15.11 – IL FARISEO E IL PUBBLICANO II/II (Luca 18.9-14)

15.11 – Il fariseo e il pubblicano I/II (Luca 18.9-14)

 

9Disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: 10«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. 11Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: «O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. 12Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo». 13Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: «O Dio, abbi pietà di me peccatore». 14Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».

 

La volta scorsa abbiamo tratteggiato il comportamento del Fariseo e l’opinione che aveva di se stesso e che quindi Dio doveva avere di lui. Se si era spinto fino al confine tra l’atrio degli Uomini e il Santuario, il pubblicano no. Leggiamo “Fermatosi a distanza” o, come altri traducono, “stando lontano”. Se consideriamo che senz’altro vi erano altre persone, ciascuna delle quali aveva occupato un posto preciso, l’atteggiamento dei due uomini è ancora più marcato perché il primo si pone davanti a tutti, il secondo all’ultimo posto, forse addirittura prima dell’ingresso del cortile, termine che ci dice molto se pensiamo all’insegnamento di Gesù su dove collocarsi.

E ciò che suscita il nostro interesse è che la posizione del pubblicano non è calcolata, ma riflette il suo stato d’animo, l’opinione che aveva di sé in rapporto a Dio: sta lontano conscio della propria distanza da Lui. Ha presente le sue azioni, i suoi pensieri, il suo non essere degno nell’eventualità che cercasse, nonostante tutto, di migliorarsi, ma senza successo. È conscio della sua incompatibilità, ma sa che in quanto israelita può essere ascoltato e non prega secondo un formulario prestabilito, ma guardandosi dentro non può che dire “O Dio –  parole con le quali anche il fariseo inizia a pregare – abbi pietà di me, peccatore”. Sono sette, anche in traduzioni diverse. Entrambi gli uomini partono allo stesso modo, ma prendono subito direzioni diametralmente opposte.

Prima di esaminarle notiamo che “non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo”, particolare importantissimo perché denota il suo profondo senso di inadeguatezza: guardare verso il cielo, luogo dell’irraggiungibile, di ciò che è alto, per lui non è neppure ipotizzabile; possiamo dire che in un certo senso, così facendo, teme di compiere un atto di presunzione essendo il cielo, o meglio “i cieli” la reale dimora, dimensione di Dio.

Ricordiamo le parole di Davide in Salmo 40.12.13, “Non rifiutarmi, Signore, la tua misericordia; il tuo amore e la tua fedeltà mi proteggano sempre, perché mi circondano mali senza numero, le mie colpe mi opprimono e non riesco più a vedere: sono più dei capelli del mio capo, il mio cuore viene meno”. Davide qui si dichiara oppresso dalle proprie colpe che lo hanno ridotto a uno stato di lontananza dal Signore che gli ha prodotto cecità spirituale, cioè non è più in grado di distinguere ciò che è bene da ciò che è male non a livello di conoscenza legale, ma di pratica, di sentire spirituale. Come re d’Israele, avrebbe potuto proseguire ignorando il suo stato perché nessuno avrebbe osato chiedergliene conto, ma avendo YHWH come unico punto di riferimento sapeva bene di essere inadatto a proseguire nella sua vita senza l’amore e la fedeltà di Colui che pregava.

Analogo sentimento lo provava Esdra, il sacerdote che guidò il ritorno degli ebrei dall’esilio babilonese: “Mio Dio, sono confuso, ho vergogna di alzare la mia faccia verso di te, mio Dio, perché le nostre iniquità si sono moltiplicate fin sopra la nostra testa, la nostra colpa è grande fino al cielo”, e Daniele, in 9.7, “A te conviene la giustizia, o Signore, a noi la vergogna sul volto”.

Questo è l’unico modo che può avere un uomo per venire ascoltato da Dio quando acquisisce conoscenza della propria condizione spirituale, se in lui dimorano l’onestà e la ragione. Attenzione, perché si tratta di una condizione ben diversa dal fatto che, in quanto cristiani, abbiamo libero accesso al trono della Grazia del Padre! Qui si tratta di quell’essere nostro umano attaccato inevitabilmente alla terra con tutto ciò che ne consegue perché la nostra natura è quella di peccatori, per quanto perdonati.

Pensiamo all’apostolo Giovanni, “il discepolo che Gesù amava”: lo aveva seguito con gli altri, era stato testimone di miracoli che altri non videro assieme a Pietro e Giacomo, aveva faticato per lo sviluppo della Parola di Dio, si trovava relegato all’isola di Patmos, da Gesù aveva ricevuto si può dire ogni cosa, eppure quando se lo trovò davanti glorificato in tutta la Sua potenza, scrive “Appena lo vidi, caddi ai suoi piedi come morto”. E tale sarebbe restato se non leggessimo “Ma egli, posando su di me la sua mano destra, disse: «Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo, e il Vivente. Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi” (Apocalisse 1.17).

La sua esperienza non fu l’unica, ma a parte l’apostolo Paolo con la visione sulla strada di Damasco, anche i profeti dell’Antico Patto provarono un profondo, doloroso senso di inadeguatezza quando furono portati in spirito davanti a Dio: ad esempio Isaia in 6.5 “Ohime! Io son perduto, perché io sono un uomo dalle labbra impure e abito in mezzo a un popolo dalle labbra impure; eppure i miei occhi hanno visto il re, il Signore degli eserciti”.

Qui, tra l’altro, abbiamo anche una delle ragioni per le quali Nostro Signore prese una forma umana a parte il Sacrificio che avrebbe dovuto compiere di se stesso: “Chi ha visto me, ha visto il Padre”, senza timore perché potesse salvarsi, in forma umana, cioè perfetto in un corpo imperfetto. Anche qui possiamo distinguere l’amore portato al suo livello più elevato perché tutta la sua vita fu caratterizzata da questo, incessantemente.

Dal comportamento del pubblicano emerge non solo il fatto che, per riconoscersi peccatore, doveva essere onesto al contrario dell’altro personaggio, ma che Dio lo beneficiava delle sue attenzioni: “Davanti a te poni le nostre colpe, i nostri segreti alla luce del tuo volto” (Salmo 50.8). A quell’uomo non interessava né l’opinione che i suoi simili avevano di lui, né il contegno che eventualmente poneva nella società del tempo, ma sapeva che ogni giorno, ogni istante della sua vita, sopra di lui, esisteva Uno che aveva ben presente i suoi comportamenti, ne valutava pensieri, parole e azioni e a questo giudizio non poteva sfuggire.

Da qui la sua preghiera, la più breve riportata in tutta la Bibbia, che racchiude il distillato di una vita, di un giorno o di cent’anni poco importa.

Poi, accanto all’incapacità di alzare gli occhi al cielo, abbiamo il battersi il petto, segno esteriore di pentimento, termine ebraico Teshuvah che letteralmente significa “ritorno”, lo stesso del figlio prodigo che, appunto, torna al padre non perché gli conveniva secondo un’ottica mondana, perché pentito di tutto il suo agire.

Credo sia da citare parte della preghiera di Salomone quando fu edificato il Tempio: “Anche lo straniero, che non è del tuo popolo Israele, se – notare bene la condizione – viene da una terra lontana a causa del tuo nome, perché si sentirà parlare del tuo grande nome, della tua mano potente e del tuo braccio teso, se egli viene a pregare in questo tempio, tu ascolta nel cielo, luogo della tua dimora – ecco perché il pubblicano non osava alzarvi gli occhi – e fa’ tutto quello per cui ti avrà invocato lo straniero, perché tutti i popoli della terra conoscano il tuo nome, ti temano come il tuo popolo Israele e sappiano che il tuo nome è stato invocato su questo tempio che io ti ho costruito” (1 Re 8.41-43).

Il pubblicano, che forse questi versi non conosceva, sapeva comunque che, se da un lato non poteva pretendere nulla, dall’altro poteva chiedere a Dio di avere pietà di lui. Con il petto che si batteva certo non formalmente e per ritualità, esternava pentimento e volontà di essere rinnovato conscio dell’impossibilità di poterlo fare coi propri mezzi. Le sue parole sono associabili a quelli del padre di quel ragazzo epilettico, “Io credo, Signore, aiuta la mia incredulità” (Matteo 9.24)

In pratica: il pubblicano avverte dentro di sé tutta la sofferenza della distanza che il peccato creava tra lui e il Creatore che non conosceva ma che sapeva esistere, ma il fariseo proprio coi contenuti della sua preghiera, la stabilisce perché non è possibile alcun dialogo con Dio senza avere presente un principio già noto agli antichi Padri, cioè “Ricòrdati che Dio è in cielo e tu sulla terra! Perciò devi pesare le tue parole” (Qeèlet 5.1): solo attraverso la consapevolezza di essere una parte insignificante, infinitesimale del creato, per giunta impura, può domandare l’accesso al trono della Grazia, al confronto con Dio, e questo vale tanto per l’Antico che per il Nuovo Patto.

Precede il testo citato, nella traduzione del Diodati, “Guarda il tuo piede – cioè fai attenzione ai tuoi percorsi – quando tu andrai nella casa di Dio – il Tempio –. Ed avvicinati per ascoltare, anziché per dare quello che danno gli stolti, cioè sacrificio: poiché essi, facendo il male, non però se ne accorgono”.

In pratica, le parole del pubblicano, profondamente sentite, rivelano che lui aveva capito molto più del fariseo, con tutta la sua scienza religiosa e tradizione.

A questo punto le parole di Gesù chiudono l’episodio: “Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato – cioè perdonato –, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà salvato”, perché “Egli umilia l’alterigia del superbo, ma soccorre chi ha gli occhi bassi” (Giobbe 22.29), oppure “L’orgoglio dell’uomo ne provoca l’umiliazione, l’umile di cuore ne ottiene onori” (Proverbi 20.23).

Perché l’umile avrà sempre una via d’uscita che gli sarà indicata, al contrario dell’orgoglioso che ne vedrà sempre e soltanto una, quella che lui stesso avrà chiuso. Amen.

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