15.20 – RICEVERE (Marco 10.28-31)

15.20 – Ricevere (Marco 10.28-31)

 

 28Pietro allora prese a dirgli: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito». 29Gesù gli rispose: «In verità io vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, 30che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà. 31Molti dei primi saranno ultimi e gli ultimi saranno primi».

 

Nel riflettere sul discorso successivo all’uscita di scena del ricco che aveva interpellato Gesù a proposito di cosa avrebbe dovuto fare per avere la vita eterna, torniamo al testo di Marco perché aggiunge, rispetto a Matteo, un particolare importante: come avremo notato manca della parte relativa ai dodici sul giudicare le dodici tribù di Israele e parla di una retribuzione, per chi avrebbe abbandonato i propri averi, “già ora, in questo tempo, cento volte tanto” (v.30), mentre Luca scrive “…che non riceva molto di più nel tempo presente e nel tempo che verrà” (18.30).

La riposta di Gesù a Pietro inizia con “In verità io vi dico”, quindi con il proprio Amen, con tutta la solidità di quanto affermerà subito dopo. Non vi è alcun rimprovero all’apostolo perché la sua domanda è impertinente, anzi la ritenne di grande importanza perché gli dà l’occasione di stabilire un concetto fondamentale: chi avrà lasciato i propri beni, del mondo o affettivi, “per causa mia e per causa del Vangelo”, avrebbe ricevuto “già ora, in questo tempo, cento volte tanto (…) insieme a persecuzioni”.

Ora, presa letteralmente questa affermazione, potrebbe lasciare supporre che il discepolo di Cristo veda moltiplicare già in questa vita ciò che ha lasciato, quindi il suo guadagno sia materialmente tangibile: chi abbandona una casa, ne avrà cento e così via.

La chiave per interpretare correttamente ciò che vuol dire Nostro Signore sta però nel numero 100 che indica piena soddisfazione, il punto in cui si uniscono le aspettative dell’uomo e di Dio. Da qui ne deriva che, chi avrà abbandonato ciò che ha per Gesù ed il Vangelo, avrà molto di più nel senso che troverà il suo premio nella sazietà e nell’abbondanza spirituale “già da ora, in questo tempo” che si concreterà nel non rimpiangere le cose lasciate e si troverà nella condizione di essere pienamente soddisfatto a prescindere.

Non si possono categorizzare le ricompense di Dio nel senso che le sue benedizioni sono diverse e ancora una volta guidate dallo Spirito: guardando alla dispensazione della Legge, cui certamente Gesù volse lo sguardo nel citare la nostra frase, ricordiamo Giobbe quando fu ristabilito: “Il Signore benedisse il futuro di Giobbe più del suo passato. Così possedette quattordicimila pecore e seimila cammelli, mille paia di buoi e mille asine. Ebbe anche sette figli e tre figlie. Alla prima mise nome Colomba, alla seconda Cassia e alla terza Argentea. In tutta la terra non si trovarono donne così belle come le figlie di Giobbe e il loro padre le mise a parte dell’eredità insieme con i loro fratelli”.

Ancora, in Proverbi 3.9,10 e 15.18, abbiamo “Onora il Signore con i tuoi averi e con le primizie di tutti i tuoi raccolti; i tuoi granai si riempiranno oltre misura e i tuoi tini traboccheranno di mosto. (…) La sapienza è più preziosa di ogni perla e quanto puoi desiderare non l’eguaglia. Lunghi giorni sono nella sua destra e nella sua sinistra ricchezza e onore; le sue vie sono vie deliziose e tutti i suoi sentieri conducono al benessere. È un albero di vita per chi l’afferra, e chi ad essa si stringe è beato”.

            Ora, essendo come sappiamo la Legge “un pedagogo che guida verso Cristo” (Galati 3.22), ecco che i “cento” elementi promessi vengono convogliati in uno stato di soddisfazione e quiete che nemmeno le persecuzioni possono scalfiggere e qui entriamo in un campo estremamente particolare perché quel “persecuzioni” della frase in esame sta a significare che, per lo Spirito, la pace con Dio e la Sua approvazione provocano un atteggiamento del tutto nuovo: ricordiamo Mosè che, divenuto adulto, rifiutò di essere chiamato figlio della figlia del faraone, preferendo essere maltrattato con il popolo di Dio piuttosto che godere momentaneamente del peccato. Egli stimava ricchezza maggiore dei tesori d’Egitto l’essere disprezzato per Cristo; aveva infatti lo sguardo fisso sulla ricompensa” (Ebrei 11.24-26). Quest’uomo abbandonò la sua agiata, potremmo dire splendida vita di corte, per farsi carico di un’esistenza profondamente diversa, opposta, ma avendo “lo sguardo fisso sulla ricompensa” non esitò a vivere come sappiamo, un servizio incessante e faticoso sentendone il peso in minima parte, senza tornare indietro.

Riguardo alle persecuzioni, senza citare quelle a cui sono sottoposti i cristiani anche nel tempo presente, guardiamo a quelle subite dall’apostolo Paolo che elenca le sue traversie in 2 Corinti 11. 24-27: “Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i quaranta colpi meno uno; tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balìa delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli; disagi e fatiche, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità”.

Pietro e gli altri apostoli, del resto, quando furono arrestati e flagellati dai Giudei, leggiamo che … se ne andarono via dal sinedrio, lieti di essere stati giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù. E ogni giorno, nel tempio e nelle case, non cessavano di insegnare e di annunciare che Gesù è il Cristo” (Atti 5.41). Da notare che Luca, autore di questo commento, omette di citare la sofferenza che gli apostoli avranno indubbiamente provato per la flagellazione, non descrive il loro umanamente pietoso ritorno a casa né le cure di cui saranno stati certamente bisognosi, ma focalizza tutto sullo stato d’animo: paradossalmente, il dolore fisico fu sopportato dall’essere stati giudicati “degni di subire oltraggi per il nome di Gesù”. La sofferenza si tramutò allora in gioia. Del resto leggiamo “…ci vantiamo anche nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato”. (Romani 5.3-5).

Credo che in questi scritti ci troviamo di fronte a un concetto di dolore totalmente diverso, rivoluzionario rispetto a quello comunemente sentito perché non leggiamo di personaggi che affrontano stoicamente un destino e neppure all’imperturbabilità di un Budda, ma a una condizione precisa in cui lo Spirito è naturalmente dominante sulla carne e, avendone il sopravvento, non porta più l’uomo naturale a comportarsi nelle sue reazioni guardando costantemente per terra e a se stesso. La sua esistenza materiale non è più qualcosa di prioritario, da tenere a mente fra gli obiettivi primari, qualcosa da difendere gelosamente con ogni mezzo perché lo Spirito porta la mente, da lui dipendente, ad un livello differente; ecco perché, quando a Lui si sostituisce quello umano, i risultati sono disastrosi.

Consideriamo la morte, che per l’essere umano che conosciamo rappresenta la fine di tutto. In 2 Timoteo 4.6-8, 18 leggiamo qualcosa di totalmente diverso quando l’apostolo Paolo sa che sta per concludere la propria esistenza e scrive “Io infatti sto già per essere versato in offerta ed è giunto il momento che io lasci questa vita. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno; non solo a me, ma anche a tutti coloro che hanno atteso con amore la sua manifestazione. (…) Il Signore mi libererà da ogni male e mi porterà in salvo nei cieli, nel suo regno; a lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen”.

Giunti a questo punto resta da considerare la frase, divenuta poi una sorta di proverbio, “Molti dei primi saranno ultimi e molti ultimi, primi”: può essere un riferimento a quella persona che gli si era gettata ai piedi chiedendo lumi per avere la vita eterna? Indubbiamente, per la società in cui viveva, quell’uomo era un “primo” che però, per la sua ostinazione e incapacità di andare oltre se stesso, si sarebbe ritrovato ultimo.

Il tema è però molto più complesso e riguarda prima di tutto lo stravolgimento del concetto che vedeva Israele come popolo di Dio per eccellenza, ora non più – pur mantenendo l’elezione secondo Romani 11.28-32 – ed “il regno è stato dato ad altri”, perché lo avrebbero “fatto fruttificare” (Matteo 21.43). A commento dell’episodio del servo del centurione, Gesù disse che molti verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli, mentre i figli del regno saranno cacciati fuori, nelle tenebre, dove sarà pianto e stridore di denti” (8.11-13).

Ricordando poi un altro passo già meditato, Luca riporta “Io vi dico: fra i nati da donna non vi è alcuno più grande di Giovanni, ma il più piccolo nel regno di Dio è più grande di lui.  Tutto il popolo che lo ascoltava, e anche i pubblicani, ricevendo il battesimo di Giovanni, hanno riconosciuto che Dio è giusto. Ma i farisei e i dottori della Legge, non facendosi battezzare da lui, hanno reso vano il disegno di Dio su di loro” (7.28-30).

Lo stravolgimento delle aspettative primi-ultimi e viceversa sarà qualcosa che stravolgerà tutti quelli che lo constateranno, compresi quelli che vedono Israele condannato a prescindere: Non voglio infatti che ignoriate, fratelli, questo mistero, perché non siate presuntuosi: l’ostinazione di una parte d’Israele è in atto fino a quando non saranno entrate tutte quante le genti. Allora tutto Israele sarà salvato, come sta scritto: Da Sion uscirà il liberatore, egli toglierà l’empietà da Giacobbe. Sarà questa la mia alleanza con loro quando distruggerò i loro peccati. Quanto al Vangelo, essi sono nemici, per vostro vantaggio; ma quanto alla scelta di Dio, essi sono amati, a causa dei padri, infatti i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili! 30Come voi un tempo siete stati disobbedienti a Dio e ora avete ottenuto misericordia a motivo della loro disobbedienza, così anch’essi ora sono diventati disobbedienti a motivo della misericordia da voi ricevuta, perché anch’essi ottengano misericordia. Dio infatti ha rinchiuso tutti nella disobbedienza, per essere misericordioso verso tutti!” (Romani 11.12-25).

Il concetto ultimi-primi, riguarda dunque per prima cosa questo rapporto sostitutivo in cui i pagani, i quali non cercavano la giustizia, hanno raggiunto la giustizia, la giustizia però che deriva dalla fede; mentre Israele, il quale cercava una Legge che gli desse la giustizia, non raggiunse lo scopo della Legge. E perché mai? Perché agiva non mediante la fede, ma mediante le opere. Hanno urtato contro la pietra d’inciampo” (Romani 9.30.32).

In second’ordine, sempre riguardo gli “ultimi” e i “primi”, non può non esservi un accenno alla Chiesa, corrottasi nel corso dei secoli ma che ha visto sempre la presenza di un “rimanente fedele”, non considerato dagli uomini, che ha custodito e praticato le parole di Cristo.

Concludendo, tutto si riassume nel commento di Gesù a commento della parabola del fariseo e del pubblicano recentemente esaminata: “Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta – da se stesso – sarà umiliato, chi invece si umilia – da se stesso –, sarà abbassato” (Luca 18.14). Si tratta allora di un processo interiore, che emergerà quando tutti, volenti o nolenti, compariranno al tribunale di Cristo. Amen.

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15.19 – LASCIARE E SEGUIRE (Matteo 19.27-30)

15.19 – Lasciare e seguire (Matteo 19.27-30)

 

 27Allora Pietro gli rispose: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; che cosa dunque ne avremo?». 28E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: voi che mi avete seguito, quando il Figlio dell’uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, alla rigenerazione del mondo, siederete anche voi su dodici troni a giudicare le dodici tribù d’Israele. 29Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna. 30Molti dei primi saranno ultimi e molti degli ultimi saranno primi.

 

Il discorso di Gesù sulle ricchezze da abbandonare si completa con le parole provocate da una domanda di Pietro, quello che più di tutti gli altri undici è sempre pronto a farsi domande e soprattutto a porle. Il confronto fra le versioni dei sinottici, poi, ci consentirà di effettuare delle interessanti applicazioni ed estensioni. L’Apostolo, tornando alle sue parole in questo episodio, non esprime dei dubbi sulle parole del Maestro, ma, consapevole di averlo seguito fin dall’inizio del Suo Ministero, (Marco 1.16), gli chiede “Ecco, noi abbiamo lasciati tutto e ti abbiamo seguito: che cosa ne avremo?”. La sua non è una domanda mossa da interesse “venale”, ma dettata da quel “tesoro nel cielo” che avrebbe avuto il ricco se avesse lasciato i suoi beni. In realtà anche le parole “questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile”, più che essergli oscure, non sapeva come connetterle a quanto era appena accaduto: quel ricco era andato via da poco, era appena stato detto che persone della sua categoria sarebbero entrate nel regno dei cieli con enorme difficoltà, ma l’apostolo aveva ben presente che lui e i suoi compagni da ormai circa tre anni avevano scelto di vivere diversamente e, quindi, “Che dunque ne avremo?” è la domanda che scaturisce dall’incapacità di trovare da solo una risposta. Anche noi dovremmo fare la stessa cosa, cioè chiedere a Nostro Signore, attraverso il suo Santo Spirito, di illuminarci quando non capiamo, di aiutare la nostra intelligenza spirituale impossibile a gestire con le nostre forze o possibilità umane.

A questo punto, armonizzando i testi, la risposta di Gesù è doppia nel senso che riguarda da un lato i dodici, dall’altro gli altri discepoli, compresi quelli che verranno dopo di loro. I primi avranno un posto elevatissimo “alla rigenerazione del mondo”, termine che il tutto il Nuovo Testamento si trova solo anche in Tito 3.5: “Egli ci ha salvati non per opere giuste da noi compiute, ma per la sua misericordia, con un’acqua che rigenera e rinnova nello Spirito santo”, chiaro riferimento alla nuova nascita, a quell’essere “nati di acqua e di spirito” che costituisce l’unica condizione per entrare nel regno di Dio (Giovanni 3.5).

Ecco allora che con “rigenerazione del mondo” Gesù parla non di quello che conosciamo, ma di una trasformazione che inizierà col Millennio, quando Satana sarà “legato” e si concluderà con la realizzazione di Apocalisse 21.1-5: E vidi un cielo nuovo e una terra nuova: il cielo e la terra di prima infatti erano scomparsi e il mare non c’era più. E vidi anche la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii allora una voce potente, che veniva dal trono e diceva: «Ecco la tenda di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro ed essi saranno suoi popoli ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio. E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate»”.

Altro dettaglio Gesù lo dà con le parole “Quando il Figlio dell’uomo sarà seduto sul trono della sua gloria”, cioè quando sarà visibile a tutti come tale, non nella Gloria di Dio Padre nella quale è ora e fu visto dai profeti. L’oggi, in cui si nega l’esistenza di Gesù anche solo come personaggio storico, è l’illusione, la finzione, la fede nelle proprie possibilità e nient’altro, ma in quanto “oggi” è destinato inevitabilmente a finire: Quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita? O che cosa un uomo potrà dare in cambio della propria vita? Perché il Figlio dell’uomo sta per venire nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e allora renderà a ciascuno secondo le sue azioni” (Matteo 16,27).

Ancora Matteo (25.31,33) chiarisce ulteriormente il concetto: “Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra”.

Ebbene, nel nostro passo Gesù dà un’importante notizia ai suoi che ribadirà poi più avanti con le parole “Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove e io preparo per voi un regno, come il Padre mio l’ha preparato per me, perché mangiate e beviate alla mia mensa nel mio regno. E siederete in trono a giudicare le dodici tribù d’Israele” quando, in 1 Corinti 6.2,3 l’apostolo Paolo sostiene “Non sapete che i santi giudicheranno il mondo? E se siete voi a giudicare il mondo, siete forse indegni di giudizi di minore importanza? Non sapete che giudicheremo gli angeli? – quelli che hanno seguito Lucifero – Quanto più le cose di questa vita!”.

Abbiamo quindi due compiti: gli apostoli, ebrei, che perseverarono con lui nelle sue prove, giudicheranno “le dodici tribù d’Israele” proprio in quanto appartenenti allo stesso popolo, gli altri, i credenti, i santi, “giudicheranno il mondo” perché si saranno da lui separati e non avranno voluto condividere i suoi metodi, ideali, morale.

 

Dopo il messaggio specifico, individuale diretto ai dodici – ricordiamo che Giuda verrà sostituito da Mattia, (Atti 1.26) –, abbiamo quello diretto a “chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome”. All’elenco Luca aggiunge la moglie. Sul significato del verbo “lasciare” sono state spese molte parole, ma qui credo che vada inserito un aggiornamento, fermo restando che il senso, come per le ricchezze, è che tutto quanto elencato non deve diventare un pensiero dominante a tal punto da oscurare il servizio e, se così accade, va abbandonato. Ad esempio Pietro, che certamente lasciò ciò che aveva, portò con sé la moglie nel suo ministero, come sappiamo da Paolo che scrive “Non abbiamo noi – plurale che interessa gli apostoli – il diritto di portare con noi una donna credente, come fanno anche gli altri apostoli e i fratelli del Signore e Cefa?” (1 Corinti 9.5).

Lasciare “per il mio nome” significa, fatti gli stessi calcoli per la costruzione della torre recentemente citata a proposito dello studio sul matrimonio, porsi nelle condizioni di abbandonarsi a Lui in quanto realmente chiamati a svolgere un compito per cui il doversi occupare di “case, fratelli, sorelle, padre, madre, figli o campi” risulterebbe di intralcio. Questo naturalmente esclude i doveri di assistenza perché un “lasciare” a senso unico, perché colti da misticismo o da un senso religioso facili si ritorcerebbero contro colui che così agisce: infatti 1 Timoteo 5.8 riporta “Se poi qualcuno non si prende cura dei suoi cari, soprattutto quelli della sua famiglia, costui ha rinnegato la fede ed è peggiore di un infedele”. Ecco perché chi “lascia” senza una chiamata ben precisa di Dio si assume un’enorme responsabilità coi quali si ritroverà presto o tardi a fare i conti.

Appare chiaro allora che tutto deve venire svolto sotto l’insegna dell’equilibrio e che non si può all’improvviso abbandonare non tanto gli averi materiali, ma le persone a noi vicine a meno che, come detto e vedremo, non costituiscano un vincolo che impedisce il servizio cristiano se c’è una chiamata in proposito. Anche qui, sbaglieremmo a cercare grandi cose, grandi strade, compiti: tutto parte dall’obiettività, come ad esempio scrisse Paolo parlando della sua condizione di fariseo, di appartenente alla tribù di Beniamino e di scrupoloso osservante la Legge di Mosè: “Queste cose, che per me erano guadagni – ecco un’altra forma di ricchezza –, io le ho considerate una perdita a morivo di Cristo. (…) Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo” (Filippesi 3.7,8). Quello fu il punto di partenza dell’apostolo; pensiamo che abbandonò la grande considerazione che godeva fra i Giudei. Poi vennero le rinunce a tutto il resto, i viaggi, le persecuzioni e le liberazioni di Dio.

“Lasciare”, se è un’azione che viene svolta correttamente, è un atto di profonda maturità e fede che, come nel caso di Abramo, il primo che mise in pratica questo verbo dietro espressa chiamata di Dio, non può che portare a benedizioni: “Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò. Farò di te una grande nazione e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e possa tu essere una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò, e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra” (Genesi 12.1-3).

Sempre parlando di Antico Patto ricordiamo la figura dei leviti, cui era demandato il servizio di cantare, suonare e assistere i sacerdoti oltre al trasporto dell’Arca dell’Alleanza: di Levi, loro capostipite, Mosè dice “…lui che dice del padre e della madre: «Non li ho visti», che non riconosce i suoi fratelli e ignora i suoi figli (…), benedici, Signore, il suo valore e gradisci il lavoro delle sue mani” (Deuteronomio 33.7-10). E se volessimo domandarci cosa significa tutto questo per noi oggi possiamo rifarci al fatto che, semplicemente, non siamo più del mondo e quindi ci troviamo in una condizione in cui il suo abbandono è l’unica scelta possibile: “Se il mondo vi odia, sappiate che prima ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma vi ho scelti io dal mondo, per questo lui vi odia” (Giovanni 15.18,19). Partendo da questo principio, ogni cosa viene da sé.

Credo che non esista credente che non abbia abbandonato qualcosa e dobbiamo tenere sempre presente che ogni discorso di Gesù porta sempre con sé affermazioni che vanno interpretate alla condizione della persona e alla realtà in cui si trova e al fatto che, come già riportato altrove, dobbiamo “accomodarci alle cose basse”, al “poco” perché ci venga affidato il “molto”, altrimenti saremmo come quelli che, anziché procurarsi uno sviluppo muscolare armonico con allenamento e fatica, si gonfiano di anabolizzanti ottenendo risultati molto discutibili. La stessa cosa si verifica in ambito spirituale.

Restano da esaminare le ultime parole di Gesù, quelle che riguardano gli effetti dell’abbandono, ma mancando lo spazio, sarà argomento del prossimo capitolo.

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15.18 – DIFFICILE ENTRARE NEL REGNO DI DIO (Marco 10.23-27)

15.18 – Difficile entrare nel regno di Dio (Marco 10.23-27)

 

23Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!». 24I discepoli erano sconcertati dalle sue parole; ma Gesù riprese e disse loro: «Figli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio! 25È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio». 26Essi, ancora più stupiti, dicevano tra loro: «E chi può essere salvato?». 27Ma Gesù, guardandoli in faccia, disse: «Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio».

 

L’uscita di scena del ricco portò Gesù ad alcune considerazioni che possiamo dividere in due parti, questa e un’altra relativa alle benedizioni conseguenti, come chiese Pietro, all’abbandono dei loro beni, che affronteremo nel prossimo capitolo.

Qui Gesù volge “lo sguardo attorno” per vedere le reazioni degli astanti alle sue parole e alla risposta, non verbale, di colui che lo aveva appena interrogato circa il conseguimento della “vita eterna” e che se ne era andato, triste. Ciò che disse, “Quanto è difficile, per coloro che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!”, li lasciò “sconcertati” perché mai si sarebbero immaginati che persone autorevoli e stimate dagli uomini non sarebbero stati altrettanto considerati e accolti nel Regno e soprattutto occorresse abbandonare “le loro ricchezze”. Per questo occorreva specificare e le Sue parole non sono ben tradotte nella nostra versione, poiché sarebbe più corretto scrivere “Quanto è difficile che coloro che si confidano nelle ricchezze entrino nel regno di Dio”, frase che corregge l’idea che uno si potrebbe fare leggendo la nostra che parrebbe sostenere che a una persona, solo perché benestante o di condizione agiata, sia quasi preclusa la possibilità di salvarsi.

Prima di passare ad esaminare le parole successive va sottolineato che l’avere delle “ricchezze” potrebbe far sì che colui che ne è dotato basi la propria vita su di esse ritenendosi al sicuro da tutto e da tutti, che quello sia il suo “tesoro” e sappiamo che là dove questo è, lì sarà il suo cuore (Matteo 6.19). Il problema è quello, espresso anche nell’impossibilità di “servire a Dio e a Mammona” (Luca 16.13) oltre all’immensa differenza fra l’avere un tesoro sulla terra, “dove tignola e ruggine consumano e i ladri scassinano e rubano” (Matteo 6.19) e in cielo, dove tutto ciò è impossibile. La differenza sta nel fatto che il primo “tesoro” è qualche cosa di oggettivamente tangibile mentre il secondo, quello “nel cielo” viene accettato per fede, rivelato non tanto e non solo dalle parole di Gesù, ma soprattutto dallo Spirito.

C’è quindi un’enorme differenza fra la ricchezza quando viene impiegata per sé stessi o per aiutare il prossimo, quest’ultima stigmatizzata da Gesù a conclusione della parabola dell’amministratore disonesto: “Fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare – con la morte –, essi vi accolgano nelle dimore eterne” (Luca 16.9).

Il dover gestire delle somme ingenti, infatti, porta la persona a darsi interamente ad esse agendo a danno di altri per accumularne di ulteriori, come constatiamo dalle cronache di ogni giorno in cui uomini senza scrupoli, totalmente asserviti alla loro insaziabilità per l’accumulare, sono pronti a calpestare i diritti altrui e, nel caso ad esempio delle multinazionali, provocare squilibri all’ambiente fino a quando la terra stessa non presenterà una volta per tutte un conto che sarà impossibile pagare.

È quindi l’amore disordinato per il denaro, indipendentemente dal fatto che uno sia ricco o povero, che preclude la possibilità di aprirsi verso quello per l’Unico che, alla fine, darà la giusta retribuzione in base a come la persona avrà speso la propria vita perché “Non abbiamo portato nulla nel mondo e nulla possiamo portare via. Quando abbiamo dunque di che mangiare e di che coprirci, accontentiamoci. Quelli invece che vogliono arricchirsi – notare il “vogliono” –, cadono nella tentazione, nell’inganno di molti desideri insensati e dannosi, che fanno affogare gli uomini nella rovina e nella perdizione. L’avidità del denaro infatti è la radice di tutti i mali; presi da questo desiderio alcuni hanno deviato dalla fede e si sono procurati molti tormenti” (1 Timoteo 6.7-10).

Il testo prosegue con l’indicazione dell’unica strada possibile: “Ma tu, uomo di Dio, evita queste cose; tendi invece alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza. Combatti la buona battaglia della fede, cerca di raggiungere la vita eterna alla quale sei stato chiamato e per la quale hai fatto la tua bella professione di fede davanti a molti testimoni” (vv. 11,12). Sono queste azioni chiaramente impossibili anche solo a tentarsi da chi ha obiettivi diversi, visti appunto nel denaro e infatti l’uomo che aveva appena interrogato Gesù su cosa avrebbe dovuto fare per avere la vita eterna, se ne andò rattristato. E a quanto sappiamo non fece più ritorno a Lui.

Il problema, quindi, è nel fare affidamento sugli averi materiali. Così infatti leggiamo in Giobbe 31.24,25: “Se ho riposto la mia speranza nell’oro e all’oro fino ho detto: «Tu sei la mia fiducia». Se ho goduto perché grandi erano i miei beni e guadagnava molto la mia mano, (…) anche questo sarebbe stato un delitto da denunciare, perché avrei rinnegato Dio, che sta in alto”. Ricordiamo che “quest’uomo era il più grande – cioè ricco – tra tutti i figli d’oriente”.

Ancora Salmo 49.7-10: “Essi confidano nella loro forza, si vantano della loro grande ricchezza. Certo, l’uomo non può riscattare se stesso, né pagare a Dio il proprio prezzo. Troppo caro sarebbe il riscatto di una vita: non sarà mai sufficiente per vivere senza fine e non vedere la fossa”. E anche qui possiamo intravedere il “tesoro nel cielo” di cui parla Gesù.

La constatazione della ricchezza e l’associarsi ad altri della stessa condizione, poi, genera la prepotenza, e di chi così agisce è scritto “Perciò Dio ti demolirà per sempre, ti spezzerà e ti strapperà dalla tenda – da te tanto amata e nella quale ti credevi al sicuro – e ti sradicherà dalla terra dei viventi” (52.7).

A conferma poi che la ricchezza non è solo in termini di denaro o possedimenti, ecco Geremia 9.22,23: “Così dice il Signore: «Non si vanti il sapiente della sua sapienza, non si vanti il forte della sua forza, non si vanti il ricco della sua ricchezza. Ma chi vuol vantarsi, si vanti di avere senno e di conoscere me, perché io sono il Signore che pratico la bontà, il diritto e la giustizia sulla terra, e di queste cose mi compiaccio”.

Concludiamo il tema della difficoltà ad entrare nel regno di Dio con le parole di Giacomo 5.1-5 che inquadrano molto bene la categoria del ricco in senso negativo, che poi è un idolatra: “E ora a voi, ricchi: piangete e gridate per le sciagure che cadranno su di voi! Le vostre ricchezze sono marce, i vostri vestiti sono mangiati dalle tarme. Il vostro oro e il vostro argento sono consumati dalla ruggine – espressione figurata per indicare la loro inutilizzabilità di fronte a Dio –, la loro ruggine si alzerà ad accusarvi e divorerà le vostre carni come un fuoco. Avete accumulato tesori per gli ultimi giorni – per vivere la vecchiaia come se fosse una seconda giovinezza –! Ecco, il salario dei lavoratori che hanno mietuto sulle vostre terre, e che voi non avete pagato, grida, e le proteste dei mietitori sono giunte agli orecchi del Signore onnipotente. Sulla terra avete vissuto in mezzo a piaceri e delizie, e vi siete ingrassati per il giorno della strage – convinti di resistere anche al Giudizio –. Avete condannato e ucciso il giusto ed egli non vi ha opposto resistenza”.

Tornando al nostro passo, a questo punto abbiamo una frase diventata famosa anche nell’àmbito non cristiano, “È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio”, apparentemente incomprensibile, come già notato a suo tempo, se si interpreta l’ago come strumento usato per cucire; se infatti “kàmilos” fosse inteso come fune, equivarrebbe sostenere che nessun ricco potrebbe salvarsi, ma se quel termine fosse “kàmelos” “cammello” e l’ “ago” la porticina lasciata aperta di notte alle porte delle città in quanto quella principale veniva chiusa, il discorso cambia. A favore del “cammello” o della “corda” sono state fatte le più svariate ipotesi, ma resta comunque il fatto che Gesù, in questo caso, riferisce un detto comune nel mondo orientale per indicare un paradosso: “Nessuno ha mai visto fiorire una palma d’oro, o un cammello passare per la cruna di un ago”, o anche “Sei forse uno della Scuola giudaica in Babilonia, che sai far passare un elefante per la cruna di un ago?”.

Resta un fatto comunque fondamentale e cioè che quando Gesù parla di “ricco”, in questo caso non indica una persona più o meno agiata, ma chi si identifica nella tipologia di quanti intendono la ricchezza come un bene loro esclusivo e la usano a danni di altri o la idolatrano. In questo caso penso appaia chiaramente l’impossibilità indicata da Nostro signore.

Dal testo rileviamo che i discepoli furono ancora più pronti nella loro reazione, chiedendosi, dato che le cose stavano così, chi potesse essere salvato. Prima rimasero senza parole (il testo dice “erano sconcertati”), poi le trovano esprimendo tutto il loro disorientamento interrogandosi fra loro, cioè sperando di trovare una risposta l’uno con l’altro e non osavano chiedere a Colui che avrebbe potuto chiarire loro ogni cosa. Capirono che l’amore per il denaro e la ricchezza poteva trovarsi in chiunque e di lì la domanda? Non possiamo dirlo con certezza, ma il problema sorse in tutto il suo peso e non sapevano come interpretare le parole del loro Maestro.

A questo punto leggiamo che Gesù li guarda, ed è la terza volta che abbiamo quest’annotazione: la prima fu al verso 21, quando “guardò in viso” l’anonimo notabile, la seconda quando si “guardò intorno” al verso 23, ed infine qui, dicendo “Impossibile agli uomini, ma non a Dio, perché a Dio tutto è possibile!”, cioè spiegando che nessuno, impiegando i propri mezzi o virtù più o meno grandi, potrà mai salvarsi, cosa possibile a Dio tramite la Sua chiamata e lo Spirito Santo, non salvando Lui senza la partecipazione attiva dell’uomo convinto di peccato, giustizia e giudizio.

Credo che un passo significativo a commento di questa frase sia in Geremia 21.17: “Con la tua forza e potenza hai fatto il cielo e la terra, nulla ti è impossibile. (…) Grande nei pensieri e potente nelle opere sei tu, i cui occhi sono aperti su tutte le vie degli uomini, per dare a ciascuno secondo la sua condotta, secondo il frutto delle sue azioni”. Più avanti (v.27) leggiamo “Ecco, io sono il Signore, Dio di ogni essere vivente; c’è qualcosa di impossibile per me?”. Ecco perché, di fronte a Colui che tutto può, compreso rimettere il peccato della creatura che grida a Lui – e qui si manifesta l’ “impossibile” e il “possibile” –  ogni problema trova la sua soluzione, compreso quello della destinazione finale. Amen.

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15.16 – MATRIMONIO E CELIBATO (Matteo 19.10-12)

15.16 – Matrimonio e celibato (Matteo 19.10-12)

 

10Gli dissero i suoi discepoli: «Se questa è la situazione dell’uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi». 11Egli rispose loro: «Non tutti capiscono questa parola, ma solo coloro ai quali è stato concesso. 12Infatti vi sono eunuchi che sono nati così dal grembo della madre, e ve ne sono altri che sono stati resi tali dagli uomini, e ve ne sono altri ancora che si sono resi tali per il regno dei cieli. Chi può capire, capisca».

 

“Due facce della stessa medaglia” potrebbe essere il sottotitolo a queste riflessioni. Se il tema del matrimonio è molto complesso, quello del celibato, stando a quanto abbiamo letto, lo è altrettanto perché i discepoli, udite le parole del loro Maestro, si sentirono profondamente coinvolti in quanto molti di loro erano sposati: per l’ebraismo, come già ricordato, l’età del matrimonio per l’uomo era di 18 anni, 16 per la donna. Parlando poi dell’età necessaria per poter contrarre matrimonio, va detto che chi arrivava a 20 senza sposarsi era visto con sospetto che si annullava solo se questa persona si dava totalmente agli studi della Torà. Celibato e ascetismo erano eventi molto rari e la stessa lettura della Bibbia lo conferma. Gli insegnamenti rabbinici al riguardo, poi, tendono a vedere questa condizione come qualcosa di innaturale: “Non è chi si sposa a commettere il peccato: il peccatore è l’uomo non sposato che spende tutti i giorni in pensieri peccaminosi. Il matrimonio non serve solo a raggiungere l’amicizia e a procreare, ma realizza un individuo come persona. Entrambi gli sposi concorrono ad innalzare l’unione a livelli superiori per mezzo della mutua considerazione e del rispetto”.

Ora i discepoli, che consideravano sacro il vincolo matrimoniale ma fino a un certo punto perché avevano sempre il divorzio come via di uscita – e gli ebrei ne andavano fieri perché, secondo loro, era qualcosa che Dio aveva concesso solo al Suo popolo –, quando Gesù ebbe finito di rispondere ai Giudei furono molto stupiti delle Sue parole e conclusero che “Se – quindi formula dubitativa – è questa la situazione dell’uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi”. In pratica, i discepoli stentavano a credere che il divorzio non fosse quella pratica che intendevano, cioè un espediente a favore dell’uomo che, quando voleva liberarsi della donna per un motivo o per l’altro, poteva farlo e quindi, se così non poteva essere, era meglio restare senza vincoli.

A questo punto Gesù torna nuovamente a correggere il pensiero appena espresso, “non conviene sposarsi”, non contestando l’idea come aveva appena fatto col divorzio, ma dicendo “Non tutti capiscono questa parola – meglio “questo detto”, cioè il concetto appena espresso –, ma solo coloro ai quali è stato concesso”.

Da queste brevi parole possiamo effettuare alcune considerazioni: primo, “capire” forma un tutt’uno col mettere in pratica, non essendo possibile il celibato per tutti. Secondo, questo stato è qualcosa che “è stato concesso” come un dono, talché la traduzione più appropriata sarebbe “ma solo coloro ai quali è stato dato”. E comunque già l’avverbio “solo” allude a un restringimento di campo per cui, guardando le due condizioni opposte viste nello sposarsi o essere celibi, è innegabile che sia la prima condizione quella più naturale nonostante l’obbligo alla fedeltà e dell’impossibilità del divorzio tranne nel caso di fornicazione o adulterio.

Il celibato, quindi, è un dono e come tale va considerato e vissuto, è inutile praticarlo se non lo si possiede perché altrimenti, come per tutti gli altri doni, la persona si imbatterebbe altrimenti in seri disturbi mentali o, in questo caso, della sfera sessuale come possiamo constatare pressoché ogni giorno dalle cronache, quando leggiamo degli abusi praticate da vari sacerdoti della Chiesa di Roma e non solo. L’assenza della controparte femminile, non porta a una vita serena ed equilibrata per chi non ha il dono di cui trattiamo.

Come il matrimonio, il celibato non può essere imposto come condizione per accedere a compiti “più alti” nel senso che non è condizione migliore di servizio, ma indica una diversa espressione del proprio dare anche se, come vedremo, esiste un distinguo.

Al verso 12 Gesù parla di “eunuchi”, cioè persone che non sono in grado di procreare o di avere un rapporto sessuale e quindi non hanno interesse per il sesso opposto. Questo “non essere in grado” è riferito a una condizione di asessualità in cui il desiderio è del tutto assente; chi la vive considera il sesso come una perdita di tempo, qualcosa di noioso, lo paragona al mangiare senza sentire fame e se ne astiene in modo del tutto volontario e senza sforzo.

La prima delle categorie elencate è quella degli “eunuchi che sono nati così dal grembo della madre”, riferimento a quanti nascono privi delle ghiandole sessuali. La seconda riguarda coloro che “sono stati resi tali dagli uomini”, pratica barbara e crudele che consisteva nella castrazione che rendeva quelli parzialmente o completamente incapaci di attività sessuale, mentre la terza è riferita a quanti “si sono resi tali per il regno dei cieli”, cioè hanno rinunciato a questo tipo di espressione del loro corpo senza – attenzione – che questa presentasse per loro un problema determinante nei loro rapporti interpersonali. In altri termini, in questo caso, si tratta di persone che non soffrono per questa astinenza preferendo la castità non andandosi ad indentificare nei verbi “bruciare” o “non dominarsi” di cui parla l’apostolo Paolo in 1 Corinti 7.9, “Ai non sposati e alle vedove dico: è cosa buona per loro rimanere come sono io – cioè celibe –; ma se non sanno dominarsi, si sposino: è meglio sposarsi, che bruciare – dal desiderio –“.

Il matrimonio, infatti, fermo restando tutto quanto è stato detto finora, nella dispensazione della grazia non è più e non è tanto un’istituzione tesa alla procreazione – fatta di comune accordo e in base alla naturale tendenza ad allevare una prole –, ma ad evitare la fornicazione, cioè un uso libero del proprio corpo con chiunque per soddisfarsi: “Riguardo a ciò che mi avete scritto – perché la Chiesa di Corinto risentiva della filosofia greca in merito –, è cosa buona per l’uomo non toccare donna, ma, per evitare la fornicazione, ciascuno abbia la propria moglie e ogni moglie il proprio marito” (ibidem, 7.1). Certo qui Paolo parla del corpo, ma non per questo sostiene che non siano necessari la compatibilità interpersonale e comunione d’intenti e progetti.

L’astinenza dai rapporti sessuali e quindi il celibato, sono da preferirsi al matrimonio a condizione che l’uomo o la donna non avvertano dentro di sé quegli stimoli che, in assenza di marito o moglie, li porterebbero a trasgredire il comandamento di Dio in merito alla purezza del proprio corpo: “Non sapete voi che i vostri corpi sono membra di Cristo? Prenderò dunque le membra di Cristo e ne farò membra di una prostituta? Non sia mai! Non sapete che chi si unisce a una prostituta forma con essa un corpo solo? I due, è detto, diventeranno una sola carne. Ma chi si unisce al Signore firma con lui un solo spirito. State lontani dall’impurità! Qualsiasi peccato l’uomo commetta, è fuori dal suo corpo; ma chi si dà all’impurità, pecca contro il proprio corpo. Non sapete che il vostro corpo è il tempio dello Spirito Santo, che è in voi? Lo avete ricevuto da Dio e voi non appartenete a voi stessi. Infatti siete stati comprati a caro prezzo: glorificate dunque Dio nel vostro corpo!” (1 Corinti 6.15-20).

Da queste importanti parole rileviamo allora che il nostro essere fisico non ci appartiene esclusivamente come un tempo, quando facevamo di lui quello che volevamo, ma è destinato al pari dell’anima alla resurrezione, per cui Dio ha riscattato l’una e l’altro. Peccare “fuori dal corpo” succede tutti i giorni, ma “contro il proprio corpo” richiede una volontà precisa e crea una situazione che coinvolge profondamente in negativo l’anima, la psiche della persona, creando così una grave dicotomia fra l’essere di Cristo e di un individuo che non è quello con cui si è creato un rapporto duraturo di fedeltà attraverso il matrimonio.

Che il celibato, al pari del matrimonio, sia una libera scelta lo troviamo sempre nella stessa lettera ai Corinti quando leggiamo “Vorrei che tutti fossero come me – cioè celibe –; ma ciascuno riceve il proprio dono, chi in un modo, chi in un altro” (7.7).

Questo verso trova due motivazioni essenziali la prima delle quali è in vista nelle persecuzioni alle quali erano già sottoposte i primi cristiani che erano sentite in maniera più grave e angosciosa in quelli che avevano famiglia; la seconda, di ordine pratico-spirituale, è che il celibe sarebbe stato più propenso, in quanto libero da vincoli sentimentali e fisici, a dedicarsi interamente al Servizio. Infatti: “Penso che sia bene per l’uomo, a causa delle presenti difficoltà – quelle di cui è stata fatta menzione poc’anzi –, rimanere com’è. Ti trovi legato a una donna? Non cercare di scioglierti. Sei libero da donna? Non andare a cercarla. Però se ti sposi non fai peccato; e se la giovane prende marito, non fa peccato. Tuttavia costoro avranno tribolazioni nella propria vita – altri traducono “carne”ed io vorrei risparmiarvele” (7.26-28).

La seconda motivazione a favore del celibato, sempre nello stesso capitolo, la rileviamo in queste parole: “io vorrei che foste senza preoccupazioni: chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore; chi è sposato invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie, e si trova diviso! Così la donna non sposata, come la vergine, si preoccupa delle cose del Signore, per essere santa nel corpo e nello spirito; la donna sposata si preoccupa invece delle cose del mondo, come possa piacere al marito. Questo io lo dico per il vostro bene: non per gettarvi un laccio, ma perché vi comportiate degnamente e restiate fedeli al Signore, senza deviazioni” (7.32-35).

Prestiamo bene attenzione: qui l’apostolo parla di persone a parità di intenzioni di servire il Signore dando se stessi completamente ed è chiaro che l’essere senza un compagno/a non comporta l’osservanza di varie incombenze cui sono sottoposti coloro che l’hanno. “Come piacere alla moglie” (o al marito) non è un riferimento alla vanità del vestire o al truccarsi, ma a quell’accomodarsi l’uno all’altro che in alcuni casi può andare a ridurre la disponibilità per l’altrui. È chiaro dal contesto che la preferenza per il celibato è teorica, perché altrimenti il ministero sarebbe stato non consentito agli sposati.

Nota conclusiva al riguardo è “Chi può capire, capisca”, originale “ricevere”, che altre versioni hanno “Chi è capace di queste cose, lo sia”. Entrambe le versioni mettono in condizione gli uditori di riconoscersi o meno in quelle parole e mettere in pratica. È un invito a porsi, come sempre di fronte alla Parola ed esaminare se stessi per scegliere la condizione in cui vivere: tanto il matrimonio che il celibato non sono imponibili, come da 1 Timoteo 4.3: “…a causa dell’ipocrisia di impostori, già bollati a fuoco nella loro coscienza: gente che vieta il matrimonio e impone di astenersi da alcuni cibi che Dio ha creato perché i fedeli, e quanti conoscono la verità, li mangino rendendo grazie. Infatti ogni creazione di dio è buona e nulla va rifiutato, se lo si prende con animo grato, perché esso viene reso santo dalla parola di Dio e dalla preghiera”.

Parlando delle donne giovani che hanno perso il marito, poi, in 5.14, “Desidero quindi che le più giovani si risposino, abbiano figli, governino la loro casa, per non dare ai vostri avversari alcun motivo di biasimo”.

Matrimonio e celibato, quindi, sono condizioni di vita che vanno praticate con intelligenza e da persone che, se non mature, abbiano almeno chiaro il loro progetto di vita.

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