, poi coperte da un lenzuolo, altrimenti non avrebbe potuto uscire se le bende fossero state avvolte in modo stretto attorno al corpo, arti compresi. Anche se fosse stata adottata la seconda tecnica, comunque, certo la potenza di Dio non sarebbe stata ostacolata da quella.

Non riesco ad immaginare la scena non tanto di quest’uomo che esce dal sepolcro, ma quella relativa alle reazioni dei presenti, Marta e Maria comprese. Sicuramente, per un tempo non quantificabile, scese un silenzio assoluto. Quale sentimento si impossessò dei presenti, paura? Gioia? Senso di liberazione perché era giunto il Messia tanto atteso? Credo che ci sia dato sapere la sola cosa che conta e cioè che “Molti dei Giudei che erano venuti da Maria, alla vista di ciò che egli aveva compiuto, credettero in lui” (v.45) e, se ci pensiamo, fu un miracolo nel miracolo perché ci troviamo di fronte non a persone ordinarie del popolo, ma a notabili e rettori che finalmente si arresero all’evidenza, ad un miracolo fatto non per Lazzaro, Marta e Maria, ma fondamentalmente per loro, “perché credano che tu mi hai mandato”.

Ecco allora che la motivazione della resurrezione di Lazzaro non va ricercata nel fatto che il “Maestro buono” abbia voluto fare un regalo a quella famiglia o voleva stare col suo amico, ma dimostrare a tutti di essere in grado di sconfiggere la morte, aggiungendo così certezza e autorità alla Sua frase in base alla quale avrebbe ricostruito il Tempio in tre giorni. Lazzaro fu uno strumento nelle mani di Dio per dimostrare non la Sua esistenza, ma la Sua fedeltà e veridicità di tutto quanto da lui fatto e detto per la salvezza dell’uomo. Amen.

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15.24 – IL DIALOGO CON MARTA E MARIA (Giovanni 11.28-37)

15.24 – Il dialogo con Marta e Maria (Giovanni 11.28-37)

 

28Dette queste parole, andò a chiamare Maria, sua sorella, e di nascosto le disse: «Il Maestro è qui e ti chiama». 29Udito questo, ella si alzò subito e andò da lui. 30Gesù non era entrato nel villaggio, ma si trovava ancora là dove Marta gli era andata incontro. 31Allora i Giudei, che erano in casa con lei a consolarla, vedendo Maria alzarsi in fretta e uscire, la seguirono, pensando che andasse a piangere al sepolcro. 

32Quando Maria giunse dove si trovava Gesù, appena lo vide si gettò ai suoi piedi dicendogli: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!». 33Gesù allora, quando la vide piangere, e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente e, molto turbato, 34domandò: «Dove lo avete posto?». Gli dissero: «Signore, vieni a vedere!». 35Gesù scoppiò in pianto. 36Dissero allora i Giudei: «Guarda come lo amava!». 37Ma alcuni di loro dissero: «Lui, che ha aperto gli occhi al cieco, non poteva anche far sì che costui non morisse?».

 

A conclusione del dialogo con Marta, di cui Giovani riporta le frasi più importanti, Gesù le aveva comunicato il suo desiderio di parlare con la sorella: “Il Maestro è qui, e ti chiama” è il messaggio prontamente accolto da Maria che abbandona “subito” l’ambiente di consuetudini in cui si trovava. Gli comunica il desiderio del “Maestro” che certamente avrebbe avuto per lei parole ben diverse da quelle che poteva ascoltare dai presenti in casa sua. Maria, quindi, si alza e va da Gesù consapevole di tutto questo, di una chiamata individuale, precisa, memore delle parole che aveva ascoltato da Lui tempo addietro. Allora si era posta ai piedi di Gesù, la stessa posizione che assumevano i discepoli coi loro maestri, in un dialogo profondo e non in un’acquisizione passiva di concetti. Consapevole che da Lui avrebbe ricevuto ben altro, “si alzò e andò da lui”.

È su questo alzarsi di Maria che possiamo fare le prime considerazioni perché, nella Scrittura, questa azione equivale ad ottemperare ad un invito ad entrare nel piano di Dio: andando a ritroso alle origini, quindi al libro della Genesi, fu il primo invito rivolto ad Abramo (a parte quello di lasciare il suo parentado) quando gli fu detto “Àlzati, percorri la terra in lungo e in largo, perché io la darò a te” (13.17); ancora, ricordiamo le parole ad Agàr, “Àlzati, prendi il fanciullo e tienilo per mano, poiché io ne farò una grande nazione” (21.18) e poi Mosè, “Àlzati di buon mattino e preséntati al faraone quando andrà alle acque. Gli dirai: «Così dice il Signore, il Dio degli Ebrei: lascia partire il mio popolo, perché mi serva” (Esodo 8.16).

Ancora, tralasciando tutti gli altri, tanti episodi dell’Antico Patto, questo fu l’imperativo rivolto a molti dei guariti da Gesù e non solo, e qui vediamo la vita nuova alla quale venivano chiamati che andava ben oltre al fatto che era stato risolto il problema della loro infermità: ciò avvenne già con Giuseppe, quando fu invitato ad andare in Egitto, al paralitico di Capernaum, “Àlzati, prendi il tuo letto e va’ a casa tua” (Matteo 9.6), all’uomo con la mano paralizzata, “Àlzati, vieni qui in mezzo!” (Marco 3.3), a quelli che chiamarono il cieco, “Coraggio, àlzati, ti chiama!” (Marco 10.49) per non parlare della figlia di Giairo, morta da poco: “Fanciulla, io ti dico, àlzati” (Marco 5.41).

 

Alla chiamata di Gesù, Maria non ascoltò altro, lasciò il suo stato di persona vittima del dolore, e “andò”, cioè impresse alla sua vita una direzione diversa da quella consueta talché i presenti, fraintendendo, ritennero logico che volesse raggiungere la tomba del fratello per piangere come atto spontaneo e veramente doloroso perché, va ricordato, nei funerali e anche dopo venivano impiegate persone pagate apposta per piangere accompagnandosi con alte grida.

I Giudei quindi sappiamo che si misero a seguirla, rendendo così vano l’originale proposito di Gesù che, fuori dal paese per evitare di essere visto e circondato dai molti che lo conoscevano,  intendeva incontrarla riservatamente. Così, quelle persone diventeranno involontari testimoni di qualcosa assolutamente impossibile da spiegare: mettiamoci per un attimo nei panni dei detrattori di Gesù: se con la prima risurrezione si poteva supporre che la figlia di Giàiro dormisse e che chi ne aveva decretato la morte si era sbagliato, già con il figlio della vedova di Nain, portato con il corteo funebre, non ammettere il suo ritorno alla vita dietro intervento del Figlio di Dio sarebbe stato molto più difficile. Con un morto da quattro giorni, però, altro non rimaneva se non accettare una volta per tutte che Gesù era veramente chi diceva di essere.

L’incontro di Gesù con Maria, nonostante le parole identiche di Marta, ha delle differenze che ancora una volta ci rivelano il carattere delle due sorelle perché mentre la prima dimostra un carattere più forte, la seconda gli si getta ai piedi piangendo, sintomo di un dolore non ancora elaborato, di maggiore sensibilità e quindi vulnerabilità. Inoltre, Maria appare affetta da un sentimento privo di speranza perché mancano le parole “ma pure, so che tutto ciò che chiederai a Dio, egli te lo darà”. Maria non va, come la sorella, al di là del fatto in sé, ma accantona per un momento tutte le parole ascoltate, ma di cui si ricorderà e che elaborerà nell’episodio dell’unzione. Non vede al di là della morte del fratello che considera un fatto irrimediabile. La porta del sepolcro era stata chiusa così come la possibilità di tornare indietro.

L’apostolo Giovanni non ci riferisce altro al di là della notifica a Gesù di questo pensiero ed è molto probabile che così sia avvenuto perché, se con Marta l’incontro fu privato, nel caso di sua sorella c’erano persone presenti, per di più non ordinarie, cioè i Giudei. Se Gesù avesse detto qualcosa a Maria in quel momento, costoro avrebbero ascoltato e avrebbero certamente fatto commenti dall’ “alto” del loro sapere, per cui Gesù lasciò ai fatti il compito di parlare al Suo posto. Le parole tra i due sembrano, almeno secondo il mio punto di vista, pronunciate apposta perché gli altri le sentissero: “Dove lo avete posto?”, “Togliete via la pietra” ed altro che esamineremo. Gesù darà quindi ai presenti non più occasione di criticarlo e giudicarlo, ma parole e un fatto inequivocabile, incontrovertibile.

 

A questo punto però dobbiamo affrontare due particolari sui quali si sono spese molte parole e cioè le reazioni di Gesù al clima che si era venuto a creare il primo dei quali è descritto al verso 33, e cioè “quando la vide piangere, e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente, e molto turbato domandò: dove lo avete posto?”.

Credo che sia d’obbligo cercare di capire le ragioni e cosa significhi quel “si commosse profondamente, e molto turbato…”, descrizione sulla cui veridicità non possiamo dubitare visto che Giovanni, che era presente, descrisse questo stato d’animo.

Va detto che “si commosse profondamente” è una libera interpretazione più che una traduzione letterale che sarebbe “fremette nello spirito”, ma a livello di indignazione e rimprovero. Verrebbe da attribuire tutto questo allo stato di inconsolabilità di Maria e al pianto ipocrita dei Giudei, ma si tratta di una lettura troppo immediata del carattere di Gesù, che – è vero – respinse sempre i sentimenti umani quando portavano a posizioni estranee alla fede: piuttosto credo che in quel momento Lui si trovò a constatare personalmente gli effetti del peccato e dell’opera dell’Avversario, vedesse insomma il trionfo del male e soprattutto il modo assolutamente impreparato con cui l’uomo reagiva ad essi. Certo erano cose che sapeva benissimo, ma in questo caso Lui era lì, Dio, ma nel corpo. Dio, ma uomo e questa sua reazione è per me qualcosa di assolutamente spontaneo, che lo rivela veramente come scritto in Ebrei 4.14-16: “Dunque, poiché abbiamo un sommo sacerdote grande, che è passato attraverso i cieli, Gesù il Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della fede. Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato. Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno”.

Secondo dato su Gesù in questa circostanza è che fu “molto turbato”: direi che fu la conseguenza diretta del primo sentimento. Sono convinto che il turbamento, che poi provocò il Suo pianto, fu proprio causato dal perfetto equilibrio fra il suo essere uomo e il suo essere Dio: in altri termini, avendo rivelato il Padre in modo consono all’uomo, non essendo più il Dio distante e irraggiungibile dell’Antico Patto (nel senso di non alla portata dell’uomo a livello di identificazione), non poteva non essere partecipe di tutta quella sofferenza, di tutto quel deserto interiore. Sono convinto che pensò non tanto a Lazzaro, che sapeva benissimo “dormire” e che avrebbe risuscitato di lì a poco, ma alla morte intesa come fine reale dell’esistenza che avrebbe conosciuto la maggioranza dei presenti che lo rifiutava come l’ “Io sono la resurrezione e la vita”. L’uomo, fatto per amare Dio ed essere da Lui amato, si ritrovava ora vittima del peccato, della morte e soprattutto di Satana nei confronti dei quali non aveva – mi verrebbe da dire “non voleva avere” – difese.

La domanda “Dove lo avete posto?”, rivolta al plurale, ci conferma che con Maria ci fosse anche Marta, che però si tenne a rispettosa distanza dalla sorella perché, se così non fosse, questa non sarebbe stata presente alla risurrezione del fratello, cosa che mi sembra improbabile stante i trascorsi umani e spirituali del tre con Lui.

Terzo comportamento di Gesù “anomalo” è il pianto, diretta conseguenza dei primi due sentimenti che aveva provato. Ricordo di una persona a me cara che un giorno mi fece notare l’assurdità di quel pianto perché, siccome Gesù avrebbe risuscitato Lazzaro di lì a poco, non avrebbe avuto senso e da lì traeva le convinzioni che fosse un episodio inventato o appartenente comunque a una leggenda. Si tratta però di una lettura profondamente errata perché il pianto di Gesù, come gli altri due modi con cui rivelò i suoi sentimenti, non era certo dovuto alla morte dell’amico.

C’è poi una sostanziale differenza tra il suo piangere e quello dei presenti, che in italiano non è possibile rilevare, ma in greco sì. Per costoro viene impiegato “klàio”, che significa “lamentarsi ad alta voce e con grida”, per Gesù “diakrùo”, cioè “versar lacrime in silenzio”. Il verso 36 quindi, non si può tradurre con “E Gesù scoppiò in pianto”, ma semplicemente “Gesù pianse”, facendolo il versetto più breve di tutta la Bibbia. E questo pianto è del tutto assimilabile a quello su Gerusalemme: “Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, quello che porta alla pace! Ma ora è stato nascosto ai tuoi occhi. Per te verranno giorni in cui i tuoi nemici ti circonderanno di trincee, ti assedieranno e ti stringeranno da ogni parte; distruggeranno te e i tuoi figli dentro di te e non lasceranno in te pietra su pietra, perché non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata” (Luca 19.41-44).

C’è chi ha supposto che in quel momento, che sapeva così profondamente di perdita, morte e disorientamento, Gesù avesse visto anche la propria: Lui che non ne aveva bisogno, che avrebbe potuto benissimo rimanere dov’era, ma senza salvare nessuno, fu talmente immerso nella condizione di uomo da passare attraverso una morte così squalificante da essere perfetta. E anche qui, il pianto non trovò le sue origini nel suo consegnarsi in sacrificio, ma fu diretto a quel muro di morte che dominava quasi tutti i presenti. Come reagire infatti al verso che conclude la nostra terza parte, “Lui, che ha aperto gli occhi al cieco, non poteva far sì che anche costui non morisse”?

Abbiamo il trionfo dell’ignoranza più profonda: i Giudei ne fraintesero il pianto – “Guarda come lo amava!” –, altri davano per scontato che potesse compiere un miracolo evidente come quello del nato cieco, senza però credere in lui e pure osavano giudicarlo moralmente! Si tratta di manifestazioni di fronte alle quali non ci si può chiedere cosa fare per porvi rimedio semplicemente perché non esiste, essendo l’uomo abitato dallo spirito di Dio o dell’Avversario. Amen.

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15.23 – L’INCONTRO CON MARTA (Giovanni 11.17-27)

15.23 – L’incontro con Marta (Giovanni 11.17-27)

 

17Quando Gesù arrivò, trovò Lazzaro che già da quattro giorni era nel sepolcro. 18Betània distava da Gerusalemme meno di tre chilometri  19e molti Giudei erano venuti da Marta e Maria a consolarle per il fratello. 20Marta dunque, come udì che veniva Gesù, gli andò incontro; Maria invece stava seduta in casa. 21Marta disse a Gesù: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! 22Ma anche ora so che qualunque cosa tu chiederai a Dio, Dio te la concederà». 23Gesù le disse: «Tuo fratello risorgerà». 24Gli rispose Marta: «So che risorgerà nella risurrezione dell’ultimo giorno». 25Gesù le disse: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; 26chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?». 27Gli rispose: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo».

 

Tra la morte e la resurrezione di Lazzaro sappiamo che trascorsero quattro giorni, ma anche tre incontri: quello con Marta, con Maria e quindi con quanti furono presenti e testimoni dell’accaduto. Nonostante i versi oggetto di riflessione siano pochi, dieci, molti sono i dati che possiamo ricavare leggendo “tra le righe” per renderci conto del contesto: dal particolare espresso al verso 19, “Molti Giudei erano venuti da Marta e Maria a consolarle per il fratello” possiamo avere conferma di quanto avevamo ipotizzato a proposito della condizione sociale della famiglia, evidentemente altolocata per la presenza appunto dei “Giudei”, quindi i rettori del popolo, quei membri del Sinedrio che conoscevano molto bene Lazzaro e le sue sorelle che non si sarebbero certo scomodati per una persona di rango inferiore al loro.

Va poi dato un breve cenno sulle usanze in merito alla gestione del lutto per la perdita di un proprio caro a quel tempo, poiché il periodo dedicato al cordoglio era di trenta giorni: i primi tre erano di “pianto” cui ne seguivano sette di “lamento” e i rimanenti erano di “lutto” quindi, arrivando al quarto giorno, Gesù arriva alla fine di quelli di pianto e al primo del lamento. Arriva, ma non irrompe in casa con tutti i presenti perché Marta, saputo da qualcuno che il Maestro stava per arrivare, gli corre incontro confermandosi così la donna concreta e d’azione che aveva già dimostrato di essere. Anche qui abbiamo un ulteriore dato della personalità di Marta che, assolutamente convinta che non sarebbe stata mai lasciata sola da Gesù, aveva posto qualcuno, alle porte o nei dintorni del villaggio, che la avvisasse del Suo arrivo.

Nostro Signore si era fermato prima di Betania perché sarà lì che verrà trovato anche da Maria più tardi (“Gesù non era ancora giunto nel villaggio, ma era nel luogo in cui Marta l’aveva incontrato”): fuori dal villaggio e quindi dalle consuetudini, dal cordoglio rituale che tiene ancora più prigioniero il dolore, da quel contegno discutibile di molti che mormorano le stesse frasi di circostanza ai parenti del morto. Si può dire che, col Suo sostare, è Lui ad attendere Marta e Maria prima di risuscitare il loro fratello perché il messaggio, le parole che ha da dire a loro è/sono profondamente diverse da quelle degli altri. E lo stesso accade con ogni cristiano nel momento in cui si mette a confronto con Lui, chiamato fuori dall’ordinarietà e banalità della vita terrena, consapevole dell’ascolto, in preghiera, nel senso bidirezionale del termine: Dio ascolta me, ma io devo ascoltare Lui, che si esprime non solo con parole, ma anche con i fatti, risposte anche costituite da silenzi e attese. Così, se veniamo a conoscenza di un comportamento che dovremmo assumere perché lo impongono la nostra dignità e fede e non lo concretiamo, inevitabilmente veniamo catapultati in un ambito in cui perdiamo tempo, tutto resta nell’ambito del sentimento (religioso) e la nostra comunione con Dio si interrompe.

 

E ora veniamo all’incontro con Marta, persona che, per degli strani meccanismi psicologici, viene sempre in mente collegarla all’episodio in cui rimproverò Gesù perché non aveva detto alla sorella di aiutarla nelle faccende domestiche quando qui, al verso 27, abbiamo l’espressione di un concetto che addirittura va a completare quello espresso da Pietro che riconobbe in Gesù “Il Cristo, il figlio del Dio vivente” aggiungendo “che deve venire nel mondo”.

Marta ha una reazione pronta, immediata perché “come udì che veniva Gesù, gli andò incontro” mentre la sorella minore “stava seduta in casa” in ossequio alla tradizione che vedeva nello stare seduti a terra il modo per esprimere il dolore che, per quanto necessario, stanca sempre, come se fosse una persona che ti sta vicino per convenienza, consuetudine, tradizione o per i suoi scopi. Comunque non perché ti ama.

Non sappiamo se Gesù fu raggiunto da Marta di corsa o con passo veloce, ma di sicuro ciò che gli dice rivela molto di lei: “Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto” è la prima parte del suo breve discorso, che contiene anche qui un rimprovero perché, a suo modo di vedere, Gesù avrebbe potuto intervenire sulla malattia e impedire la morte del fratello. Marta era quindi legata, come nel caso del figlio del funzionario del re in 4.49, al fatto che Gesù dovesse per forza essere presente per operare senza contare il fatto che quanto le due sorelle gli avevano fatto sapere – ricordiamo le parole “Signore, ecco, colui che tu ami è ammalato” – non aveva provocato in Lui, apparentemente, nessuna reazione, anzi, era giunto in ritardo. Nelle parole di Marta non c’è una richiesta di spiegazione sul messaggio che le era stato recapitato, “Questa malattia non porta alla morte, ma è per la gloria di Dio” che sicuramente non aveva capìto, ma solo il dolore per il decesso di una persona cara che non avrebbe dovuto verificarsi, dimenticando che l’essere umano su questa terra è provvisorio e non sa quando verrà il tempo in cui verrà chiamato da Dio perché “il giorno del Signore – che ha una quantità innumerevole di significati e riferimenti – verrà come un ladro di notte”.

La seconda parte di quanto detto da Marta, invece, è molto più interessante dal punto di vista della crescita della rivelazione: “Ma anche ora so che qualunque cosa chiederai a Dio, egli te la concederà”. La conoscenza che questa donna ha di Gesù – e non poteva essere altrimenti – è imperfetta, legata alla Sua presenza guaritrice e risolutrice, al concetto già espresso dal cieco nato, “Sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma che, se uno onora Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta” (9.41); non solo, ma noto anche un parallelo con Maria, madre di Gesù, che alle nozze di Cana disse ai servi “Fate tutto quello che vi dirà”, lasciando a Lui ogni decisione sul da farsi. Marta, quindi, accanto alla sua convinzione in base alla quale se Gesù fosse stato presente avrebbe potuto impedire la morte di Lazzaro, qui dà un’apertura nel senso che sa che il Signore farà senz’altro qualcosa, anche se non sa cosa o come. Con la sua ultima frase Marta non chiede a Gesù di resuscitare il fratello, ma sa che la Sua presenza non si sarebbe limitata al porgere le proprie condoglianze rituali e soprattutto prive di una reale partecipazione come spesso accade anche ai nostri funerali, dove magari si va per non recare offesa ai parenti del defunto e non per dare idealmente un ultimo saluto o portare, con la propria presenza, un’espressione di condivisione o supporto al dolore.

A questo punto abbiamo una rivelazione particolare di Nostro Signore che dapprima dice “Tuo fratello risusciterà” ponendola in un futuro che Marta comprende essere lontano nel tempo – “So che risorgerà alla risurrezione nell’ultimo giorno” –, ma poi, alla dichiarazione “Io sono la resurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque crede in me, non morirà in eterno”, abbiamo il vero spostamento dell’asse su cui basare la propria fede: “chi crede in me, anche se nuore, vivrà” e “non morirà in eterno”, quindi non si perderà nel tempo e nello spazio, o meglio nel nulla, nell’informe, nel vuoto dove niente ha più senso perché al di fuori di Dio non ce n’è alcuno. Si ritorna a prima della creazione, quando “La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso”. E, in proposito, va notato che non ci sarà più “lo spirito di Dio (che) aleggiava sulle acque” che ai tempi era sinonimo di speranza di vita, come in effetti fu. Per chi sarà fuori dal regno di Dio, quindi, non ci sarà una nuova creazione, ma solo morte.

Qui Gesù, parlando di risurrezione, intende quella di un corpo trasformato, che in virtù della fede avuta si riappropria del proprio soma per vivere e non per morire un’altra volta: “…e se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna” (Matteo 25.46). Marta, con le sue parole, esprime un concetto indubbiamente vero, ma dimostra di avere l’idea di Gesù come il più perfetto degli uomini e per questo ascoltato da Dio, ma non del fatto che proprio a Lui appartenessero la risurrezione e la vita. Ecco allora che Nostro Signore, con il suo “Io sono” ne rivendicherà l’essenza sapendo che dovrà dimostrare di essere “la resurrezione e la vita” non solo con se stesso, ma anche con gli altri, fino a quel momento due e, da lì a poco tempo, tre con Lazzaro. E l’apostolo Paolo potrà scrivere “Se per mezzo di un uomo – Adamo – venne la morte, per mezzo di un uomo – Gesù – verrà anche la resurrezione dei morti” (1 Corinti 15.21). Notiamo i due “uomo” che ci parlano del Cristo venuto a porre rimedio al peccato di Adamo. Quanto alla “vita”, poi, così scrive Giovanni nella sua prima lettera: “Dio ci ha donato la vita eterna e questa vita è nel suo Figlio. Chi ha il Figlio ha la vita, chi non ha il Figlio di Dio, non ha la vita” (5.11).

Lazzaro quindi, che aveva creduto in Gesù, gli apparteneva e in quanto tale avrebbe potuto risorgere non solo nell’ultimo giorno, ma in qualsiasi momento se Lui lo avesse chiamato, come poi avverrà. Ecco perché abbiamo, a proposito di Lazzaro morto, il presente “dorme”, che prelude a un risveglio, lo stesso che avranno tutti, e “…ma io vado a svegliarlo”: c’è il “ma”, cioè la morte ha potere sul corpo fino a quando Dio non decide altrimenti. E, del resto, fu Lui a dire “Sia la luce!”, che diede poi origine alla biodiversità, che intervenne sull’uomo personalmente per infondergli spirito e vita.

Abbiamo poi “Chi vive e crede in me, non  morirà in eterno”, dove le condizioni per non morire davvero sono due, “vivere” e “credere” cioè una identificazione costante perché come diamo prova di essere vivi nel mondo con l’azione (ci muoviamo, lavoriamo, esistiamo ciascuno con la nostra personalità e idee), così dobbiamo dimostrare di essere vivi in Cristo, dimostrazione del fatto che crediamo. Non può esserci un “credere” senza un “vivere” e viceversa ed ecco perché Gesù conclude il suo intervento su Marta con la domanda “Credi tu questo?”: non le sta chiedendo un’enormità, ma una verifica prima di tutto interiore. Marta aveva visto e sentito parlare Gesù molte volte e non possiamo escludere che fosse stata testimone di più di un miracolo, come quello di Simone il lebbroso; ora, viene chiamata a dichiarare la sua opinione in proposito su di Lui e a riflettere sulle sue ultime parole.

Ora qui abbiamo, sottovalutata perché si pensa sempre a Pietro e mai a lei, una delle più belle risposte a una domanda di Gesù nel Vangelo circa la Sua identità, che qui viene spontanea: “Sì, o Signore; credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo”. Totale. E guardando nel Vangelo, non è l’unico riconoscimento avuto da Nostro Signore, pensiamo ai Samaritani che in 4.42 dissero “Noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo”. A parte Pietro, abbiamo anche i presenti  alla moltiplicazione dei pani e dei pesci, ma con un fraintendimento perché alle parole “Questi è davvero il profeta, colui che viene nel mondo!” (6.14) volevano farlo re.

Marta, invece, si appropria di Gesù non come re, ma come suo Salvatore personale, attribuendogli le due qualifiche più importanti, “Cristo” e “Figlio di Dio”, aggiungendo “colui che doveva venire nel mondo”, atteso e annunciato dai profeti. Non poteva aggiungere altro. Non serviva altro non per ottenere la risurrezione del fratello, ma per appartenere al vero popolo, alla vera famiglia di Dio. Amen.

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15.22 – LA MORTE DI LAZZARO (Giovanni 11.1-6)

15.22 – La morte di Lazzaro (Giovanni 11.1-16)

 

 1Un certo Lazzaro di Betània, il villaggio di Maria e di Marta sua sorella, era malato. 2Maria era quella che cosparse di profumo il Signore e gli asciugò i piedi con i suoi capelli; suo fratello Lazzaro era malato. 3Le sorelle mandarono dunque a dirgli: «Signore, ecco, colui che tu ami è malato».
4All’udire questo, Gesù disse: «Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato». 5Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro. 6Quando sentì che era malato, rimase per due giorni nel luogo dove si trovava. 7Poi disse ai discepoli: «Andiamo di nuovo in Giudea!». 8I discepoli gli dissero: «Rabbì, poco fa i Giudei cercavano di lapidarti e tu ci vai di nuovo?». 9Gesù rispose: «Non sono forse dodici le ore del giorno? Se uno cammina di giorno, non inciampa, perché vede la luce di questo mondo; 10ma se cammina di notte, inciampa, perché la luce non è in lui». 11Disse queste cose e poi soggiunse loro: «Lazzaro, il nostro amico, si è addormentato; ma io vado a svegliarlo». 12Gli dissero allora i discepoli: «Signore, se si è addormentato, si salverà». 13Gesù aveva parlato della morte di lui; essi invece pensarono che parlasse del riposo del sonno. 14Allora Gesù disse loro apertamente: «Lazzaro è morto 15e io sono contento per voi di non essere stato là, affinché voi crediate; ma andiamo da lui!». 16Allora Tommaso, chiamato Dìdimo, disse agli altri discepoli: «Andiamo anche noi a morire con lui!».

 

L’episodio della morte e resurrezione di Lazzaro occupa nel Vangelo di Giovanni un posto particolare: è il settimo ed ultimo da lui narrato e, rispetto ai precedenti, viene arricchito di una gran quantità di particolari; delle resurrezioni operate da Gesù è la terza, quella che scatenò, nei capi dei saceroti e dei farisei, l’assoluta determinazione di ucciderLo. Si tratta di una vicenda che ci costringe a raccogliere dei dati importanti e a fare riflessioni anche particolari.

Sappiamo dell’esistenza di Lazzaro, il cui nome significa “Dio aiuta”, solo in questo Vangelo poiché i sinottici parlano di Marta e Maria sua sorella minore; non a caso Giovanni nei primi due versi si preoccupa di inquadrare questa famiglia, citando il gesto di Maria nel cospargere “di profumo il Signore”. Se quindi abbiamo dei dati sulle due sorelle, nulla sappiamo del mestiere o del carattere di Lazzaro, ma in compenso, dal messaggio che le due sorelle gli mandano, “Signore, ecco, colui che tu ami è infermo” e dalla nota dello stesso Giovanni, “Gesù amava Marta, sua sorella e Lazzaro”, notiamo la presenza di un sentimento particolare. Questo verrà ribadito poi al verso 11 quando viene detto “Lazzaro, il nostro amico, si è addormentato”.

Già da questi particolari brevemente raccolti abbiamo materiale su cui lavorare e la prima cosa che personalmente ho sottolineato è che Marta, Maria e Lazzaro ebbero con Gesù un rapporto particolare senza diventare discepoli, per lo meno non nel senso comunemente inteso, vale a dire entrando nel numero di quelli che lo seguivano ovunque andasse dopo aver rinunciato a una vita normale fatta di lavoro, famiglia e pratiche religiose.

Ora, ragionando su queste tre persone vediamo che il fatto di restare a casa propria senza vendere tutto, darlo ai poveri e seguire Gesù non impedì a Marta di occuparsi dell’ospitalità ed aiutare con le sue competenze Lui e i discepoli, né a Maria, la più propensa alla riflessione spirituale, di elaborare verità e fatti che la porteranno ad agire con la famosa unzione che esamineremo, che porterà a queste parole del Maestro: “Versando questo profumo sul mio corpo, lei lo ha fatto in vista della mia sepoltura. In verità io vi dico: dovunque sarà annunciato questo Vangelo, nel mondo intero, in ricordo di lei si dirà anche ciò che ha fatto”.

Del terzo personaggio della famiglia, Lazzaro, si può dire solo che certamente non era diverso dalle sorelle quanto ad attitudine a ricevere il Vangelo perché altrimenti Gesù non lo avrebbe amato né avrebbe usato la parola “amico”, che certo nessuno impiega per indicare una persona indifferente. Va poi rivolto uno sguardo attento ai verbi usati, nel caso di specie l’ “ami” al verso terzo, riferito a Lazzaro, e l’ ”amava” al quinto, al nucleo famigliare: l’amore per Lazzaro è indicato con “filèin”, che indica l’affezione verso una persona cara, che nel caso dei tre personaggi è “agapàn”, impiegato per indicare delle persone che si sono scelte e per le quali si nutre un sentimento volto a costruire qualcosa: è un verbo meno appassionato rispetto al primo, ma sicuramente più elevato. E tutti e tre godevano di questa attenzione affettiva di Nostro Signore.

Altra annotazione va fatta sul termine “nostro amico”, quindi anche del discepoli, che nel Nuovo Testamento è utilizzato solo qui, riferito ad un rapporto che Gesù aveva con una persona e viene da pensare che Lazzaro non era ritenuto un semplice conoscente anche da parte di tutti gli altri. L’essere “amico” ci fa ritenere allora Lazzaro come una persona che aiutava e favoriva apertamente Gesù e il suo gruppo. Se Lui, che chiamò i discepoli “amici miei” in Luca 12.4, con “nostro amico” allude a intimità, condivisione, partecipazione. E non possiamo che concludere con Giovanni 15.13-15: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici – quindi Gesù per tutti coloro che avrebbero creduto in Lui per essere salvati –. Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che io ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi”.

Tornando al nostro testo non possiamo trascurare nemmeno il villaggio di Betania, che significa “casa del pane”, villaggio che “distava da Gerusalemme meno di tre chilometri” (11.18), dove Gesù aveva persone che credevano in Lui ed erano piene di gratitudine per i benefici ricevuti, come Simone il lebbroso che aveva organizzato il famoso convito (Matteo 26, Marco 14). Sempre in quel villaggio Nostro Signore si recava per dormire quando si intratteneva in città, come quando “entrò a Gerusalemme, nel tempio. E dopo aver guardato ogni cosa attorno, essendo ormai l’ora tarda, uscì con i dodici verso Betania” (Marco 11.11). Appena fuori di questo villaggio avvenne l’episodio del fico sterile (Marco 11.12) e, sempre nello stesso capitolo, fu in un paese vicino che i discepoli avrebbero trovato quel “puledro legato” che verrà utilizzato per l’ingresso di Gesù a Gerusalemme: “Andate nel villaggio di fronte a voi e subito, entrando in esso, troverete un puledro legato, sul quel nessuno è ancora salito. Slegatelo e portatelo qui. E se qualcuno vi dirà: «Perché fate questo?», risponderete «Il signore ne ha bisogno, ma lo rimanderà qui subito»” (vv.2-4).

 

Dopo aver brevemente inquadrato l’ambiente, veniamo agli eventi: Gesù, che si trovava nella Perea, viene raggiunto da un messaggero delle due sorelle; sono otto parole, “Signore, ecco, colui che tu ami è malato”: non è una comunicazione ordinaria nel senso che tutto lascia intuire tanto l’urgenza che la gravità delle condizioni in cui versava Lazzaro perché non Lo avrebbero certo disturbato per una semplice febbre. Piuttosto, in quell’ “ecco”, traducibile anche con “vedi”, rileviamo tutto lo stupore per quanto stava succedendo in quanto, molto probabilmente, tutta la famiglia era ancora legata al concetto di benedizione dell’Antico Patto, quando la malattia e altri inconvenienti erano esclusi. Può anche essere che le due sorelle fossero comunque convinte che, credendo, potessero essere risparmiate da grandi sofferenze come poteva essere la morte di un loro caro, di trovarsi al riparo da quanto può turbare anche gravemente la salute di una persona. Allo stesso tempo vediamo che manca qualsiasi riferimento alla necessità di una presenza di Gesù in loco, ma quelle parole contengono una dichiarazione di fede, quasi a dire “fa’ come ritieni giusto”.

A questo punto accade qualcosa di anomalo rispetto ad altri miracoli precedentemente operati: Lazzaro non viene guarito né immediatamente, né a distanza come in altri casi (ricordiamo il figlio del funzionario reale in 4.43-54 o il servo del centurione in Matteo 8.5-13), non viene dato un messaggio teso a tranquillizzare le sorelle del tipo “state tranquille, ci penso io”, ma abbiamo la consegna, al messaggero e ai presenti, di una verità difficile in quel momento da capire e per noi da interpretare: “Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato” (v.4). Pensiamo a cosa avrebbero capìto Marta e Maria: il loro fratello non sarebbe morto; però, restava da risolvere il significato delle altre parole, perché se Lazzaro fosse guarito naturalmente, nel senso che la febbre lo avesse abbandonato, che quella malattia fosse stata “per la gloria di Dio” non avrebbe avuto senso.

Se invece prendiamo le parole di Gesù intendendo che “Questa malattia non poterà alla morte” intesa come fine di tutto, di separazione dell’anima e dello spirito dal corpo che si corromperà fino alla polvere, le possiamo inquadrare nel loro significato corretto perché l’infermità di Lazzaro non lo avrebbe ucciso. Gesù, contrariamente alle aspettative delle due sorelle, non guarisce subito Lazzaro liberandole dall’angoscia perché la “Gloria di Dio” e il fatto che “per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato” sono il vero fine di quella malattia che sarebbe sfociata in una morte sì, ma temporanea. E il miracolo che il Figlio di Dio avrebbe compiuto lo avrebbe “glorificato” proprio perché con esso avrebbe inequivocabilmente dimostrato di essere tale e infatti sappiamo che fu proprio quella resurrezione a generare, come detto all’inizio, la decisione assoluta di ucciderLo assieme a Lazzaro. Ricordiamo le parole “Molti dei Giudei che erano venuti a Maria, considerato tutto quanto che Gesù aveva fatto, credettero in lui. Ma alcuni di loro andarono dai farisei, e dissero loro ciò che Gesù aveva fatto”.

I credenti dovrebbero tenere sempre presente che, per chi ha posto la propria fede nel Figlio di Dio, non può esistere nessuna malattia che “porta alla morte” così come nessuna morte è veramente tale perché si tratta solo di un passaggio di stato, diverso e soprattutto migliore nel senso più vero del termine. Questo non toglie che la dipartita di una persona cara ci lasci deserti, che il dolore provato non assomigli alla sradicazione di un albero piantato nel cuore, che il silenzio e il vuoto che lascia siano importanti, ma se l’amore che si porta verso questo fratello o sorella è vero, non potrà mai “tramontare il sole” proprio sulla nostra sofferenza e penseremo a chi è venuto a mancare come un essere finalmente libero dal proprio corpo di carne ora alla presenza del Padre, cosa che non ha fatto altro che aspettare per tutta la sua vita spirituale terrena.

 

Tornando alla cronologia del racconto, anche il verso 6 è particolarissimo, perché dopo la nota sui sentimenti di Gesù verso Marta, Maria e Lazzaro, leggiamo “Quando sentì che era malato, rimase per due giorni nel luogo dove si trovava”, che parrebbe farci optare per un disinteresse nei confronti dell’amico morente, o forse già morto visto che, quando raggiungerà Maria, questa gli dirà “Signore, manda già cattivo odore: è lì da quattro giorni” (v.39). Al contrario, il comportamento di Gesù è assimilabile a quello già avuto quando, trovandosi coi discepoli sulla barca, dormiva mentre tutti gli altri si affannavano e lo svegliarono dicendo “Maestro, non t’importa che siamo perduti?” (Marco 4.38). In entrambi gli episodi tutto ciò che avrebbe dovuto fare Gesù era stato fatto: nel caso delle due sorelle c’erano state le sue parole, “questa malattia non porterà alla morte”, che avrebbero dovuto essere sufficienti, in quello dei discepoli sulla barca c’era la Sua presenza e il Suo stesso sonno, sinonimo di tranquillità assoluta e antitesi di qualunque timore.

Da tutto questo possiamo dedurre che ogni qualvolta veniamo assaliti dal timore di non poter uscire da una situazione che tutti umanamente giudicherebbero insuperabile – come la morte e una tempesta in cui la barca affonda soffocata dalle onde –, ciò è dovuto alla carne che domina esattamente come agisce su tutti gli altri esseri umani che non sanno, né possono, né appartengono, né hanno a che fare con gli interventi diretti di Dio. Qualunque avvenimento umanamente doloroso e angosciante può venire superato con l’abbandonarsi al Padre non perché abbiamo bisogno di un rifugio o di un amico immaginario, di un dio da noi creato come spesso avviene, ma proprio perché consapevoli che per ogni credente esiste un progetto, una protezione diretta che, se passa per la morte, in realtà non lo è perché la prospettiva è quella della vita eterna, l’opposto della “morte seconda” alla quale non esisterà rimedio alcuno.

Nel caso di Lazzaro, leggiamo che appunto dopo i due giorni è Gesù a dire ai suoi “Andiamo in Giudea” (regione in cui si trovava Betania) nel senso che è solo a Lui che spetta, quale Signore di tutte le cose, il momento di operare, intervenire a favore dell’uomo qualunque sia la situazione in cui versa.

Dopo la frase dei discepoli che vollero far notare al loro Maestro l’inopportunità della cosa, “I Giudei poco fa cercavano di lapidarti e tu ci vai di nuovo?” e la relativa spiegazione, cioè dopo aver risposto che nulla poteva accadergli di negativo fino a quando non sarebbe giunta la sua ora, abbiamo un’altra espressione che dovrebbe dirci molto, ma che così non fu per i discepoli: “Lazzaro, il nostro amico, si è addormentato, ma io vado a svegliarlo”. Questo ci riconduce a un’altra espressione che Gesù uso con i presenti alla morte della figlia di Giàiro, “La fanciulla non è morta, ma dorme” (Matteo 9.24). A quell’affermazione leggiamo che “la gente lo derideva”, qui invece abbiamo, dimentichi di quelle parole, le parole dei discepoli, “Signore, se si è addormentato, si salverà”, incapaci di capirne il senso. In entrambi i passi, poi, c’è a dominare su tutto quel “ma” di Gesù, il solo in grado di cambiare la storia e le strade di una persona, o di un popolo, o del mondo intero.

“Io vado a svegliarlo”: solo Lui, che aveva “le chiavi della morte e degli inferi” (Apocalisse 1.18) lo poteva fare e infatti leggiamo “Lazzaro è morto e io sono contento per voi di non essere stato là, affinché voi crediate; ma andiamo da lui” (v.15). Perché “contento per voi”? Perché i discepoli erano già stati testimoni di altre due eventi analoghi di persone morte da poco, per cui se si fosse trovato a Betania alla morte di Lazzaro quella resurrezione avrebbe potuto venire interpretata soltanto come la terza del Suo Ministero. Oppure, sempre se fosse stato là, lo avrebbe potuto guarire come fece con la suocera di Pietro. Resuscitando invece un cadavere a quattro giorni dal decesso, quando gli effetti della decomposizione iniziavano a farsi sentire con l’odore, avrebbe realmente potuto dimostrare che “nulla è impossibile a Dio”.

Le parole “affinché voi crediate” indicano non il fatto che i discepoli vedendo quel miracolo avrebbero creduto in Lui – lo avevano già fatto – ma proprio capissero che fosse il Signore nel senso più ampio del termine, in grado di chiamare un’anima dalla morte e risuscitare il corpo che la conteneva. Amen.

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15.21 – GLI OPERAI DELLA VIGNA (Matteo 20.1-6)

15.21 – Gli operai della vigna (Matteo 20.1-16)

 

 1 Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. 2Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. 3Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, 4e disse loro: «Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò». 5Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzogiorno, e verso le tre, e fece altrettanto. 6Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano lì e disse loro: «Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?». 7Gli risposero: «Perché nessuno ci ha presi a giornata». Ed egli disse loro: «Andate anche voi nella vigna».
8Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: «Chiama i lavoratori e da’ loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi». 9Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. 10Quando arrivarono i primi, pensarono che avrebbero ricevuto di più. Ma anch’essi ricevettero ciascuno un denaro. 11Nel ritirarlo, però, mormoravano contro il padrone 12dicendo: «Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo». 13Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: «Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? 14Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: 15non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?». 16Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi».

 

Riferita dal solo Matteo, è una delle parabole a mio giudizio più complesse esposte da Gesù e suscettibile, ad una generica lettura, di fraintendimenti destinati a provocare domande che restano irrisolte.

Prima di addentrarci nel racconto, va detto che la nostra versione, per come inizia, lascia supporre che l’esposizione della parabola sia avvenuta per un insegnamento isolato, difficilmente collocabile nel tempo, ma questo accade perché qui è stato omesso di tradurre l’avverbio greco “gar”, “poiché, infatti”, col quale si apre il verso 1. Dobbiamo quindi collegare la vicenda degli operai della vigna alla domanda che Pietro aveva rivolto a Gesù poco prima: “Ecco, noi abbiamo abbandonato ogni cosa e ti abbiamo seguito: cosa ne avremo?”. Questa parabola allora non solo rientra  nell’insegnamento sulle conseguenze del “lasciare ogni cosa”, ma lo estende, lo amplifica inquadrandolo nell’ottica dei tempi che si sarebbero succeduti e la destina a tutti coloro che avrebbero creduto, come possiamo già intravedere dal fatto che il “padrone di casa” esce cinque volte nel corso della giornata: all’alba, alle nove, a mezzogiorno, alle tre del pomeriggio e alle cinque.

 

Se nell’identificare il “padrone di casa” non esistono problemi, credo sia necessario spendere un po’ del nostro tempo per indagare attorno alla “vigna”, che si riferisce chiaramente a un territorio, o per meglio dire a un ambiente di proprietà di Dio e sul quale ha dei progetti. Per capire la vigna occorre tener presente le numerose parabole su di essa, come quella dei contadini omicidi e del fico sterile, piantato appunto nella vigna del padrone che parlò al suo fattore perché lo tagliasse. Proprio in quest’ultima è interessante sottolineare l’inizio, “C’era un uomo che possedeva un terreno e vi piantò una vigna” (Matteo 21.33), che ci rivela quanto fosse coinvolta quella persona che, invece di vendere il suo terreno e non occuparsi più di nulla, decise di lavorarlo e piantare una coltivazione che richiede molta professionalità e attenzione come non avviene per un generico campo di frumento.

Invece quel padrone, tramite collaboratori, desidera che da terra anonima quell’appezzamento diventi qualcosa di particolare e ne personalizza l’aspetto rendendola autosufficiente per la produzione del vino: “la circondò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e costruì una torre” (v.33,34). Ecco il progetto: una siepe per proteggerla da eventuali animali, una buca per il torchio per estrarre il succo dagli acini e produrre vino, una torre per vigilare su di essa, segno che quel territorio doveva essere davvero vasto.

La “vigna” è composta da un numero indefinito di piante ed in essa si individua il popolo di Dio secondo Salmo 80.8-16 Dio degli eserciti, fa’ che ritorniamo, fa’ splendere il tuo volto e noi saremo salvi. Hai sradicato una vite dall’Egitto, hai scacciato le genti e l’hai trapiantata. Le hai preparato il terreno, hai affondato le sue radici ed essa ha riempito la terra. La sua ombra copriva le montagne e i suoi rami i cedri più alti. Ha esteso i suoi tralci fino al mare, arrivavano al fiume i suoi germogli. Perché hai aperto brecce nella sua cinta e ne fa vendemmia ogni passante? La devasta il cinghiale del bosco e vi pascolano le bestie della campagna. Dio degli eserciti, ritorna! Guarda dal cielo e vedi e visita questa vigna, proteggi quello che la tua destra ha piantato, il figlio dell’uomo che per te hai reso forte”. Possiamo vedere da questi versi lo sviluppo e la testimonianza del Popolo di Dio che, a un certo punto, fallisce e viene punito per la sua inerzia e infedeltà.

Altro passo interessante che integra il precedente lo troviamo in Isaia 51.1-7 in cui vengono contrapposte le intenzioni migliori del costruttore e il risultato assolutamente anomalo delle piante: “Il mio diletto possedeva una vigna sopra un fertile colle. Egli l’aveva dissodata e sgombrata dai sassi e vi aveva piantato viti pregiate; in mezzo vi aveva costruito una torre e scavato anche un tino – si notino le affinità con la parabola sopra ricordata –. Egli aspettò che producesse uva; essa produsse, invece, acini acerbi. E ora, abitanti di Gerusalemme e uomini di Giuda, siate voi giudici fra me e la mia vigna. Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna che io non abbia fatto? Perché, mentre attendevo che producesse uva, essa ha prodotto acini acerbi? Ora voglio farvi conoscere ciò che sto per fare alla mia vigna: toglierò la sua siepe e si trasformerà in pascolo; demolirò il suo muro di cinta e verrà calpestata. La renderò un deserto, non sarà potata né vangata e vi cresceranno rovi e pruni; alle nubi comanderò di non mandarvi la pioggia. Ebbene, la vigna del Signore degli eserciti è la casa d’Israele; gli abitanti di Giuda sono la sua piantagione preferita. Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi”.

Questo aspetto viene poi ripreso da Geremia 2.21, “Io ti avevo piantato come vigna pregiata, tutta di vitigni genuini; come mai ti sei mutata in tralci degeneri di vigna bastarda? Anche se tu ti lavassi con soda e molta potassa, resterebbe davanti a me la macchia della tua iniquità. Oracolo del Signore”.

 

La vigna allora, figura del Popolo di Dio, ha un suo significato storico ed uno attuale, è anche quel “campo” in cui “un nemico” ha seminato la zizzania, è un sistema molto più complesso che è stato descritto da Gesù in Giovanni 15.1-8 Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli”.

Altro elemento che indica il territorio di Dio è il “campo”, quando Gesù disse, spiegando la parabola delle zizzanie, “il campo è il mondo e il seme buono sono i figli del Regno. La zizzania sono i figli del Maligno” (Mt 13.38): una zona enormemente vasta in cui l’Avversario ha potuto seminare grazie alla disubbidienza di Adamo che lo ha messo in condizione di operare quando, al contrario, doveva operare in un ambito diverso ed essere collaboratore dell’Eterno.

Non è possibile classificare univocamente la vigna, nel senso che comporta più atteggiamenti tanto di Dio e di Gesù quanto dell’uomo che vi lavora, operaio e tralcio al tempo stesso e si possa fare attorno a lei un’ultima annotazione: in Matteo 9. 37,39 Gesù, vedendo le folle, “ne sentì compassione perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore. Allora disse ai suoi discepoli: «La messe è grande, ma pochi sono gli operai! Pregate dunque il Signore della messe, perché mandi operai nella sua messe»” (Matteo 9.37,38; Luca 10.2); qui vediamo un campo sterminato pronto – in prospettiva – per essere colto, in cui è necessario che ci siano uomini in grado di lavorare e mettere al sicuro ogni piantina. E da questi versi vediamo quando sia facile generalizzare e confondere la terminologia: c’è un “campo” che è il “mondo”, c’è un “granaio”, c’è la “zizzania” che verrà raccolta e bruciata (non da noi), c’è una “vigna” che ha bisogno di “operai”, c’è una “vite” che ha dei “tralci” e ciascuno di questi elementi è in stretto rapporto comunque con gli altri; credo che, nel caso della parabola che stiamo per esaminare, la “vigna” in cui gli operai vengono mandati a lavorare sia un territorio che simboleggia l’opera di Dio attraverso i secoli che si concreta attraverso il cammino del Suo Popolo, sempre Chiesa nel senso di “chiamati fuori” a prescindere dall’epoca in cui ha operato. Non a caso Giovanni Diodati, commentando l’Antico Testamento, parla di “Chiesa” anche riguardo a Israele.

 

Tornando al nostro testo, la prima uscita del padrone è all’alba, quando ai tempi di Gesù e ancora per molto tempo dopo i lavoratori a giornata si riunivano coi loro attrezzi sulla piazza del mercato e attendevano chi li chiamasse. È molto indicativo il fatto che è il padrone stesso a svegliarsi, alzarsi e uscire di casa, chiamando personalmente ciascun lavoratore stabilendo il prezzo, cioè un denaro che era la paga giornaliera ordinaria di un operaio. Avrebbe potuto delegare questo compito a un servitore che certamente aveva, ma volle interessarsi personalmente della vigna quasi fosse un prolungamento di se stesso, una parte di lui.

Appare chiaro che la “vigna” allude a qualcosa di grande, importante a tal punto da richiedere manodopera aggiuntiva per cinque volte: prima all’alba, poi alle nove del mattino (l’ora terza), a mezzogiorno, alle tre del pomeriggio (l’ora sesta e la nona) e infine verso le cinque (l’ora undicesima), quando mancava poco al finire del giorno e nonostante tutto l’opera di quegli uomini era ancora necessaria.

Mi sono chiesto cosa simboleggiassero queste differenti ore e i relativi lavoratori: si tratta del Popolo di Dio in cammino? Gli operai che vengono chiamati all’alba, sono coloro che operarono sotto la Legge e gli ultimi nella “Grande Tribolazione”, oppure si tratta di persone che si convertono chi in età giovane, chi quando la vita è in gran parte trascorsa? Propenderei per la seconda ipotesi perché nella parabola c’è questa successione temporale e sono proprio quelli delle cinque pomeridiane cui viene detto “Perché ve ne state qua tutto il giorno senza far niente?”, domanda che si collega ad un invito ben più importante che leggiamo in Isaia 55.2,3 “Perché spendete denaro per ciò che non è pane, il vostro guadagno per ciò che non sazia? Su, ascoltatemi e mangerete cose buone e gusterete cibi succulenti. Porgete l’orecchio e venite a me, ascoltate e vivrete”.

L’invito ai lavoratori dell’ultimo tempo credo sia da leggersi in questo modo, così come tutte le persone chiamate a lavorare sono da inquadrarsi sotto l’ottica dell’apostolo Paolo in 1 Corinti 3.9 quando scrive “Siamo infatti collaboratori di Dio, e voi siete campo di Dio, edificio di Dio”, arrivando a Colossesi 3.23,24 che ci anticipa il senso della parabola relativo al denaro ricevuto da quei lavoratori: “Qualunque cosa facciate, fatela di buon animo, come per il Signore e non per gli uomini, sapendo che dal Signore riceverete come ricompensa l’eredità”.

L’eredità è proprio la ricompensa che è simboleggiata dal “denaro” col quale il padrone della vigna si era accordato coi lavoratori all’alba e che viene dato anche agli ultimi, quelli del tardo pomeriggio che avevano faticato molto meno, un’ora o poco più stante il fatto che la paga viene data al tramonto: i lavoratori dell’alba non si sentono defraudati di qualche cosa perché il denaro convenuto era stato loro dato, ma perché non ritenevano giusta la proporzione fra il loro lavoro e quello degli ultimi chiamati; in altre parole, sono la figura di quei credenti che dimenticano di confrontarsi con Dio e guardano i loro simili, come vivono, vanno a sindacare ciò che hanno ricevuto da Dio e si lasciano sopraffare da sentimenti di invidia e restano scontenti.

Gesù, con questa parabola, non intende screditare l’operato dei primi, ma con le parole “Prendi il tuo e vattene” intende ribadire che, in quanto padrone, così è il suo deciso e che non poteva essergli nulla rilevato perché i patti erano stati rispettati: “un denaro” per quelli chiamati all’alba, “ciò che è conveniente” per quelli delle nove, di mezzogiorno e delle tre, addirittura non si era parlato di compenso per quelli delle cinque.

Possiamo fare una connessione con Romani 9.15-23: Che diremo dunque? C’è forse ingiustizia da parte di Dio? No, certamente! Egli infatti dice a Mosè: Avrò misericordia per chi vorrò averla, e farò grazia a chi vorrò farla. Quindi non dipende dalla volontà né dagli sforzi dell’uomo, ma da Dio che ha misericordia. (…) O uomo, chi sei tu, per contestare Dio? Oserà forse dire il vaso plasmato a colui che lo plasmò: «Perché mi hai fatto così?». Forse il vasaio non è padrone dell’argilla, per fare con la medesima pasta un vaso per uso nobile e uno per uso volgare? Anche Dio, volendo manifestare la sua ira e far conoscere la sua potenza, ha sopportato con grande magnanimità gente meritevole di collera, pronta per la perdizione. E questo, per far conoscere la ricchezza della sua gloria verso gente meritevole di misericordia, da lui predisposta alla gloria, cioè verso di noi, che egli ha chiamato non solo tra i Giudei ma anche tra i pagani.

Questo ci porta a considerare un fatto importante e cioè che il mormorio prodotto, “Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo”, contengono tutto il metodo valutativo umano in senso egoistico descritto con la contrapposizione dei termini “invidioso” e “buono” delle parole del padrone della vigna. In altri termini i “mormoratori” non avrebbero avuto nulla da ridire sulla paga di un denaro per un giorno di lavoro, ma criticano l’operato del padrone senza motivo visto che, del suo, poteva fare quello che voleva, anche dare la stessa paga a chi aveva “lavorato solo un’ora”.

Da qui deriva la risposta “Prendi ciò che è tuo e vattene”: chi aveva ragionato in quel modo era bene che prendesse la sua ricompensa e non dicesse più nulla, tenendosi il compenso per la fatica che certamente aveva impiegato nel lavorare tutto il giorno, ma sarebbe stato un “ultimo” nel senso che la valutazione espressa sugli altri lavoratori aveva fatto sì che avesse perso parte della considerazione in cui lo avrebbe tenuto il proprietario della vigna.

Quindi: ogni operaio prende il proprio premio, lo stesso, indipendentemente da quanto ha lavorato in termini di quantità oraria che non ha nulla a che vedere con quello che verrà dato in seguito, “in base a quanto ognuno avrà operato”, per cui l’essere “primo” o “ultimo” è qualcosa che compete solo a Dio, sorpassando ogni valutazione o presunzione umana.

“Prendi ciò che è tuo e vattene” può suonare anche come una sentenza e in un certo senso lo è perché, pur non andando ad intaccare la retribuzione in cui possiamo vedere la salvezza, comporta l’assegnazione della stanza in quella “casa” dove ve ne sono molte e vi sarà chi avrà posti prestigiosi, i “primi”, e chi invece dovrà occupare “gli ultimi”.

Si può concludere con le parole di Giuseppe Ricciotti che scrive “L’insegnamento generico di questa parabola è che la liberalità di Dio si riversa su chi vuole e nella misura che ne vuole e che la ricompensa finale dei seguaci di Gesù sarà nella sua parte essenziale eguale per tutti. (…) I braccianti della vigna si riferiscono a quei discepoli che in vista del regno dei cieli si ritenevano per qualsiasi ragione più adorni di meriti che altri, specialmente quei Giudei di spirito onesto ma di mentalità strettamente giudaica che si ritenevano più accetti a Dio per la loro appartenenza alla nazione eletta. Per costoro i pubblicani, le meretrici e anche i pagani, potevano essere ammessi nel regno dei cieli quando si fossero convertiti, tuttavia in quel regno sarebbero stati di gran lunga dietro ai fedeli e genuini israeliti, pieni di millenari meriti al cospetto di Dio. Gesù invece insegna che siffatti primati scompariranno e che la liberalità del Re dei cieli potrà far passare gli ultimi ai primi posti, cosicché coloro che già erano primi diventeranno ultimi”. Amen.

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