15.17 – IL GIOVANE RICCO (Marco 10.17-22)

15.17 – Il giovane ricco (Marco 10.17-22)

 

17Mentre andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?». 18Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. 19Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre». 20Egli allora gli disse: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». 21Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!». 22Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni.

 

Narrato da tutti i sinottici, è un episodio noto come quello del “giovane ricco” anche se sulla sua identità gli evangelisti danno un quadro interessante: Marco lo descrive come “un tale” che “possedeva molti beni” o “molte ricchezze” secondo Matteo; Luca invece ci parla di “un notabile”, traduzione dal greco “tis árchon”, letteralmente “un certo dei rettori”, termine che ci autorizza a pensare che sia stato un alto membro del Sinedrio, un magistrato, comunque una persona importante per rango e posizione sociale o anche il rettore di una Sinagoga.

Si tratta comunque di un dialogo dal significato chiaro ed immediato, citato diverse volte in riflessioni precedenti in cui si è cercato di sviluppare il significato della ricchezza secondo Dio, per cui non è tanto su una ripetizione di concetti che baseremo il nostro percorso, quanto su un indagine sulle motivazioni interiori del personaggio e sull’atteggiamento di nostro Signore nei suoi confronti.

Il tutto si svolse “per la strada” perché Gesù, terminato il suo insegnamento sul matrimonio ed avere accolto i bambini, intendeva raggiungere Gerico; la traduzione esatta, invece che “per la strada” sarebbe “E, come egli – Gesù – usciva fuori”, probabilmente dal paese, sulla via principale in cui si svolsero gli episodi ricordati, per cui l’accento che qui viene posto è sul fatto che quell’uomo attese l’ultimo momento per parlare con Lui.

Dopo questa breve introduzione, passiamo ad esaminare la psicologia del personaggio: era “giovane”  (Matteo 19.20) rispetto a quelli che avevano la sua carica e, a differenza degli altri e dalla maggioranza dei suoi coetanei, si poneva dei problemi importanti sul suo destino spirituale. Certo la definizione di “giovane” lascia perplessi perché non abbiamo elementi per definirne l’età, ma credo si possa presumere che fosse sotto i cinquant’anni, l’età pensionabile per lo meno per i sacerdoti. Era profondamente religioso, viveva senza dissipare le sue sostanze né soprattutto si sentiva soddisfatto della reputazione che aveva presso i suoi conterranei, anzi la sacrifica “gettandosi in ginocchio davanti a lui” sulla pubblica via non per adorarlo, ma in segno di profonda deferenza chiamandolo “maestro” e aggiungendo “buono”, aggettivo che non veniva dato neppure ai rabbini più autorevoli. Per questo gli verrà chiesto “Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo”, cioè gli viene data l’opportunità di esprimere una precisazione in merito, essendo Gesù Colui di fronte al quale ogni ginocchio, volente o nolente, dovrà piegarsi.

Inoltre il fatto che ciò sia avvenuto mentre il Maestro stava andando via e che “gli corse incontro” ci lascia pensare che, fino a quando rimase nel villaggio, non aveva fatto altro che aspettare il momento opportuno per chiedergli la risposta al problema che lo assillava. In alternativa, possiamo anche pensare che aspettò l’ultimo momento in preda all’indecisione se interpellarLo o meno e che, quando Lo vide andar via, capì che non poteva attendere oltre. In ogni caso, tutto il suo comportamento ci parla dell’urgenza e del peso che aveva per lui il conseguimento della vita eterna che non era sicuro di avere. Dobbiamo pensare che di Gesù quell’uomo, per la carica che aveva, aveva già sentito parlare e sapeva che era un profeta, altrimenti non gli si sarebbe inginocchiato davanti. Gli si presenta con tutto il suo bagaglio storico-culturale, la sua storia, il suo sapere e i suoi dubbi; in poche parole, Gli parla senza tendere trappole teologiche e tutto il suo atteggiamento, come anche le sue parole, denotano una persona profondamente assetata di sapere. Questa persona, allora, è figura di tutti coloro che sono alla ricerca di Dio per risolvere il problema della loro esistenza eterna e incontrano Gesù attraverso il Vangelo. Si sentono insoddisfatti, mancanti di qualcosa magari anche se la loro vita procede tranquillamente, con pochi problemi.

Proseguiamo la lettura: alla domanda sul perché dell’aggettivo “buono” non seguì alcuna risposta: per quella persona Gesù era tale perché sapeva molto più degli altri e per questo la sua dottrina era degna di attenzione, ma in lui, in fondo al cuore, magari in un angolo che neppure sapeva di avere, veniva a mancare quell’interesse autentico e il riconoscimento che porta alla resa. Ecco allora che, se da una parte abbiamo una persona cui evidentemente la Legge non bastava per sentirsi appagato, dall’altra non aveva analizzato approfonditamente il problema e la persona di Gesù nonostante il suo prostrarglisi davanti.

A questo punto, per provare quel notabile, ma ancor più per mettere in condizione i presenti di capire ciò che dirà dopo, Gesù si rifà al contenuto della seconda pietra riportante il Decalogo e appositamente nomina i comandamenti relativi ai rapporti tra l’uomo e il suo prossimo dimostrando così la continuità che intercorre con i primi, quelli verso Dio stesso. In altri termini solo amando il Signore sarebbe stato possibile vedere nell’altro il proprio fratello e quindi diventare incapaci di nuocergli attraverso l’omicidio, l’adulterio, il furto, la falsa testimonianza, la truffa e il non onorare il padre e la madre. Se amiamo Dio, non amiamo noi stessi e viceversa. Il decalogo infatti, con la sua divisione in quelli verso YHWH e verso l’uomo, è un continuo orientamento verso il dare ai due poli dell’esistere, il Creatore e la creatura, o meglio il fratello; essendo l’antitesi all’egoismo e alla carne, è difficile da osservare interamente perché il suo contrario è ciò a cui tende un essere privo della Sua guida amorevole.

Ora, a sentire “tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza” (Matteo aggiunge “Che altro mi manca?”) Gesù compie la sua prima azione, fissa lo sguardo su di lui. Il “fissare lo sguardo” di Gesù lo vede impegnato ad esaminare ciò che dimorava nel cuore del suo interrogante e, pur conoscendo i limiti che emergeranno dopo, lo vide sincero, riconobbe in lui una persona che andava oltre al dare le decime, all’assolvere alla legge cerimoniale per sentirsi a posto con se stesso, al non essere legato alla formalità quale strumento di cauterizzazione della coscienza.

Quella persona, infatti, si dichiara insoddisfatta della risposta di Gesù e chiedendo “Che altro mi manca ancora?” è come se avesse aggiunto “eppure tutto questo non mi basta”. Molti commentatori insistono sull’ipocrisia di questo personaggio, ma non credo, per lo meno non qui: il “giovane ricco” non sa ancora di essere la persona limitata di cui darà prova di lì a poco, crede davvero in quello che dice perché è ciò che sente, non è un frivolo perché altrimenti Gesù non lo avrebbe “amato”.

Proprio questa scansione della personalità provocò la risposta: “Una sola cosa ti manca” (Marco e Luca), “Se vuoi essere perfetto” (Matteo), quindi il percorso spirituale di quell’uomo era stato fin lì approvato e la parte mancante per la perfezione, tanto cercata a parole, era finalmente a portata di mano: con le varianti minime che ho riportato, la risposta è una sola, “Va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo, poi vieni e, presa la tua croce – testo che in alcune versioni manca –  seguimi!”.

La reazione di quell’uomo è nota, cioè se ne andò rattristato, senza dire nulla (il farsi “scuro in volto” è un’aggiunta). È singolare che tutti i sinottici specifichino lo stato d’animo del giovane che non se ne andò contrariato, offeso o indifferente, ma sconfitto da se stesso perché Gesù gli aveva indicato ciò che lo limitava, l’unico antidoto all’insoddisfazione che provava espressa dalla frase “Che altro mi manca?”.

A questo punto, evitando le solite considerazioni sulla ricchezza e su ciò che comporta, credo sia importante sottolineare che Gesù, anche se non potrebbe essere altrimenti, ancora una volta in quanto Parola di Dio si dimostra “efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore” (Ebrei 4.12): nel caso di questa persona, fu proprio il raggiungere “il punto di divisione dell’anima e dello spirito”, cioè il confine tra ciò che è il nostro carattere e il motore invisibile che ci spinge ad essere ciò che siamo, a causare la tristezza di questa persona che, venuto a sapere ciò che le mancava per “essere perfetto”, posto di fronte alla perdita dei suoi averi, preferì ritrarsi rinunciando a fare i conti con se stesso da quel momento in avanti. La “spada a doppio taglio”, che “scruta i sentimenti e i pensieri del cuore”, cioè che li fa emergere, aveva svolto il suo compito e dal testo rileviamo che Gesù offrì solo un percorso, non respinse quella persona che si escluse da sé dal piano di Dio preparato per lui.

Da notare che nell’episodio fin qui esaminato può sfuggire un particolare molto significativo e cioè che nostro Signore, in tutti i tre testi che abbiamo, si preoccupa di specificare al suo anonimo interlocutore che, all’abbandono dei suoi beni, avrebbe corrisposto il trovare “un tesoro in cielo”, luogo che purtroppo non poteva vedere, ma che gli veniva promesso da quel “maestro buono” da lui con tale riverenza interpellato. Gesù, all’abbandono dei beni terreni, si faceva garante di qualcosa di immensamente più grande nel mondo a venire, offrendo ancora di più rispetto alla “vita eterna” così apparentemente cercata. Solo nel momento in cui al tesoro sulla terra fu contrapposto il “tesoro in cielo” quell’uomo scoprì di non essere più interessato e che l’insoddisfazione che si portava dentro, di fronte alla perdita delle sue ricchezze, poteva benissimo starci.

 

Mi sono chiesto quale può essere l’insegnamento di questo episodio per i credenti di questo tempo, per i ricchi di oggi che, anche se dessero tutto ciò che possiedono ai poveri, non avrebbero certo la possibilità di essere discepoli di Cristo senza una conversione profonda anteriore al loro gesto. È ancora una volta l’apostolo Paolo a intervenire al riguardo scrivendo a Timoteo nella sua prima lettera “A quelli che sono ricchi in questo mondo ordina di non essere orgogliosi, di non porre la speranza nell’instabilità delle ricchezze – come in fondo era per il personaggio esaminato –, ma in Dio, che tutto ci dà con abbondanza perché possiamo goderne. Facciano del bene, si arricchiscano di buone opere, siano pronti a dare e a condividere: così metteranno da parte un buon capitale per il futuro, per acquistarsi la vita vera” (6.17,18).

Rimanendo nel tema di chi è ricco, vediamo che quanto chiesto al nostro personaggio era un qualcosa di dispensazionale nel senso che era legato al fatto che Gesù era presente e gli offriva un posto all’interno della comunità dei discepoli. Proporzionalmente non è così dissimile da quanto prospetta l’apostolo Paolo perché abbiamo l’abbandono dell’orgoglio, il passaggio delle ricchezze in secondo piano, la prontezza al dare e alla condivisione, cosa molto rara se una persona ha posto se stesso al centro del proprio mondo e in cui è ricco a prescindere da ciò che ha realmente. Amen.

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15.15 – MATRIMONIO E DIVORZIO III/III (Matteo 19.3-9)

15.15 – Matrimonio e divorzio III (Matteo 19.3-9)

 

3Allora gli si avvicinarono alcuni farisei per metterlo alla prova e gli chiesero: «È lecito a un uomo ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo?». 4Egli rispose: «Non avete letto che il Creatore da principio li fece maschio e femmina 5e disse: Per questo l’uomo lascerà il padre e la madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola carne? 6Così non sono più due, ma una sola carne. Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto». 7Gli domandarono: «Perché allora Mosè ha ordinato di darle l’atto di ripudio e di ripudiarla?». 8Rispose loro: «Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli; all’inizio però non fu così. 9Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso di unione illegittima, e ne sposa un’altra, commette adulterio».

 

Credo emerga, arrivati a questo punto dopo due capitoli, per quanto sintetici, sull’istituzione matrimoniale, che questa sia un contratto assimilabile, concettualmente, al battesimo che ogni credente sincero ha compiuto. Quest’ultimo infatti può considerarsi la firma che la persona appone ad un contratto di salvezza fra lui e Dio: sa ciò che riceve, sa che dovrà iniziare un cammino diverso da quello degli altri, perseguendo la santificazione. Sa che dovrà compiere tutta una serie di azioni, percorrere un’infinità di strade, che cadrà nel suo itinerario magari anche facendosi del male e che si dovrà rialzare, da solo o con l’aiuto di altri a seconda delle circostanze. Ma sa anche che affidarsi a Dio sarà l’unica opzione possibile per avere un futuro reale di vita nel regno promesso e che questa scelta non sarà un punto di arrivo, ma di partenza. Dovrà ascoltare lo Spirito Santo, impegnarsi per far fruttare il o i talenti ricevuti.

Non ho mai conosciuto una persona battezzatasi, parliamo ovviamente di adulti o individui in grado di capire le elementari differenze fra bene e male, tornare indietro salvo nel caso in cui non fosse pienamente consapevole a suo tempo delle sue azioni o abbia agito per imitazione altrui o per profonda immaturità, per un entusiasmo irresponsabilmente passeggero. Questo, per quanto in casi eccezionali, avviene per motivi profondamente umani che non credo mi competa giudicare, mentre è innegabile che, se solitamente si giunge al battesimo informati da chi o coloro che sono preposti a una Chiesa, purtroppo la stessa cosa non avviene col matrimonio e qui si apre indubbiamente una ferita dolorosa perché, a differenza del battesimo che è qualcosa di strettamente intimo e personale, per quanto effettuato in presenza di testimoni, il matrimonio è gestito anche al di fuori, nel mondo, che ha al riguardo ideali, metodi di vita diametralmente opposti. Spesso chi arriva a questo passo così importante, se credente e in particolare giovane, porta con sé ciò ha appreso guardando il comportamento dei suoi genitori al riguardo e non è detto che il modello a lui offerto sia qualcosa di sano.

Il matrimonio, col relativo cosiddetto “fidanzamento” che lo precede, è spesso il risultato di scelte inconsapevolmente affrettate, non sufficientemente ponderate, influenzate dal sentimentalismo o da un falso concetto di esso; in poche parole da molti, troppi elementi che non sono spirituali. E coloro che sono/sarebbero preposti al mantenimento e ristoro delle anime nella Chiesa spesso non fanno nulla per formare e informare le persone che si accostano a questa istituzione limitandosi a dire che, se c’è fede, il matrimonio è destinato a durare, che tutto andrà bene, che “i due saranno una sola carne”, commentando più o meno sommariamente alcuni versetti, parlando di una generica sottomissione della moglie al marito, insomma senza formare, istradare le persone ad un passo così fondamentale per la loro vita.

A volte, peggio, non si fa nulla per i futuri sposi che, se credenti, intraprendono un cammino senza avere altro motore se non un amore reciproco che, se non basato su una forte compatibilità di caratteri e vero, profondo interesse reciproco, è destinato a spegnersi naufragando nell’indifferenza lasciando nella solitudine entrambe le parti che poi vivono enormi, profondi drammi interiori, incapaci di comunicarli nel timore di gettare imbarazzo e sconforto negli altri nella Chiesa locale.

Credo che, per quanto non nominato, il matrimonio possa rientrare a pieno titolo nella parabola della costruzione della torre in Luca 14.28-30: “Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: «Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro»”. Qui Gesù parla di una “torre”, non di una “casa”, quindi di qualcosa che non è indispensabile per vivere e dimorarvi, ma va a completare una proprietà esattamente come il matrimonio può farlo nei confronti di una persona.

Ora abbiamo letto “non siede prima a calcolare la spesa e vedere se ha i mezzi per portarla a termine”, cioè un’attività che stupisce il lettore superficiale che si aspetterebbe di trovare la descrizione di un uomo che, dotato di sola fede, s’imbarca in un’attività di quel tipo e, pregando, alla fine riesce nell’impresa suscitando magari l’ammirazione di tutti. Ma questo corrisponde più a un pensiero pentecostale che alla dinamica del credere: la persona della parabola prima di prendere qualunque decisione “siede” – azione che presuppone futuri calcoli, esami, prospetti, fogli, annotazioni, quindi di un ragionamento severo e importante qual è la situazione che lo richiede – “per calcolare la spesa” – cioè valuterà punto per punto non solo se ha il denaro strettamente necessario, ma se è in grado di sostenere eventuali imprevisti – “e i mezzi per portarla a termine” – vale a dire le risorse umane e meccaniche per poterlo fare. Solo allora vi saranno garanzie perché la torre possa arrivare ad essere costruita e a rimanere stabile.

Gesù, con questa parabola, parla a tutti i presenti, “Chi di voi”, quindi a persone esperte, adulte, mature, in grado di capire perfettamente le sue parole. Chiaramente, non ho visto la stessa cosa nella Chiesa nel senso che non si esortano coloro che intendono unirsi in matrimonio a fare come quel costruttore e i cosiddetti “anziani”, o pastori, o sacerdoti, troppo spesso spingono ad unioni affrettate, “perché non c’è l’uomo senza la donna e la donna senza l’uomo”, senza mettere in guardia le anime che dovrebbero essere loro affidate dal pericolo di una scelta non ponderata. Infatti (Marco 3.24-26) “Se un regno è diviso in se stesso, non può reggersi; se una casa è divisa in se stessa, non può reggersi. Alla stessa maniera, se Satana si ribella contro se stesso ed è diviso, non può sussistere, ma sta per finire”.

Queste parole, date da Gesù in risposta a coloro che lo accusavano di scacciare i demoni usando il loro principe, contiene implicitamente una dichiarazione di fallimento per qualunque struttura umana che sia “divisa” cioè non solidale, unita dai medesimi obiettivi e progetti. E all’inizio di queste riflessioni avevamo già individuato come base del matrimonio la volontà di condividere reciprocamente la vita basata su intenti e caratteri comuni. Se la “sola carne”, che comunque comprende due persone, “si ribella contro se stessa ed è divisa, non può sussistere, ma sta per finire”. E tutto questo si verifica già in partenza. Ebbene, io credo che se il regno è diviso in se stesso e la casa altrettanto, lo è perché le persone non sono state adeguatamente preparate e non hanno tenuto conto del fatto che i caratteri e la stessa concezione della vita devono essere, se non identici, certamente molto, ma molto simili; ricordiamo che l’età del matrimonio era di 18 anni per i maschi e 16 per le femmine, per cui gli uni avevano cinque anni dopo il bar mitzwah, il conseguimento della maggiore età, e le altre tre anni per prepararsi a questo evento. Certo non studiavano tutto il giorno le dinamiche e le leggi sul matrimonio, ma quando lo contraevano erano preparati ad affrontarlo responsabilmente anche dal punto di vista “religioso”.

Prima di parlare di matrimonio cristiano, quindi, occorre parlare di preparazione ad esso che non può ridursi a un elenco asettico del tipo “questo lo puoi fare, questo non lo puoi fare”, o raccomandare la sottomissione della moglie al proprio marito intendendola quasi militarmente, ma si deve mettere le persone in grado di sedersi e fare i calcoli per vedere se sono o meno in grado di costruire per evitare poi il crollo di quanto da loro realizzato: allora – e solo allora – si potrà parlare di ciò che significa vivere cristianamente insieme e portare avanti i concetti dell’Antico e Nuovo Testamento finora citati. Viceversa, questi princìpi rimarranno norme di comportamento impossibili da realizzare. È come la fede, che non può essere cieca, ma deve porsi domande anche difficili. La fede non può basarsi su una serie di dogmi, ma deve essere illuminata, basata sull’essere, sull’esistere, sull’incontro con un Dio che non ama imporre, ma discutere, non essendo il padre dispotico che dice “Obbedisci e basta”. Un cammino di fede non è fatto di certezze incrollabili, ma di pesanti dubbi risolti, passo dopo passo, gradino dopo gradino.

 

Il matrimonio cristiano è figura del rapporto Cristo-Chiesa: “Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola per il lavacro dell’acqua della parola al fine di farla comparire davanti a sé gloriosa, senza macchia o altri simili difetti, ma santa e irreprensibile” (Efesi 5.25,26. Infatti “Nel timore di Cristo, siate sottomessi gli uni agli altri: le mogli lo siano ai loro mariti, come al Signore; il marito infatti è capo della moglie, così come Cristo è capo della Chiesa, lui che è salvatore del corpo. E come la Chiesa è sottomessa a Cristo, così anche le mogli lo siano ai loro mariti in tutto” (21-24), versi che trovano la loro conclusione al verso 33 che afferma “D’altronde, anche fra di voi, ciascuno individualmente ami la propria moglie come ama sé stesso, e altresì la moglie rispetti il marito”.

Se ci soffermiamo sulle parole “Cristo ha amato la Chiesa”, è ovvio che questa è formata da persone che lui ha scelto, e sappiamo che i nostri nomi scritti del libro della vita lo furono “prima della fondazione del mondo”. Quindi, come il salmista scrive, siamo stati oggetto di una cura del tutto particolare: “Signore, tu mi scruti e mi conosci; tu conosci quando mi siedo e quando mi alzo, intendi da lontano i miei pensieri, osservi il mio cammino e il mio riposo, ti sono note tutte le mie vie. La mia parola non è ancora sulla lingua ed ecco, Signore, già la conosci tutta. Alle spalle e di fronte mi circondi e poni su di me la tua mano” (Salmo 139).

Se ogni credente è stato scelto con l’infinita cura e sapienza di Dio, il matrimonio non è qualcosa che possa essere organizzato o posto in essere per procura o qualunque imposizione esattamente come non può essere imposto il credere in Cristo se non a causa di terribili inquinamenti e fraintendimenti. La Chiesa, quella dei salvati e non del cristianesimo nominale, è composta da persone che, pur non avendo alcun merito umano, sono state cercate e messe da parte da Dio per costituire un giorno quella che è chiamata la Sua “Sposa” le nozze verranno celebrate al compimento dei tempi come è scritto in Apocalisse 19.7-10: 7Rallegriamoci ed esultiamo, rendiamo a lui gloria, perché sono giunte le nozze dell’Agnello; la sua sposa è pronta: le fu data una veste di lino puro e splendente. La veste di lino sono le opere giuste dei santi”.

Il matrimonio cristiano, quindi, riflette questa realtà e dev’essere spiegato ai futuri sposi come effettivamente è dal punto di vista umano e spirituale. Purtroppo, è l’istituzione più fraintesa nelle Chiese attorno alla quale si sono alzati muri di assoluto integralismo o tolleranza, cioè l’uno e il contrario dell’altro, che comunque cela dietro a sé uno stesso modo di pensare. Amen.

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15.14 – MATRIMONIO E DIVORZIO II/III (Matteo 19.3-9)

15.14 – Matrimonio e divorzio II/III (Matteo 19.3-9)

 

3Allora gli si avvicinarono alcuni farisei per metterlo alla prova e gli chiesero: «È lecito a un uomo ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo?». 4Egli rispose: «Non avete letto che il Creatore da principio li fece maschio e femmina 5e disse: Per questo l’uomo lascerà il padre e la madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola carne? 6Così non sono più due, ma una sola carne. Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto». 7Gli domandarono: «Perché allora Mosè ha ordinato di darle l’atto di ripudio e di ripudiarla?». 8Rispose loro: «Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli; all’inizio però non fu così. 9Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso di unione illegittima, e ne sposa un’altra, commette adulterio».

 

Dato qualche cenno in più sul matrimonio e il divorzio ai tempi di Gesù, in questa seconda parte si cercherà di studiare le sue parole. Il verso 4 inizia con “Egli rispose”: non è una semplice cronaca, ma sta a indicare “Egli parlò così”, cioè l’AMEN, l’IO SONO partecipe e, sotto l’aspetto della Parola, motore della Creazione, sta per enunciare quando da Lui stesso vissuto essendo presente ad essa. Quanto Gesù sta per dire non è il frutto di una vita passata a studiare la Torà come i vecchi, umanamente autorevoli maestri del tempo, ma la Verità totale proveniente dal Testimone che troviamo in Giovanni 1.3, “Tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste”.

Il verso prosegue con una forma interrogativa di rimprovero di fronte alla cecità del Suo uditorio che, seguendo la tradizione, poneva tutta la sua attenzione al meccanismo del divorzio anziché alla sacralità del matrimonio. “Non avete letto che il Creatore – che mise la sua intelligenza nella Sua opera – che da principio fece ogni cosa – parole che nella nostra versione mancano – fece gli uomini maschio e femmina?”: Gesù quindi ricorda che, prima di creare l’uomo, il Padre “da principio fece ogni cosa”, quindi tutti i giorni precedenti (ere) della creazione in cui si dedicò alla realizzazione dell’Universo e della Terra, dal firmamento all’asciutto e da lì ai componenti del regno vegetale e animale per poi arrivare, al sesto, all’uomo.

È interessante notare che, per vegetali e animali, il sesso era già stabilito nel senso che furono così creati, mentre per l’uomo vi fu un passaggio in più, cioè “…l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli animali selvatici, ma per l’uomo non trovò un aiuto che gli corrispondesse”. Di qui la creazione della donna che fu sì realizzata da una costola di Adamo, ma venne dotata di personalità autonoma per cui, in quel crearli “maschio e femmina”, oltre a realizzarsi il fatto che Adamo finalmente trovò una creatura che gli corrispondesse e che potesse frequentare, riconobbe in lei una parte importante di se stesso, un simile: “Questa volta è osso delle mie ossa, carne della mia carne. La si chiamerà donna – isha – perché dall’uomo è stata tolta”. Tra l’altro la parola che tutte le versioni traducono con “costola”, originale “Tselàh” significa anche “un fianco, una parte”, quindi una metà che è stato supposto essere il cromosoma X, tolto dall’uomo e subito duplicato in lui. Le cellule della donna, infatti, contengono due cromosomi X e nessun Y, il DNA dell’essere umano donna è infatti costituito da coppie XX.

Se nel creare animali e piante differenziandoli per sesso il fine era quello riproduttivo, nel caso dell’uomo quel “maschio e femmina” era riferito alla comunicazione, a una visione d’insieme, alla stessa comune progettualità, comunione e intenti che avrebbero poi dovuto essere alla base del matrimonio anche nel territorio purtroppo contaminato dal peccato. Nelle origini tanto Adamo quando Eva dovevano caratterizzarsi attraverso un dono continuo di sé l’uno per l’altro in un’armonia che si risolvesse al tempo stesso verso loro stessi e Dio anche se, dopo, una volta introdotti nell’ambiente nuovo, a loro ostile, al di fuori di Eden, tutto si fece enormemente più complicato. Adamo, nonostante avesse anche lui la sua parte di colpa, non si fidava più della moglie.

 

L’uomo e la donna sarebbero divenuti “una sola carne” cioè “non più due – cioè ciascuno con una propria personalità – ma uno solo” e questa unicità è espressa poi, molto tempo dopo, da Malachia (2.13-16) che, parlando proprio di questa unione, scrive “Un’altra cosa fate ancora: voi coprite di lacrime, pianti e sospiri l’altare del Signore, perché egli non guarda all’offerta né accetta con benevolenza dalle vostre mani. E chiedete. «Perché?». Perché il Signore è testimone fra te e la donna della tua giovinezza, che hai tradito, mentre era la tua compagna, la donna legata a te da un patto. Non fece egli un essere solo dotato di carne e soffio vitale? Che cosa cerca quest’unico essere, se non prole da parte di Dio? Custodite dunque il vostro soffio vitale e nessuno tradisca la donna della sua giovinezza. Perché io detesto il ripudio, dice il Signore, Dio d’Israele, e chi copre d’iniquità la propria veste, dice il Signore degli eserciti. Custodite dunque il vostro soffio vitale – cioè la vostra anima – e non siate infedeli”.

In questo verso vediamo l’ultima espressione: “Custodire” che significa “sorvegliare qualcosa con attenzione e cura in modo che non subisca danni e si conservi intatto”. Questa azione, nel matrimonio è reciproca, ciascuno deve vigilare affinché l’altro non cada e tutto questo non ha nulla a che fare con la gelosia, quel sentimento che provano i bambini o gli adulti non cresciuti con effetti devastanti, ma è l’amore, l’interesse profondo che una persona, maschio o femmina, prova per la sua controparte. L’amore spesso è confuso col sentimento, ma fondamentalmente è scelta, dono reciproco di sé, occuparsi della persona (che si è responsabilmente scelti) per tutta la vita in un reciproco, identico scambio.

Nelle parole di Gesù, poi, c’è un monito molto importante, cioè “ciò che Dio ha unito, l’uomo non lo separi”, due volontà a confronto: nel momento in cui uomo e donna si uniscono, è Lui il testimone. È una frase che inutilmente cercheremmo, così espressamente dichiarata, negli scritti dell’Antico Patto, che ci rivela che chi vuol separare le due persone fatte una, con il divorzio e una successiva nuova unione, si pone in antitesi a Dio che del matrimonio è testimone e artefice al tempo stesso.

Può sorgere a questo punto una questione, e cioè se quanto detto da Gesù riguardi gli ebrei, stante che il nostro passo appartiene a Matteo che scrive per loro, oppure no e la risposta non può essere che negativa, poiché di questo riferisce anche Marco (10.1-12, “L’uomo non divida ciò che Dio ha congiunto”. Se mai, l’intervento di Nostro Signore fu limitato alla domanda dei farisei in merito al matrimonio e divorzio così come da loro inteso, e fu aggiornato dall’apostolo Paolo grazie alle domande che le varie Chiese gli sottoponevano per cui, per avere un’idea chiara del tema, andrebbe affrontato alla luce del suo insegnamento in cui distingue nettamente ciò che è propria opinione da quello che è quanto ricevuto da Gesù in persona, in spirito.

Il tema del matrimonio si conclude al verso 9, “Ma io vi dico”, “Io” quale inviato dal Padre per rivelare la Sua volontà perché “Tutto è stato dato a me dal Padre mio e nessuno sa chi è il Figlio se non il Padre, né chi il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo” ( Matteo 11.27; Luca 10.22). “Chiunque ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, se non in caso di unione illegittima – o meglio “fornicazione” – e ne sposa un’altra, commette adulterio”, frase – attenzione – per chi già ha a che fare con Dio, sia esso ebreo o cristiano, rivolta a chi a Lui appartiene, perché per chi si ritrova in questa condizione prima di convertirsi viene purificato da un peccato che non sapeva di commettere.

Ancora una volta entriamo in un territorio molto delicato, perché occorre definire la fornicazione, termine dal significato poco conosciuto che il greco indica con “pornèia”, cioè prostituzione, fornicazione, lussuria. Da lì vengono “pornèion”, postribolo, e “pornéuo”, esercitare la prostituzione. Tutti queste parole hanno come significato alternativo attività idolatre che nel nostro caso non rilevano, ma tornano utili per identificare altri contesti. Il termine “fornicazione” trae la sua origine anche dalla parola “fornix”, cioè “fornice”, vale a dire la luce di un arco o di una porta monumentale, sotterraneo a volta sotto le quali le prostitute erano solite sostare nell’attesa di clienti, ma anche bordello, quindi allusione a rapporti sessuali con persone diverse dal proprio marito o dalla propria moglie, quindi, per estensione, un’attività sessuale disordinata. L’ebraico ha zenùt, riferito a rapporti incestuosi.

Certo Gesù qui parla della donna perché il tema era il divorzio ebraico che era prerogativa dell’uomo, ma adattata al nostro tempo vale per entrambe le parti: nel caso della fornicazione, che comprende anche l’adulterio, abbiamo un colpevole e un innocente, cioè chi la pratica all’insaputa dell’altro e, così facendo, rompe, rovina quell’equilibrio della “sola carne” realizzatosi a suo tempo col matrimonio. A quel punto, la parte innocente è libera davvero di attuare le pratiche per il divorzio e quindi, se lo vuole, risposarsi proprio perché non è stata lei a rompere l’istituzione matrimoniale. Stiamo parlando di questioni legali quali erano quelle portate a Gesù all’epoca dai farisei e dell’interpretazione delle due scuole.

Resta quindi aperto il problema di definire la fornicazione, perché se fosse sinonimo di adulterio la lettera di divorzio non avrebbe avuto senso in quanto la donna sarebbe stata condannata per lapidazione unitamente al proprio correo, se trovato: non trovo altri termini se non assimilando la fornicazione a pratiche estranee al matrimonio che hanno appunto a che fare con una sua contaminazione che, proprio in quanto patto tra due persone e Dio – stiamo parlando di appartenenti al Suo popolo sia prima che dopo la dispensazione della Grazia – lo rende nullo davanti a Lui.

La fornicazione è disordine e sconvolgimento così come la prostituzione che, benché si caratterizzi con atti sessuali di vario tipo e natura, non può essere considerata adulterio perché altrimenti le prostitute in Israele sarebbero state tutte lapidate, mentre erano, per usare un eufemismo, ai margini della società. La stessa Legge di Mosè (Deuteronomio 23.17) proibisce decisamente la prostituzione sacra, ma nulla dice di quella “normale” mentre lo stesso libro, in 22.21, afferma che debba essere lapidata la giovane che, al momento del matrimonio, risulta non vergine. Si tratta di un tema che a tutt’oggi non ho saputo completamente risolvere nonostante la consultazione di molti testi e pareri.

A questo punto la conclusione di Gesù è la stessa di 5.32, “Chiunque manda via sua moglie, tranne che nel caso di fornicazione, commette adulterio; ed altresì chi sposa colei che è mandata via, commette adulterio”. Non potrebbe essere diversamente perché, nel caso di un unione non inquinata dalla fornicazione, i due sono e restano una sola carne davanti a Dio indipendentemente dai motivi che producono il divorzio. Stessa cosa la riporta Luca in 16.18 a conferma che il principio è valido per tutti e non si tratta solo di una risposta alla dottrina ebraica sul matrimonio.

Se guardiamo però al divorzio, vediamo che non è permesso allo scopo di sposare una terza persona, ma può realizzarsi a condizione che le parti si astengano da altre unioni. Sarà l’apostolo Paolo a definire il tema scrivendo: “Agli sposati ordino, non io, ma il Signore: la moglie non si separi dal marito. E qualora si separi, rimanga senza sposarsi, o si riconcili col marito. E il marito non ripudi la moglie” (1 Corinti 7.10). Da notare che nel testo originale si parla ancora una volta di “uomo” e “donna” e che ciò che è scritto per uno vale anche per l’altro.

Resta il fatto che il divorzio è e rimane uno squilibrio che interviene, quando non causato da una “unione illegittima”, come risultato di una serie di circostanze non ponderate a suo tempo che finiscono per penalizzare e inquinare profondamente un rapporto il più delle volte gestito lasciandolo lo Spirito fuori dalla porta.

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15.13 – MATRIMONIO E DIVORZIO I/III (Matteo 19.3-9)

15.13 – Matrimonio e divorzio I/III (Matteo 19.3-9)

 

3Allora gli si avvicinarono alcuni farisei per metterlo alla prova e gli chiesero: «È lecito a un uomo ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo?». 4Egli rispose: «Non avete letto che il Creatore da principio li fece maschio e femmina 5e disse: Per questo l’uomo lascerà il padre e la madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola carne? 6Così non sono più due, ma una sola carne. Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto». 7Gli domandarono: «Perché allora Mosè ha ordinato di darle l’atto di ripudio e di ripudiarla?». 8Rispose loro: «Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli; all’inizio però non fu così. 9Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso di unione illegittima, e ne sposa un’altra, commette adulterio».

 

Dopo aver sostato per un certo tempo sul Vangelo di Luca, occorre affrontare un tema che, dal racconto degli altri sinottici, sappiamo fu affrontato da Gesù in quello stesso giorno, ma prima della presentazione dei bambini. Per quanto al tema del matrimonio e del divorzio siano stati dedicati diversi capitoli a commento di Matteo 5.31-32, torniamo sull’argomento data la sua vastità e il fatto che Gesù stesso ricorda il tema anche se dietro domanda di “alcuni farisei per metterlo alla prova”.

Prima considerazione va fatta richiamando le differenze tra il sermone sul monte e questo episodio:  allora Gesù, ammaestrando la folla, fece un discorso a 360 gradi fra i molti princìpi dati per scontati dal popolo e i suoi capi e la Verità secondo Dio: in quell’episodio, infatti, contiamo complessivamente dodici “ma”, due “eppure”, sette “invece” e quattordici “Io vi dico” per un totale di 35 (5×7) nuovi enunciati. Nel sermone sul monte, poi, l’insegnamento sul matrimonio fu libero, nel senso che fu Gesù a parlare in base a ciò che la folla aveva bisogno di ascoltare, mentre in questo episodio abbiamo una risposta a una questione posta con un fine preciso, quello di “metterlo alla prova”, o “tentarlo” come altri traducono.

In pratica i farisei volevano costringere Gesù a dichiarare valida una delle teorie delle due scuole rabbiniche più autorevoli del tempo, quella di Shammai e di Hillel che, ricordiamo, davano interpretazioni opposte a Deuteronomio 24.1 che recita: “Quando un uomo ha preso una donna e ha vissuto con lei da marito, se poi avviene che ella non trovi grazia ai suoi occhi, perché egli ha trovato in lei qualche cosa di vergognoso, scriva per lei un libello di ripudio e glielo consegni in mano e la mandi via dalla casa”.

La scuola di Shammai, per “qualche cosa di vergognoso”, sosteneva che altro non poteva essere se non l’adulterio, cioè la contaminazione del corpo della donna (o dell’uomo) tramite un rapporto sessuale con persona diversa dal proprio marito; per l’altra scuola, invece, il “vergognoso” poteva avere più significati in quanto il testo della Torah non specificava di cosa effettivamente si trattasse. Allora, come ricordato quando trattammo l’argomento in Matteo 5, l’interpretazione di quel passo era in senso molto più largo, riferito a qualunque cosa fosse sconveniente nella vita familiare o civile: una minestra bruciata, un brutto carattere o addirittura, come sosteneva Rabbi Aqiba, il disagio provato dal marito di una moglie meno bella di un’altra donna.

Ora che questi farisei appartenessero a una scuola piuttosto che all’altra, non rileva perché comunque, se Gesù avesse dato ragione a una delle due, avrebbero potuto accusarlo di faziosità, di rigidità o tolleranza, schierandosi immediatamente dalla parte della scuola ritenuta in torto. L’ignoranza da sempre è astuta, mai intelligente.

A questo punto vediamo che Gesù si esenta dal giudicare il risultato delle riflessioni dei vari maestri, ma fa l’unica cosa possibile e cioè va alle origini, dove tutto cominciò e si svolgeva nella perfetta dispensazione dell’innocenza nella quale vivevano i nostri progenitori, citando Genesi 1.27 in cui leggiamo “E Iddio fece l’uomo a sua immagine – spirituale –; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò.”, verso che riassume tutte le fasi della sua creazione, Adamo prima, poi Eva, tratta da lui.

 

Ecco, già qui c’è  molto da ragionare perché quel “li” allude all’essere umano integro, vale a dire che se prima c’era Adamo da solo e poteva definirsi “uomo”, “ish”, lo stesso avvenne poi, con la donna, “isha” non creata dalla polvere della terra, ma formata: “Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e rinchiuse la carne al suo posto” (Genesi 2.21). Quella fatta sull’uomo fu la prima operazione chirurgica della storia in cui Dio fu anche l’anestesista e il rianimatore. Da allora i termini “uomo” e “donna”, che per noi sono due parole diverse ma come abbiamo visto in ebraico hanno la stessa radice, furono comunque riuniti sotto il primo, “a immagine di Dio lo creò”, cioè senza nulla di diverso a parte il sesso e il differente criterio di formazione. Tutte le altre caratterizzazioni, le divisioni, il reciproco fidarsi o meno, il voler dominare e interferire l’uno sull’altro spesso senza capirsi, avverranno dopo, come conseguenza dell’aver trasgredito all’unico comandamento ricevuto.

A parte le infinite considerazioni fattibili che rendono molto arduo uno studio sul tema, le scuole rabbiniche riguardo al matrimonio usano il termine “qiddushìm”, cioè “consacrazione”, plurale di “qiddùsh” che indica alcuni riti come ad esempio il lavaggio di mani e piedi richiesto ai sacerdoti prima di fare servizio nel luogo Santo, o la consacrazione del sabato. Già quindi la consacrazione è qualcosa che dura per sempre, un patto fra l’uomo e il Creatore, quindi che non coinvolge soltanto i due esseri umani che si donano vicendevolmente.

Così comprendiamo proverbi 30.18-20, “Tre cose mi sono difficili, anzi quattro, he io non comprendo: il sentiero dell’aquila nell’aria, il sentiero del serpente sulla roccia, il sentiero della nave in alto mare, il sentiero dell’uomo in una giovane”.

“Qiddushìm”, plurale di “qiddùsh”, è usato solo per  indicare il matrimonio che, negli scritti cosiddetti veterotestamentari, si suole definire anche con l’espressione giuridica “essere di”. Quindi, parlando di tradizione e di testo, se Gesù si rifà al verso di Genesi, altrettanto fecero gli antichi rabbini prima che si analizzasse il problema del divorzio.

 

Ancora, Gesù prosegue nella citazione di Genesi e attribuisce a Dio, e non ad Adamo come alcuni intendono, le parole “Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una stessa carne”. Anche qui si dovrebbe aprire un capitolo enorme, perché la Bibbia non ci dà delle indicazioni su come si concreta il matrimonio se non che questo si ufficializza una volta per tutte con la penetrazione, unico modo per diventare “una sola carne”.

Il problema però, guardando come questo si dipana nel Pentateuco o Torà, è che ci fu una evoluzione riguardo al modo di gestirlo, come si può riassumere con le parole di Maimonide, vissuto nel 1100 d.C.: “Prima che venisse data la Torà un uomo incontrava una donna per strada e, se lui e lei – attenzione – erano d’accordo che lui la prendesse, la portava a casa da lui e si univa a lei riservatamente e lei diveniva sua moglie. Quando fu data la Torà al popolo d’Israele fu ordinato che un uomo che volesse sposare una donna dovesse prima acquistarla davanti a testimoni, e dopo diventasse sua moglie”.

Scorrendo il libro della Genesi, anche nella dispensazione della coscienza, vediamo che inizia a diffondersi l’usanza di intendere il matrimonio come un atto formale sancito da un acquisto, cioè l’uomo pagava una famiglia per avere da questi una donna. Tracce di questa usanza sono molte, come quella di Genesi 34.12 nell’episodio di Dina e Sichem, quando leggiamo “Alzate pure molto a mio carico il prezzo nuziale e il valore del dono; vi darò quanto mi chiederete, ma concedetemi la giovane in moglie”. Chi conosce l’episodio sa che, a monte, vi è una violenza carnale, ma la frase citata rimane come testimonianza dell’uso di quel tempo (v.2).

Da qui iniziò a diffondersi il termine “prendere una donna”, tradotto in alcune versioni come “sposare” per brevità, ma non correttamente. Tra l’altro il testo di Deuteronomio 22.13 potrebbe aiutare a individuare il “qualcosa di vergognoso” su cui si interrogavano le due scuole citate all’inizio su 24.1, dove anche lì il “prendere” ha lo stesso significato: “Se un uomo prende una donna e, dopo essersi unito a lei, la prende in odio, le attribuisce azioni scandalose e diffonde sul suo conto una fama cattiva, dicendo: «Ho preso questa donna, ma quando mi sono accostato a lei non l’ho trovata in stato di verginità…».

 

Occorre però una precisazione fondamentale, perché vero è che il matrimonio era un contratto, che spesso erano le famiglie a organizzarlo, quanto dichiarano i rabbini moderni su questa antica usanza distrugge un’opinione diffusa, della quale mi sono appropriato per lungo tempo, che vede il tutto organizzato a prescindere dal fatto che i due futuri sposi fossero o meno d’accordo. Se le scuole di Hillel e Shammai dibattevano anche sull’importo della somma da versare quando l’uomo “acquistava” una donna dalla sua famiglia, perché l’atto matrimoniale fosse valido non era sufficiente il semplice versamento della somma, ma era necessario – attenzione – il pieno consenso degli sposi. Il carattere di acquisto era necessario perché senza di esso il matrimonio non poteva avere una struttura giuridica, ma la base era che fra il futuro marito e la futura moglie ci fosse consenso, progettualità comune, armonia e volontà di crescita spirituale.

Ma c’è molto di più perché l’insegnamento dei maestri al riguardo sosteneva che il matrimonio può essere descritto come una associazione fondata su un interesse reciproco. Maimonide, chiaramente venuto dopo il tempo in cui Gesù parlò ai farisei, vede questa istituzione come un’unione allo scopo di condividere problemi, piaceri, dispiaceri e gioie perché quando vengono condivise le gioie si moltiplicano e i dolori si dimezzano. Poi, il matrimonio è visto come la ricerca di ideali per i quali i coniugi sono disposti a sacrificarsi e solo quando c’è questa intesa è possibile creare una famiglia. Ci vuole poco a dedurre che, mancando questi presupposti, un matrimonio non ha ragione di essere ed è destinato alla rovina esattamente come “la casa costruita sulla sabbia” o il “regno diviso in parti contrarie”.

Di questo non troviamo traccia esplicita nella Bibbia, ma il fatto che gli ebrei, ai quali credo competa l’ultima parola in quanto detentori di un Libro che fu loro “dato” ed è studiato da millenni, si esprimano così su questo tema non può lasciare indifferenti. Allora, partendo da questo punto di armonia e condivisione necessaria, capiamo meglio perché, idealmente, dovesse essere e fosse un vincolo sacro.

Una triste nota a margine è che, purtroppo, mentre nel campo scientifico esistono testi che ribadiscono un concetto che è “quello”, studiare la Scrittura proficuamente non è facile nel senso che tutto va bene se un argomento viene affrontato su un solo testo, ma nel momento in cui lo si “parallelizza” si incontrano contraddizioni o variazioni sul tema a volte incompatibili tra loro. E questo affatica e snerva al tempo stesso chi studia e vorrebbe scavare con strumenti idonei e non con piccozze spuntate, per altro non da lui. Sapere per bocca di un rabbino che il matrimonio per procura indipendentemente dalla volontà degli sposi in Israele non era cosa praticata, mi ha costretto ad aggiornare molti dei dati che avevo costruito sul tema, sbagliando, per quanto in modo marginale. Il problema è che però, come credenti, non possiamo avere le idee vaghe, ma devono essere il più possibile nitide.

Riporto un passo tratto da un breve trattato al riguardo: “Formare una coppia ben assortita è difficile come aprire le acque del Mar Rosso e richiede l’infinita saggezza di Dio stesso. Per questo motivo, benché da un certo punto di vista il matrimonio sia predeterminato, l’individuo deve scegliere saggiamente. Il matrimonio non dovrebbe essere contratto per denaro, ma un uomo dovrebbe scegliere una moglie che sia di temperamento mite ed abbia tatto, che sia modesta ed industriosa e che risponda ad altri requisiti: di rispettabilità della famiglia, di età e stato sociale simili, di bellezza e di scolarità del padre”.

 

Tornando al tema e nella storia descritta dal Pentateuco, partiamo da un “principio” in cui l’essere “una sola carne” doveva durare per tutta la vita, ma poi troviamo bigamia, concubinato e infine il divorzio causato da “qualcosa di vergognoso” interpretato come sappiamo: perché? La risposta la dà Gesù: “Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, all’inizio però non fu così”.

Certo Mosè ha “permesso”, per ordine e per parola di Dio, non certo autonomamente, ma ciò non toglie che sia necessaria una importante domanda perché esiste apparentemente una contraddizione fra quanto ordinato alla creazione e quanto letto qui sul divorzio, ma non è così o, meglio, così sembrerebbe se si prendono le dichiarazioni di Dio come qualcosa di granitico, impossibile a non subire variazioni quando è Lui, a differenza di noi, perfetto proprietario di se stesso, ad emanare, dichiarare norme che, in quanto nuove, sostituiscono o modificano più o meno leggermente quelle precedenti.

 

“Per la durezza dei vostri cuori” dove il cuore è la sede dell’anima e quindi della capacità o incapacità di fare una cosa. Il divorzio è parte della Legge, la stessa che sancisce la fedeltà fra uomo e donna e dà la morte in caso di adulterio ma permette che, in caso di convivenza impossibile, sia consentito redigere un documento che dia la possibilità alle due parti di interrompere legittimamente il rapporto e di crearne uno nuovo. Credo che senza il divorzio gli adultérii si sarebbero moltiplicati e diffusi e che la Legge, senza il divorzio “per la durezza dei vostri cuori”, non avrebbe potuto essere definita con le parole di Deuteronomio 30.11-14, “Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te, né troppo lontano da te. Non è nel cielo, perché tu dica: «Chi salirò per noi in cielo, per prendercelo e farcelo udire e lo possiamo eseguire?». Non è al di là dal mare, perché tu dica: «Chi attraverserà per noi il mare per prendercelo e farcelo udire e lo possiamo eseguire?», Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica”.

Ricordiamo le parole precedenti: “Le cose occulte appartengono al Signore, nostro Dio, ma le cose rivelate sono per noi e per i nostri figli, per sempre, affinché pratichiamo tutte le parole di questa legge” (39.28).

 

E in tutto questo trattare il divorzio, arriviamo al punto finale, “Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso di unione illegittima – altri traducono più propriamente “fornicazione” – e ne sposa un’altra, commette adulterio” (v. 9). Fu sempre così? Certamente no. Fu così da quando Gesù parlò in quel modo? Certamente sì, perché è Lui la Parola e dichiara se stesso alla luce della dispensazione della Grazia, sul cui inizio ufficiale potremmo stare a discutere per mesi: quando nacque, quando iniziò a predicare? Quando morì? Quando risorse, ascese al cielo, o quando lo Spirito Santo fu sui centoventi?

Il “documento di divorzio”, poi, come ha scritto un fratello, “era inteso a proteggere la donna innocente contro il capriccio o la licenza di un cattivo marito, poiché quella scritta non era un’accusa di infedeltà, ma piuttosto un certificato di innocenza, come risulta dal fatto che tale scritta si consegnava alla moglie medesima, mentre la legge prescriveva che l’adultera fosse messa a morte”.

 

Siamo così giunti alla fine di questa prima parte in cui abbiamo tratteggiato in una linea lieve, con tutti i limiti dello spazio a disposizione, il matrimonio e il divorzio dai testi antichi che abbiamo, per capire perché Gesù abbia risposto così ai farisei che lo interrogavano. Al prossimo capitolo la responsabilità di commentarle. Amen.

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