15.17 – Il giovane ricco (Marco 10.17-22)
17Mentre andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?». 18Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. 19Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre». 20Egli allora gli disse: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». 21Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!». 22Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni.
Narrato da tutti i sinottici, è un episodio noto come quello del “giovane ricco” anche se sulla sua identità gli evangelisti danno un quadro interessante: Marco lo descrive come “un tale” che “possedeva molti beni” o “molte ricchezze” secondo Matteo; Luca invece ci parla di “un notabile”, traduzione dal greco “tis árchon”, letteralmente “un certo dei rettori”, termine che ci autorizza a pensare che sia stato un alto membro del Sinedrio, un magistrato, comunque una persona importante per rango e posizione sociale o anche il rettore di una Sinagoga.
Si tratta comunque di un dialogo dal significato chiaro ed immediato, citato diverse volte in riflessioni precedenti in cui si è cercato di sviluppare il significato della ricchezza secondo Dio, per cui non è tanto su una ripetizione di concetti che baseremo il nostro percorso, quanto su un indagine sulle motivazioni interiori del personaggio e sull’atteggiamento di nostro Signore nei suoi confronti.
Il tutto si svolse “per la strada” perché Gesù, terminato il suo insegnamento sul matrimonio ed avere accolto i bambini, intendeva raggiungere Gerico; la traduzione esatta, invece che “per la strada” sarebbe “E, come egli – Gesù – usciva fuori”, probabilmente dal paese, sulla via principale in cui si svolsero gli episodi ricordati, per cui l’accento che qui viene posto è sul fatto che quell’uomo attese l’ultimo momento per parlare con Lui.
Dopo questa breve introduzione, passiamo ad esaminare la psicologia del personaggio: era “giovane” (Matteo 19.20) rispetto a quelli che avevano la sua carica e, a differenza degli altri e dalla maggioranza dei suoi coetanei, si poneva dei problemi importanti sul suo destino spirituale. Certo la definizione di “giovane” lascia perplessi perché non abbiamo elementi per definirne l’età, ma credo si possa presumere che fosse sotto i cinquant’anni, l’età pensionabile per lo meno per i sacerdoti. Era profondamente religioso, viveva senza dissipare le sue sostanze né soprattutto si sentiva soddisfatto della reputazione che aveva presso i suoi conterranei, anzi la sacrifica “gettandosi in ginocchio davanti a lui” sulla pubblica via non per adorarlo, ma in segno di profonda deferenza chiamandolo “maestro” e aggiungendo “buono”, aggettivo che non veniva dato neppure ai rabbini più autorevoli. Per questo gli verrà chiesto “Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo”, cioè gli viene data l’opportunità di esprimere una precisazione in merito, essendo Gesù Colui di fronte al quale ogni ginocchio, volente o nolente, dovrà piegarsi.
Inoltre il fatto che ciò sia avvenuto mentre il Maestro stava andando via e che “gli corse incontro” ci lascia pensare che, fino a quando rimase nel villaggio, non aveva fatto altro che aspettare il momento opportuno per chiedergli la risposta al problema che lo assillava. In alternativa, possiamo anche pensare che aspettò l’ultimo momento in preda all’indecisione se interpellarLo o meno e che, quando Lo vide andar via, capì che non poteva attendere oltre. In ogni caso, tutto il suo comportamento ci parla dell’urgenza e del peso che aveva per lui il conseguimento della vita eterna che non era sicuro di avere. Dobbiamo pensare che di Gesù quell’uomo, per la carica che aveva, aveva già sentito parlare e sapeva che era un profeta, altrimenti non gli si sarebbe inginocchiato davanti. Gli si presenta con tutto il suo bagaglio storico-culturale, la sua storia, il suo sapere e i suoi dubbi; in poche parole, Gli parla senza tendere trappole teologiche e tutto il suo atteggiamento, come anche le sue parole, denotano una persona profondamente assetata di sapere. Questa persona, allora, è figura di tutti coloro che sono alla ricerca di Dio per risolvere il problema della loro esistenza eterna e incontrano Gesù attraverso il Vangelo. Si sentono insoddisfatti, mancanti di qualcosa magari anche se la loro vita procede tranquillamente, con pochi problemi.
Proseguiamo la lettura: alla domanda sul perché dell’aggettivo “buono” non seguì alcuna risposta: per quella persona Gesù era tale perché sapeva molto più degli altri e per questo la sua dottrina era degna di attenzione, ma in lui, in fondo al cuore, magari in un angolo che neppure sapeva di avere, veniva a mancare quell’interesse autentico e il riconoscimento che porta alla resa. Ecco allora che, se da una parte abbiamo una persona cui evidentemente la Legge non bastava per sentirsi appagato, dall’altra non aveva analizzato approfonditamente il problema e la persona di Gesù nonostante il suo prostrarglisi davanti.
A questo punto, per provare quel notabile, ma ancor più per mettere in condizione i presenti di capire ciò che dirà dopo, Gesù si rifà al contenuto della seconda pietra riportante il Decalogo e appositamente nomina i comandamenti relativi ai rapporti tra l’uomo e il suo prossimo dimostrando così la continuità che intercorre con i primi, quelli verso Dio stesso. In altri termini solo amando il Signore sarebbe stato possibile vedere nell’altro il proprio fratello e quindi diventare incapaci di nuocergli attraverso l’omicidio, l’adulterio, il furto, la falsa testimonianza, la truffa e il non onorare il padre e la madre. Se amiamo Dio, non amiamo noi stessi e viceversa. Il decalogo infatti, con la sua divisione in quelli verso YHWH e verso l’uomo, è un continuo orientamento verso il dare ai due poli dell’esistere, il Creatore e la creatura, o meglio il fratello; essendo l’antitesi all’egoismo e alla carne, è difficile da osservare interamente perché il suo contrario è ciò a cui tende un essere privo della Sua guida amorevole.
Ora, a sentire “tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza” (Matteo aggiunge “Che altro mi manca?”) Gesù compie la sua prima azione, fissa lo sguardo su di lui. Il “fissare lo sguardo” di Gesù lo vede impegnato ad esaminare ciò che dimorava nel cuore del suo interrogante e, pur conoscendo i limiti che emergeranno dopo, lo vide sincero, riconobbe in lui una persona che andava oltre al dare le decime, all’assolvere alla legge cerimoniale per sentirsi a posto con se stesso, al non essere legato alla formalità quale strumento di cauterizzazione della coscienza.
Quella persona, infatti, si dichiara insoddisfatta della risposta di Gesù e chiedendo “Che altro mi manca ancora?” è come se avesse aggiunto “eppure tutto questo non mi basta”. Molti commentatori insistono sull’ipocrisia di questo personaggio, ma non credo, per lo meno non qui: il “giovane ricco” non sa ancora di essere la persona limitata di cui darà prova di lì a poco, crede davvero in quello che dice perché è ciò che sente, non è un frivolo perché altrimenti Gesù non lo avrebbe “amato”.
Proprio questa scansione della personalità provocò la risposta: “Una sola cosa ti manca” (Marco e Luca), “Se vuoi essere perfetto” (Matteo), quindi il percorso spirituale di quell’uomo era stato fin lì approvato e la parte mancante per la perfezione, tanto cercata a parole, era finalmente a portata di mano: con le varianti minime che ho riportato, la risposta è una sola, “Va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo, poi vieni e, presa la tua croce – testo che in alcune versioni manca – seguimi!”.
La reazione di quell’uomo è nota, cioè se ne andò rattristato, senza dire nulla (il farsi “scuro in volto” è un’aggiunta). È singolare che tutti i sinottici specifichino lo stato d’animo del giovane che non se ne andò contrariato, offeso o indifferente, ma sconfitto da se stesso perché Gesù gli aveva indicato ciò che lo limitava, l’unico antidoto all’insoddisfazione che provava espressa dalla frase “Che altro mi manca?”.
A questo punto, evitando le solite considerazioni sulla ricchezza e su ciò che comporta, credo sia importante sottolineare che Gesù, anche se non potrebbe essere altrimenti, ancora una volta in quanto Parola di Dio si dimostra “efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore” (Ebrei 4.12): nel caso di questa persona, fu proprio il raggiungere “il punto di divisione dell’anima e dello spirito”, cioè il confine tra ciò che è il nostro carattere e il motore invisibile che ci spinge ad essere ciò che siamo, a causare la tristezza di questa persona che, venuto a sapere ciò che le mancava per “essere perfetto”, posto di fronte alla perdita dei suoi averi, preferì ritrarsi rinunciando a fare i conti con se stesso da quel momento in avanti. La “spada a doppio taglio”, che “scruta i sentimenti e i pensieri del cuore”, cioè che li fa emergere, aveva svolto il suo compito e dal testo rileviamo che Gesù offrì solo un percorso, non respinse quella persona che si escluse da sé dal piano di Dio preparato per lui.
Da notare che nell’episodio fin qui esaminato può sfuggire un particolare molto significativo e cioè che nostro Signore, in tutti i tre testi che abbiamo, si preoccupa di specificare al suo anonimo interlocutore che, all’abbandono dei suoi beni, avrebbe corrisposto il trovare “un tesoro in cielo”, luogo che purtroppo non poteva vedere, ma che gli veniva promesso da quel “maestro buono” da lui con tale riverenza interpellato. Gesù, all’abbandono dei beni terreni, si faceva garante di qualcosa di immensamente più grande nel mondo a venire, offrendo ancora di più rispetto alla “vita eterna” così apparentemente cercata. Solo nel momento in cui al tesoro sulla terra fu contrapposto il “tesoro in cielo” quell’uomo scoprì di non essere più interessato e che l’insoddisfazione che si portava dentro, di fronte alla perdita delle sue ricchezze, poteva benissimo starci.
Mi sono chiesto quale può essere l’insegnamento di questo episodio per i credenti di questo tempo, per i ricchi di oggi che, anche se dessero tutto ciò che possiedono ai poveri, non avrebbero certo la possibilità di essere discepoli di Cristo senza una conversione profonda anteriore al loro gesto. È ancora una volta l’apostolo Paolo a intervenire al riguardo scrivendo a Timoteo nella sua prima lettera “A quelli che sono ricchi in questo mondo ordina di non essere orgogliosi, di non porre la speranza nell’instabilità delle ricchezze – come in fondo era per il personaggio esaminato –, ma in Dio, che tutto ci dà con abbondanza perché possiamo goderne. Facciano del bene, si arricchiscano di buone opere, siano pronti a dare e a condividere: così metteranno da parte un buon capitale per il futuro, per acquistarsi la vita vera” (6.17,18).
Rimanendo nel tema di chi è ricco, vediamo che quanto chiesto al nostro personaggio era un qualcosa di dispensazionale nel senso che era legato al fatto che Gesù era presente e gli offriva un posto all’interno della comunità dei discepoli. Proporzionalmente non è così dissimile da quanto prospetta l’apostolo Paolo perché abbiamo l’abbandono dell’orgoglio, il passaggio delle ricchezze in secondo piano, la prontezza al dare e alla condivisione, cosa molto rara se una persona ha posto se stesso al centro del proprio mondo e in cui è ricco a prescindere da ciò che ha realmente. Amen.
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