15.13 – MATRIMONIO E DIVORZIO I/III (Matteo 19.3-9)

15.13 – Matrimonio e divorzio I/III (Matteo 19.3-9)

 

3Allora gli si avvicinarono alcuni farisei per metterlo alla prova e gli chiesero: «È lecito a un uomo ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo?». 4Egli rispose: «Non avete letto che il Creatore da principio li fece maschio e femmina 5e disse: Per questo l’uomo lascerà il padre e la madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola carne? 6Così non sono più due, ma una sola carne. Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto». 7Gli domandarono: «Perché allora Mosè ha ordinato di darle l’atto di ripudio e di ripudiarla?». 8Rispose loro: «Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli; all’inizio però non fu così. 9Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso di unione illegittima, e ne sposa un’altra, commette adulterio».

 

Dopo aver sostato per un certo tempo sul Vangelo di Luca, occorre affrontare un tema che, dal racconto degli altri sinottici, sappiamo fu affrontato da Gesù in quello stesso giorno, ma prima della presentazione dei bambini. Per quanto al tema del matrimonio e del divorzio siano stati dedicati diversi capitoli a commento di Matteo 5.31-32, torniamo sull’argomento data la sua vastità e il fatto che Gesù stesso ricorda il tema anche se dietro domanda di “alcuni farisei per metterlo alla prova”.

Prima considerazione va fatta richiamando le differenze tra il sermone sul monte e questo episodio:  allora Gesù, ammaestrando la folla, fece un discorso a 360 gradi fra i molti princìpi dati per scontati dal popolo e i suoi capi e la Verità secondo Dio: in quell’episodio, infatti, contiamo complessivamente dodici “ma”, due “eppure”, sette “invece” e quattordici “Io vi dico” per un totale di 35 (5×7) nuovi enunciati. Nel sermone sul monte, poi, l’insegnamento sul matrimonio fu libero, nel senso che fu Gesù a parlare in base a ciò che la folla aveva bisogno di ascoltare, mentre in questo episodio abbiamo una risposta a una questione posta con un fine preciso, quello di “metterlo alla prova”, o “tentarlo” come altri traducono.

In pratica i farisei volevano costringere Gesù a dichiarare valida una delle teorie delle due scuole rabbiniche più autorevoli del tempo, quella di Shammai e di Hillel che, ricordiamo, davano interpretazioni opposte a Deuteronomio 24.1 che recita: “Quando un uomo ha preso una donna e ha vissuto con lei da marito, se poi avviene che ella non trovi grazia ai suoi occhi, perché egli ha trovato in lei qualche cosa di vergognoso, scriva per lei un libello di ripudio e glielo consegni in mano e la mandi via dalla casa”.

La scuola di Shammai, per “qualche cosa di vergognoso”, sosteneva che altro non poteva essere se non l’adulterio, cioè la contaminazione del corpo della donna (o dell’uomo) tramite un rapporto sessuale con persona diversa dal proprio marito; per l’altra scuola, invece, il “vergognoso” poteva avere più significati in quanto il testo della Torah non specificava di cosa effettivamente si trattasse. Allora, come ricordato quando trattammo l’argomento in Matteo 5, l’interpretazione di quel passo era in senso molto più largo, riferito a qualunque cosa fosse sconveniente nella vita familiare o civile: una minestra bruciata, un brutto carattere o addirittura, come sosteneva Rabbi Aqiba, il disagio provato dal marito di una moglie meno bella di un’altra donna.

Ora che questi farisei appartenessero a una scuola piuttosto che all’altra, non rileva perché comunque, se Gesù avesse dato ragione a una delle due, avrebbero potuto accusarlo di faziosità, di rigidità o tolleranza, schierandosi immediatamente dalla parte della scuola ritenuta in torto. L’ignoranza da sempre è astuta, mai intelligente.

A questo punto vediamo che Gesù si esenta dal giudicare il risultato delle riflessioni dei vari maestri, ma fa l’unica cosa possibile e cioè va alle origini, dove tutto cominciò e si svolgeva nella perfetta dispensazione dell’innocenza nella quale vivevano i nostri progenitori, citando Genesi 1.27 in cui leggiamo “E Iddio fece l’uomo a sua immagine – spirituale –; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò.”, verso che riassume tutte le fasi della sua creazione, Adamo prima, poi Eva, tratta da lui.

 

Ecco, già qui c’è  molto da ragionare perché quel “li” allude all’essere umano integro, vale a dire che se prima c’era Adamo da solo e poteva definirsi “uomo”, “ish”, lo stesso avvenne poi, con la donna, “isha” non creata dalla polvere della terra, ma formata: “Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e rinchiuse la carne al suo posto” (Genesi 2.21). Quella fatta sull’uomo fu la prima operazione chirurgica della storia in cui Dio fu anche l’anestesista e il rianimatore. Da allora i termini “uomo” e “donna”, che per noi sono due parole diverse ma come abbiamo visto in ebraico hanno la stessa radice, furono comunque riuniti sotto il primo, “a immagine di Dio lo creò”, cioè senza nulla di diverso a parte il sesso e il differente criterio di formazione. Tutte le altre caratterizzazioni, le divisioni, il reciproco fidarsi o meno, il voler dominare e interferire l’uno sull’altro spesso senza capirsi, avverranno dopo, come conseguenza dell’aver trasgredito all’unico comandamento ricevuto.

A parte le infinite considerazioni fattibili che rendono molto arduo uno studio sul tema, le scuole rabbiniche riguardo al matrimonio usano il termine “qiddushìm”, cioè “consacrazione”, plurale di “qiddùsh” che indica alcuni riti come ad esempio il lavaggio di mani e piedi richiesto ai sacerdoti prima di fare servizio nel luogo Santo, o la consacrazione del sabato. Già quindi la consacrazione è qualcosa che dura per sempre, un patto fra l’uomo e il Creatore, quindi che non coinvolge soltanto i due esseri umani che si donano vicendevolmente.

Così comprendiamo proverbi 30.18-20, “Tre cose mi sono difficili, anzi quattro, he io non comprendo: il sentiero dell’aquila nell’aria, il sentiero del serpente sulla roccia, il sentiero della nave in alto mare, il sentiero dell’uomo in una giovane”.

“Qiddushìm”, plurale di “qiddùsh”, è usato solo per  indicare il matrimonio che, negli scritti cosiddetti veterotestamentari, si suole definire anche con l’espressione giuridica “essere di”. Quindi, parlando di tradizione e di testo, se Gesù si rifà al verso di Genesi, altrettanto fecero gli antichi rabbini prima che si analizzasse il problema del divorzio.

 

Ancora, Gesù prosegue nella citazione di Genesi e attribuisce a Dio, e non ad Adamo come alcuni intendono, le parole “Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una stessa carne”. Anche qui si dovrebbe aprire un capitolo enorme, perché la Bibbia non ci dà delle indicazioni su come si concreta il matrimonio se non che questo si ufficializza una volta per tutte con la penetrazione, unico modo per diventare “una sola carne”.

Il problema però, guardando come questo si dipana nel Pentateuco o Torà, è che ci fu una evoluzione riguardo al modo di gestirlo, come si può riassumere con le parole di Maimonide, vissuto nel 1100 d.C.: “Prima che venisse data la Torà un uomo incontrava una donna per strada e, se lui e lei – attenzione – erano d’accordo che lui la prendesse, la portava a casa da lui e si univa a lei riservatamente e lei diveniva sua moglie. Quando fu data la Torà al popolo d’Israele fu ordinato che un uomo che volesse sposare una donna dovesse prima acquistarla davanti a testimoni, e dopo diventasse sua moglie”.

Scorrendo il libro della Genesi, anche nella dispensazione della coscienza, vediamo che inizia a diffondersi l’usanza di intendere il matrimonio come un atto formale sancito da un acquisto, cioè l’uomo pagava una famiglia per avere da questi una donna. Tracce di questa usanza sono molte, come quella di Genesi 34.12 nell’episodio di Dina e Sichem, quando leggiamo “Alzate pure molto a mio carico il prezzo nuziale e il valore del dono; vi darò quanto mi chiederete, ma concedetemi la giovane in moglie”. Chi conosce l’episodio sa che, a monte, vi è una violenza carnale, ma la frase citata rimane come testimonianza dell’uso di quel tempo (v.2).

Da qui iniziò a diffondersi il termine “prendere una donna”, tradotto in alcune versioni come “sposare” per brevità, ma non correttamente. Tra l’altro il testo di Deuteronomio 22.13 potrebbe aiutare a individuare il “qualcosa di vergognoso” su cui si interrogavano le due scuole citate all’inizio su 24.1, dove anche lì il “prendere” ha lo stesso significato: “Se un uomo prende una donna e, dopo essersi unito a lei, la prende in odio, le attribuisce azioni scandalose e diffonde sul suo conto una fama cattiva, dicendo: «Ho preso questa donna, ma quando mi sono accostato a lei non l’ho trovata in stato di verginità…».

 

Occorre però una precisazione fondamentale, perché vero è che il matrimonio era un contratto, che spesso erano le famiglie a organizzarlo, quanto dichiarano i rabbini moderni su questa antica usanza distrugge un’opinione diffusa, della quale mi sono appropriato per lungo tempo, che vede il tutto organizzato a prescindere dal fatto che i due futuri sposi fossero o meno d’accordo. Se le scuole di Hillel e Shammai dibattevano anche sull’importo della somma da versare quando l’uomo “acquistava” una donna dalla sua famiglia, perché l’atto matrimoniale fosse valido non era sufficiente il semplice versamento della somma, ma era necessario – attenzione – il pieno consenso degli sposi. Il carattere di acquisto era necessario perché senza di esso il matrimonio non poteva avere una struttura giuridica, ma la base era che fra il futuro marito e la futura moglie ci fosse consenso, progettualità comune, armonia e volontà di crescita spirituale.

Ma c’è molto di più perché l’insegnamento dei maestri al riguardo sosteneva che il matrimonio può essere descritto come una associazione fondata su un interesse reciproco. Maimonide, chiaramente venuto dopo il tempo in cui Gesù parlò ai farisei, vede questa istituzione come un’unione allo scopo di condividere problemi, piaceri, dispiaceri e gioie perché quando vengono condivise le gioie si moltiplicano e i dolori si dimezzano. Poi, il matrimonio è visto come la ricerca di ideali per i quali i coniugi sono disposti a sacrificarsi e solo quando c’è questa intesa è possibile creare una famiglia. Ci vuole poco a dedurre che, mancando questi presupposti, un matrimonio non ha ragione di essere ed è destinato alla rovina esattamente come “la casa costruita sulla sabbia” o il “regno diviso in parti contrarie”.

Di questo non troviamo traccia esplicita nella Bibbia, ma il fatto che gli ebrei, ai quali credo competa l’ultima parola in quanto detentori di un Libro che fu loro “dato” ed è studiato da millenni, si esprimano così su questo tema non può lasciare indifferenti. Allora, partendo da questo punto di armonia e condivisione necessaria, capiamo meglio perché, idealmente, dovesse essere e fosse un vincolo sacro.

Una triste nota a margine è che, purtroppo, mentre nel campo scientifico esistono testi che ribadiscono un concetto che è “quello”, studiare la Scrittura proficuamente non è facile nel senso che tutto va bene se un argomento viene affrontato su un solo testo, ma nel momento in cui lo si “parallelizza” si incontrano contraddizioni o variazioni sul tema a volte incompatibili tra loro. E questo affatica e snerva al tempo stesso chi studia e vorrebbe scavare con strumenti idonei e non con piccozze spuntate, per altro non da lui. Sapere per bocca di un rabbino che il matrimonio per procura indipendentemente dalla volontà degli sposi in Israele non era cosa praticata, mi ha costretto ad aggiornare molti dei dati che avevo costruito sul tema, sbagliando, per quanto in modo marginale. Il problema è che però, come credenti, non possiamo avere le idee vaghe, ma devono essere il più possibile nitide.

Riporto un passo tratto da un breve trattato al riguardo: “Formare una coppia ben assortita è difficile come aprire le acque del Mar Rosso e richiede l’infinita saggezza di Dio stesso. Per questo motivo, benché da un certo punto di vista il matrimonio sia predeterminato, l’individuo deve scegliere saggiamente. Il matrimonio non dovrebbe essere contratto per denaro, ma un uomo dovrebbe scegliere una moglie che sia di temperamento mite ed abbia tatto, che sia modesta ed industriosa e che risponda ad altri requisiti: di rispettabilità della famiglia, di età e stato sociale simili, di bellezza e di scolarità del padre”.

 

Tornando al tema e nella storia descritta dal Pentateuco, partiamo da un “principio” in cui l’essere “una sola carne” doveva durare per tutta la vita, ma poi troviamo bigamia, concubinato e infine il divorzio causato da “qualcosa di vergognoso” interpretato come sappiamo: perché? La risposta la dà Gesù: “Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, all’inizio però non fu così”.

Certo Mosè ha “permesso”, per ordine e per parola di Dio, non certo autonomamente, ma ciò non toglie che sia necessaria una importante domanda perché esiste apparentemente una contraddizione fra quanto ordinato alla creazione e quanto letto qui sul divorzio, ma non è così o, meglio, così sembrerebbe se si prendono le dichiarazioni di Dio come qualcosa di granitico, impossibile a non subire variazioni quando è Lui, a differenza di noi, perfetto proprietario di se stesso, ad emanare, dichiarare norme che, in quanto nuove, sostituiscono o modificano più o meno leggermente quelle precedenti.

 

“Per la durezza dei vostri cuori” dove il cuore è la sede dell’anima e quindi della capacità o incapacità di fare una cosa. Il divorzio è parte della Legge, la stessa che sancisce la fedeltà fra uomo e donna e dà la morte in caso di adulterio ma permette che, in caso di convivenza impossibile, sia consentito redigere un documento che dia la possibilità alle due parti di interrompere legittimamente il rapporto e di crearne uno nuovo. Credo che senza il divorzio gli adultérii si sarebbero moltiplicati e diffusi e che la Legge, senza il divorzio “per la durezza dei vostri cuori”, non avrebbe potuto essere definita con le parole di Deuteronomio 30.11-14, “Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te, né troppo lontano da te. Non è nel cielo, perché tu dica: «Chi salirò per noi in cielo, per prendercelo e farcelo udire e lo possiamo eseguire?». Non è al di là dal mare, perché tu dica: «Chi attraverserà per noi il mare per prendercelo e farcelo udire e lo possiamo eseguire?», Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica”.

Ricordiamo le parole precedenti: “Le cose occulte appartengono al Signore, nostro Dio, ma le cose rivelate sono per noi e per i nostri figli, per sempre, affinché pratichiamo tutte le parole di questa legge” (39.28).

 

E in tutto questo trattare il divorzio, arriviamo al punto finale, “Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso di unione illegittima – altri traducono più propriamente “fornicazione” – e ne sposa un’altra, commette adulterio” (v. 9). Fu sempre così? Certamente no. Fu così da quando Gesù parlò in quel modo? Certamente sì, perché è Lui la Parola e dichiara se stesso alla luce della dispensazione della Grazia, sul cui inizio ufficiale potremmo stare a discutere per mesi: quando nacque, quando iniziò a predicare? Quando morì? Quando risorse, ascese al cielo, o quando lo Spirito Santo fu sui centoventi?

Il “documento di divorzio”, poi, come ha scritto un fratello, “era inteso a proteggere la donna innocente contro il capriccio o la licenza di un cattivo marito, poiché quella scritta non era un’accusa di infedeltà, ma piuttosto un certificato di innocenza, come risulta dal fatto che tale scritta si consegnava alla moglie medesima, mentre la legge prescriveva che l’adultera fosse messa a morte”.

 

Siamo così giunti alla fine di questa prima parte in cui abbiamo tratteggiato in una linea lieve, con tutti i limiti dello spazio a disposizione, il matrimonio e il divorzio dai testi antichi che abbiamo, per capire perché Gesù abbia risposto così ai farisei che lo interrogavano. Al prossimo capitolo la responsabilità di commentarle. Amen.

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