15.12 – GESÙ BENEDICE I BAMBINI (Luca 18.15-17)

15.12 –Gesù benedice i bambini (Luca 18.15-17)

 

15Gli presentavano anche i bambini piccoli perché li toccasse, ma i discepoli, vedendo ciò, li rimproveravano. 16Allora Gesù li chiamò a sé e disse: «Lasciate che i bambini vengano a me e non glielo impedite; a chi è come loro, infatti, appartiene il regno di Dio. 17In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come l’accoglie un bambino, non entrerà in esso».

 

Luca, dopo l’esposizione della parabola del fariseo e del pubblicano, si collega ai racconti di Matteo e Marco che narrano della disputa, sempre coi Giudei, riguardo al matrimonio e la benedizione dei bambini. È un tema che abbiamo già trattato, ma più con le applicazioni relative alla necessità, da parte dell’uomo che ha accolto il Vangelo, di essere come loro perché “In verità io vi dico, se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli” (Matteo 18.3).

Proseguendo la lettura di Matteo, anche il capitolo 19 ha forti analogie col racconto di Luca perché, subito dopo l’episodio, abbiamo l’incontro col giovane ricco, di cui abbiamo già parlato. Il parallelo di Matteo 19.13-15 ci aiuta a comprendere quanto avvenne: “Allora gli furono portati dei bambini perché imponesse loro le mani e pregasse, ma i discepoli li rimproverarono. Gesù però disse: «Lasciateli, non impedite che i bambini vengano a me; a chi è come loro, infatti, appartiene il regno dei cieli». E, dopo avere imposto loro le mani andò via di là”.

Cerchiamo di concentrarci ora sulla scena: Gesù aveva appena concluso il suo insegnamento, parlando davanti a tutti, gente comune, farisei, pubblicani e peccatori. Tra di loro solo la categoria dei religiosi (ma non tutti) lo disprezzava e odiava, ma quando leggiamo che “gli presentavano anche i bambini piccoli perché li toccasse”, vediamo che le madri presenti gli portavano i loro figli, quelli ancora in fasce o poco più grandi, perché era in uso in Israele condurre i piccoli ai rabbini più importanti perché li benedicessero. Così facendo dimostrano proprio agli avversari di Gesù che, indipendentemente dal fatto che volessero seguirlo o convertirsi o meno, Lo ritenevano molto più autorevole di loro. Ricordiamo le parole dei due discepoli sulla via di Emmaus, che ricordando il loro Maestro lo definirono “profeta potente in parole e in opere, davanti a Dio e a tutto il popolo” (Luca 24.19) e quelle di Giuseppe Flavio, già ricordate all’inizio di questa serie di studi, che scrisse “Ci fu verso questo tempo Gesù, uomo saggio, se pure bisogna chiamarlo uomo: era infatti autore di opere straordinarie, maestro di uomini che accolgono con piacere la verità, ed attirò a sé molti Giudei, e anche molti dei greci. Questi era il Cristo. E quando Pilato, per denunzia degli uomini notabili fra noi, lo punì di croce, non cessarono coloro che da principio lo avevano amato. Egli infatti apparve loro al terzo giorno nuovamente vivo, avendo già annunziato i divini profeti queste e migliaia d’altre meraviglie riguardo a lui. Ancor oggi non è venuta meno la tribù di quelli che, da costui, sono chiamati Cristiani” (Ant. XVIII, 63-64).

Va detto che l’imposizione delle mani era un atto simbolico e non la trasmissione di una sorta di potere magico. Colui che la riceveva, fosse un adulto o un bambino come nel caso di questo episodio, non riceveva altro se non l’approvazione, l’attestazione del fatto che nulla di negativo si frapponeva fra lui e Dio. Imponendo le mani, o “toccando” la persona, si chiedeva che si potesse idealmente trasmettere la volontà di chi agiva in tal senso al fine di porlo in un condizione futura diversa da quella di prima. Portando a Gesù i bambini, quelle madri Gli chiedevano di agire in modo favorevole ai loro figli, nella speranza-certezza che potessero diventare un giorno uomini di Dio.

Imporre le mani a qualcuno, uomo o animale nell’Antico Patto, era un modo per trasmettere ritualmente un’autorità, un dono, ma anche una maledizione. Era un atto formale, valeva come una dichiarazione scritta, un attestato e tutto questo andrebbe praticato ancora oggi nelle Chiese locali nel caso di credenti in cui si distingue un dono, al fine di porlo ufficialmente nelle condizioni di svilupparlo e ricercarlo al meglio: un riconoscimento pubblico. Così fu per Saulo da Tarso, Barnaba, Timoteo e molti altri.

Sappiamo che molti furono guariti toccando Lui o il lembo della sua veste, che impose le mani a molte persone e le guarì (Luca 4.40). Anche l’apostolo Paolo usò questa forma per guarire, ad esempio, il padre di Publio, governatore dell’isola di Malta, episodio in cui leggiamo che “Paolo andò a trovarlo e, dopo aver pregato, gli impose le mani e lo guarì” (Atti 28.8).

Altra considerazione possibile su quelle madri è che non erano animate da un sentimento di superstizione, ma erano consce della differenza che intercorreva fra il Cristo e gli altri uomini che, magari autorevoli tra il popolo a livello religioso, non avrebbero potuto benedire i loro figli con la stessa autorevolezza; da qui possiamo dedurre che tutto questo avvenisse con una certa urgenza e trepidazione, cosa che provocò nei discepoli fastidio perché leggiamo che “li rimproveravano”, convinti anche del fatto che il Suo ministero fosse riservato agli adulti.

Però Marco 10.14 precisa che “Gesù, al vedere questo, si indignò e disse loro…”, quindi ancora una volta furono posti di fronte al fatto che non erano in grado di interpretare correttamente il senso delle cose: certo quei bambini, di età inferiore ai quattro anni come abbiamo ricordato, non avrebbero potuto capire nulla né del peccato, né della necessità di essere salvati, ma erano comunque degni dell’attenzione di Dio talché sempre Marco scrive “E, prendendoli tra le braccia, li benediceva, imponendo le mani su di loro” (v.16). Pensiamo al fatto che non è un caso se proprio Marco, informato da Pietro, scrive queste cose.

E, in merito a questo particolare, penso a quelle creature innocenti, che, senza nulla capire, nulla sapere di ciò che un giorno sarebbero diventate, una volta cresciuti avrebbero appreso di essere stati in braccio e benedetti dalla Parola fatta carne, venuta a dimorare in mezzo a noi. È una piccola cosa, ma che è pervasa d’infinito, ci parla del piano esistente per ognuno di loro (e quindi noi), dello sguardo di Gesù che trapassa il tempo, fatto di secondi e millenni, di attesa e di accoglienza nel suo regno. Per fede quelle donne gli portavano i loro figli e già Lui pregava per loro. Ecco, i discepoli, frapponendosi tra lui e quelli, ancora una volta dimostrarono di pensare secondo la terra e quel che è peggio è che, forse, io avrei fatto altrettanto pensando, in quanto discepolo e operatore fattivo del regno di Dio, di avere fatto già abbastanza e di avere il diritto di riposare.

Invece non si finisce mai di imparare, soprattutto nel campo spirituale: se mi aspetto che il Signore arrivi da una parte, ecco che giunge da quella opposta. Se mi aspetto che si manifesti nelle cose grandi o gravi, eccolo nelle minute, nel dettaglio, nell’assoluto inatteso e le Sue parole, “lasciate” e “non glielo impedite”, riguardano tanto la pratica fisica dell’ostacolare quanto quella mentalità della disapprovazione a priori, la convinzione di sapere ciò che è giusto e sbagliato senza prima riflettere.

I discepoli, che tante volte avevano sentito Gesù parlare di pecore e di “buon pastore” avevano dimenticato che il gregge non è composto solo di animali della stessa età, come ricorda Isaia 40.11: “Come un pastore gli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul petto e conduce dolcemente le pecore madri”. Il bambino quindi non ha bisogno di venire battezzato in quanto, fino a quando non raggiunge l’età delle scelte e non si caratterizza come figlio di Dio oppure no, appartiene già al Suo regno. Sarà poi il tempo a qualificarlo, caratterizzarlo, una volta cresciuto.

Il bambino, prima di diventare autonomo, guarda ogni cosa con stupore e occhi grandi che poi non avrà più. E allo stesso modo il credente, quando viene messo di fronte alle cose di Dio e al progetto che ha per lui.

Il bambino, prima di diventare autonomo, ha bisogno delle cure di genitori preparati (mai abbastanza e imperfetti viste le parole “Se voi, che siete cattivi, siete in grado di dare cose buone ai vostri figli…”) e le accoglie, allo stesso modo il credente deve affidarsi interamente a Lui se desidera imparare, sopravvivere al mondo contaminante e ostile in cui vive. Sarà solo crescendo che, posto di fronte a delle scelte, dovrà decidere da quale parte stare.

E guardando il suo essere indifeso, la sua assoluta necessità di protezione, capiamo quanto sia inevitabile il nostro dipendere da Dio. Il bambino è quindi il metro di paragone fra ciò che siamo e ciò che dovremmo essere nelle nostre dinamiche spirituali.

Il bambino non è certo quello petulante, capriccioso ed egoista che quasi sempre incontriamo, non accuratamente cresciuto da genitori distratti; se mai, quello lo si trova – o si dovrebbe trovare – fuori dalla Chiesa.

E questo chiama in causa un’altra, terribile eventualità, cioè che proprio nella Comunità ci si trovi davanti a degli adulti che in realtà sono bambini mal cresciuti che generano fraintendimenti ed assumono comportamenti molto tristi e disturbanti: inevitabile ricordare la raccomandazione di Paolo ai Corinti, “Non comportatevi da bambini nei giudizi. Quanto a malizia, siate bambini, ma quanto a giudizi, comportatevi da uomini maturi” (1a, 14.20).

Credo sia una frase che possa istruire molto, perché la crescita cristiana nella Parola porta a rimanere bambini quanto alla dipendenza da Dio, ma a una maturità, che solo la pratica di Essa può dare, per valutare accuratamente tutto quanto ci si presenta davanti, sia un evento personale, un consiglio da dare, una persona che ci si propone. Da qui la necessità che l’uomo ha del coltivare il proprio interno mantenendo la sua caratteristica di bambino da un lato, ma dall’altro procedere a una crescita che in parte proviene dalle esperienze fatte e dall’altra dalla dottrina.

Davide scrisse “Signore, non si esalta il mio cuore né i miei occhi guardano in alto – come quelli del fariseo della parabola da poco esaminata –; non vado cercando cose grandi né meraviglie più alte di me. Io invece resto quieto e sereno; come un bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è in me l’anima mia” (Salmo 131.1,2). Lui, re e uomo di guerra, realizzò questa condizione e i fratelli che ci hanno preceduto, compresa la necessità di dare dei riferimenti scritturali agli episodi della Bibbia e del Vangelo, inserirono questi versi connettendoli proprio al passo di Paolo ai Corinti che abbiamo ricordato.

Abbiamo poi l’ultima frase, “Chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso”: non necessariamente il Vangelo dev’essere accettato in toto, passivamente e senza dubbi. Se c’è scritto “venite e discutiamo insieme” un motivo c’è e riguarda proprio il confronto fra Dio e l’uomo, ma dev’essere sempre affrontato con la coscienza di chi siamo noi e di chi è Lui. Un bambino accoglie qualcosa senza riserve, senza anteposizioni di qualsiasi natura, non ha preconcetti, non è ancora influenzato dalle aspirazioni materne o paterne su di lui, quando presenti.

Ecco perché si tratta di un regno che, per molti, è distante. Ecco perché in quel regno, di questi molti non entreranno mai. Amen.

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