15.03 – QUANDO VERRÀ IL REGNO DI DIO II/IV ( Luca 17.22-25)

15.03 – Quando verrà il Regno di Dio 2 (Luca 17.22,25)

 

22Disse poi ai discepoli: «Verranno giorni in cui desidererete vedere anche uno solo dei giorni del Figlio dell’uomo, ma non lo vedrete. 23Vi diranno: «Eccolo là», oppure: «Eccolo qui»; non andateci, non seguiteli. 24Perché come la folgore, guizzando, brilla da un capo all’altro del cielo, così sarà il Figlio dell’uomo nel suo giorno. 25Ma prima è necessario che egli soffra molto e venga rifiutato da questa generazione.

 

Se ai farisei furono rivolte parole indispensabili per correggere la falsa opinione che avevano sulla venuta del regno di Dio, ai discepoli disse molto di più e, come già anticipato, possiamo interpretare questo breve discorso come un’anticipazione di quello detto “escatologico” che Matteo e Marco riporteranno più nei dettagli. Non ci troviamo infatti di fronte ad un frammento evangelico, ma ad un discorso autonomo col quale Nostro Signore fornisce dei contenuti che i suoi avrebbero dovuto assimilare nell’attesa di una trattazione più ampia.

Tutta la vista spirituale, non solo loro ma di tutti i credenti, si basa sull’ascolto di concetti che magari non si comprendono immediatamente, ma restano impressi nella mente in attesa che lo Spirito faccia sì che germoglino spontaneamente o con esperienze che ne diano dimostrazione, li rendano concreti. Certo, anche sul tornare con ripetizioni e l’aggiunta di nuovi particolari o elementi che poi vadano a comporre un quadro più ampio.

I farisei, nonostante le parole di Gesù, avrebbero sicuramente continuato nella ricerca di “segni” sulla venuta del regno e del Messia, avranno detto “Eccolo qui, eccolo là” incapaci di individuare quello vero, ma non così i discepoli, che nelle varie epoche avrebbero voluto riconoscere i segni preannuncianti il ritorno del loro Signore e la fine del mondo, ma non avrebbero dovuto equivocarli, fraintendere.

Va specificato cosa si debba intendere con “i giorni del Figlio dell’uomo”, che secondo lo stesso Gesù nel verso in esame sono diversi, o “la venuta del Figlio dell’uomo”, perché istintivamente tendiamo a identificarli con il Suo Ritorno, il che è giusto in parte o, meglio, così è per noi e per i tempi che restano, ma all’epoca in cui furono pronunciate queste parole il significato era diverso perché così si indicavano altri eventi. Ad esempio, leggendo con la nostra forma mentis le parole “In verità io vi dico: vi sono alcuni tra i presenti che non moriranno, prima di aver visto venire il Figlio dell’uomo con il suo regno” (Matteo 16.28) si potrebbe concludere che Gesù non abbia detto il vero o si sia comunque sbagliato poiché per noi la Sua venuta sarà secondo Apocalisse 1.7, “Ecco, Egli viene con le nuvole e ogni occhio lo vedrà: lo vedranno anche quelli che lo trafissero, e tutte le tribù della terra faranno lamenti per lui. Sì, Amen”. L’apostolo Paolo, poi in 2 Tessalonicesi 2.8-11 annuncia un ritorno del Signore per la distruzione dell’Anticristo e l’inaugurazione del Millennio.

Si tratta di parole importanti perché, oltre a segnalare ciò che avverrà, spiegano alcune dinamiche di Dio: “Allora l’empio sarà rivelato e il Signore Gesù lo distruggerà con il soffio della sua bocca e lo annienterà con lo splendore della sua venuta. La venuta dell’empio avverrà nella potenza di Satana, con ogni specie di miracoli e segni e prodigi menzogneri e con tutte le seduzioni dell’iniquità, a danno di quelli che vanno in rovina perché non accolsero l’amore della verità per essere salvati. Dio perciò manda loro una forza di seduzione, perché essi credano alla menzogna e siano condannati tutti quelli che, invece di credere alla verità, si sono compiaciuti dell’iniquità”.

Ecco allora che tutti gli avvenimenti che caratterizzarono le reazioni di Dio all’empietà dell’uomo, dalla distruzione di Gerusalemme in poi, possano essere definiti come un “ritorno del Figlio dell’uomo”, e parlo naturalmente dei grandi eventi che la storia ha registrato e di cui troviamo traccia negli scritti dell’Antico e soprattutto del Nuovo Patto. Certo, tutto questo avrà il punto culminante e finale con la Sua apparizione personale “quando si manifesterà il Signore Gesù dal cielo, insieme agli angeli della sua potenza, con fuoco ardente, per punire quelli che non riconoscono Dio e quelli che non obbediscono al vangelo del Signore nostro Gesù. Essi saranno castigati con una rovina eterna, lontano dal volto del Signore e dalla sua gloriosa potenza. In quel giorno egli verrà per essere glorificato nei suoi santi ed essere riconosciuto mirabile da tutti quelli che avranno creduto” (2 Tessalonicesi 1.7-10).

Ma cosa significano le parole del verso 22, “Verranno giorni in cui desidererete vedere anche uno solo dei giorni del Figlio dell’uomo, ma non lo vedrete”? Il riferimento è proprio al senso di smarrimento che molti di loro avrebbero provato a fronte degli avvenimenti terribili di distruzione della santa città, che avrebbero suscitato in loro un ardente desiderio di vedere “uno solo dei giorni” di Gesù trionfante che li consolasse dal loro sentirsi inermi.

Se insisto sulla distruzione di Gerusalemme non è per ribadire un concetto già noto, ma perché fu un avvenimento atroce a tal punto che Gesù lo definì con queste parole, “…una tribolazione grande, quale non vi è mai stata dall’inizio del mondo fino ad ora, né mai più vi sarà” (Matteo 24.21). E infatti le cronache degli storici di allora, oggi dimenticate e relegate ad un ristretto numero di studiosi, ci parlano di seicentomila cadaveri buttati giù dalle mura e di 115.880 portati fuori da una sola porta della città.

E possiamo anche prendere atto delle parole di Deuteronomio 28 sulle conseguenze del non ascolto della Parola del Signore, qui Gesù Cristo: “Il signore solleverà contro di te da lontano, dalle estremità della terra, una nazione che si slancia a volo come aquila – notare che i Romani e non solo la ebbero come emblema – una nazione della quale non capirai la lingua – perché di ceppo non semita –, una nazione dall’aspetto feroce, che non avrà riguardo per il vecchio né avrà compassione del fanciullo. Mangerà il frutto del tuo bestiame e il frutto del tuo suolo, finché tu non sia distrutto e non ti lascerà alcun residuo di frumento, di mosto, di olio, dei parti delle tue vacche e dei nati delle tue pecore, finché ti avrà fatto perire. (…) Durante l’assedio e l’angoscia alla quale ti ridurrà il tuo nemico, mangerai il frutto delle tue viscere, le carni dei tuoi figli e delle tue figlie che il Signore tuo Dio ti avrà dato”. Riporto i versi da 49 a 53, ma andrebbe letto tutto il capitolo. Certo, fare i conti con Dio in giudizio è sempre stato e sarà cosa terribile.

Ecco allora che Gesù, con questo verso, vuol dire ai Suoi che, benché il Regno di Dio fosse dentro di loro e in mezzo a loro, non per questo Lui avrebbe accompagnato i discepoli in un cammino glorioso in senso umano. Certo avrebbe lasciato loro lo Spirito Santo, che non per nulla è definito “Il Consolatore”, ma le Sue manifestazioni non sarebbero state così immediate come l’averlo in carne ed ossa in mezzo a loro nel senso che, col passare anche di un secolo, l’accettazione per fede sarebbe stata sempre più impegnativa. Infatti dirà: “Ancora per poco sono con voi; voi mi cercherete ma, come ho detto ai Giudei ora lo dico anche a voi: dove vado io, voi non potete venire” (Giovanni 13.33), Sarebbe giunto un tempo in cui “chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio” (16.2).

Le altre parole di Gesù sono affrontabili sotto due prospettive, quella primaria del tempo a venire nel giro di qualche decennio, e quella futura, allora lontana nel tempo umanamente misurabile. Avrebbero detto “Eccolo là” o “Eccolo qui”: questo era il Messia tanto cercato e atteso, ma altrettanto ignorato che i Giudei crederanno di riconoscere, ma è un’espressione per indicare tutte quelle manifestazioni false di Dio portate avanti da altrettanto falsi profeti per loro scopi personali e basta pensare alle fortune economico-finanziarie costruite sulla religione per rendersene conto. Ecco allora che l’imperativo “Non andateci, non seguiteli” ha senso sia nell’una che nelle altre epoche perché i discepoli e chi segue Gesù anche oggi hanno già avuto il loro maestro e lo hanno ancora secondo la sua promessa “Io sono con voi fino alla fine del mondo”; andare a cercarlo là dove non può essere, non ha senso, è una perdita di tempo.

Le ultime parole, secondo la suddivisione che ho dato a questi studi, sono “Perché come la folgore, guizzando, brilla da un capo all’altro del cielo, così sarà il Figlio dell’uomo nel suo giorno”: è la spiegazione, il riporto alla vera realtà che vede da una parte uomini che attendono il Messia e lo cercano secondo le loro aspettative, dall’altra uomini che hanno trovato “il Figlio dell’uomo”, il loro personale Salvatore.

Anche qui, qual è il “giorno” del Figlio dell’uomo: quello imminente per i discepoli del 70 d.C., o quello finale, l’ultimo, in cui la zizzania verrà bruciata e il grano riposto? E ancora, cosa si intende per “Fine”, sono “I cieli e la terra” che “passeranno”? O la discesa della Nuova Gerusalemme, il gettare Satana e i suoi angeli “nello stagno ardente”? La risposta corretta credo che sia “tutti”, così come tutti loro dipendono dal verso 25, “Ma prima è necessario che egli soffra molto e venga rifiutato da questa generazione”, cioè quella dei Giudei che Lo avrebbe condannato in vita, nel momento in cui parlava. Sono parole simili al primo annuncio della passione, dopo quelle di Pietro che lo riconosceva come il Cristo di Dio: “Il figlio dell’uomo deve soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e risorgere il terzo giorno” (Luca 9.22), anche loro entrambi “giorni” del Figlio dell’uomo perché in essi ha fatto cose fondamentali per la salvezza del peccatore, immolandosi come “Agnello di Dio che prende su di sé il peccato del mondo” e dimostrando una volta per tutte di esserlo, visto che la resurrezione altro non è che la conferma di tutto quanto detto da Lui e dal profeti.

“È necessario che prima soffra molto” dove “molto” non è inteso come “tanto”, come potrebbe sembrare, ma nel senso di “molte cose”, come traducono altri, facendo riferimento ai tanti tipi di sofferenze che dovette affrontare. La condizione per la quale sarebbe poi arrivato il Suo Giorno, termine che abbiamo visto racchiudere tante situazioni e significati, era proprio il soffrire, il morire ed il risorgere. Amen.

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15.02 – QUANDO VERRÀ IL REGNO DI DIO I/IV Luca 17.20,21)

15.02 – Quando verrà il Regno di Dio 1/4 (Luca 17.20,21)

 

 

20I farisei gli domandarono: «Quando verrà il regno di Dio?». Egli rispose loro: «Il regno di Dio non viene in modo da attirare l’attenzione, 21e nessuno dirà: «Eccolo qui», oppure: «Eccolo là». Perché, ecco, il regno di Dio è in mezzo a voi!».

 

Entriamo ora in un ambito molto delicato per una quantità innumerevole di motivi. Luca pone qui un discorso di Gesù ai farisei (e poi ai discepoli) che troviamo in quello detto “escatologico” riportato da Matteo e Marco. L’Evangelista quindi anticipa una trattazione che, più avanti nell’ultima settimana della Passione, si farà estremamente più complessa e la fa originare da una domanda dei farisei. È assai probabile che l’argomento sia stato affrontato da Gesù due volte, una prima quando la colloca Luca e una seconda a Gerusalemme. Ora, poiché la richiesta dei farisei come vedremo era del tutto strumentale, Nostro Signore risponderà loro per il minimo indispensabile, dando qualche accenno in più ai discepoli che comunque lo avrebbero correttamente interpretato una volta sceso lo Spirito Santo.

Una premessa di basilare importanza va fatta sulle parole di Gesù sui tempi futuri in genere, che vengono spesso lette dai credenti con troppa superficialità nel senso che tendono a considerarle come se riguardassero soltanto loro e l’epoca in cui vivono, o al limite i tempi futuri; lo stesso avviene nella lettura dei profeti dell’Antico Patto, ma ci si dimentica che le parole che leggiamo sono state scritte per tutti, indipendentemente dall’epoca in cui sono vissuti per cui una parte di esse si è già adempiuta ed un’altra deve ancora accadere. Non solo, ma siccome il linguaggio dello Spirito non segue i criteri umani, spesso un significato ha valenza per più tempi e comprende più elementi, procedendo il messaggio per simboli, idee che nulla hanno di preconcetto, messaggi la cui comprensione si apre e si chiude secondo una logica che non è quella dell’ “uomo naturale” che conosciamo.

Così questo nuovo episodio si apre con una domanda dei farisei, cui nulla importava apprendere da Gesù, su un tema che a loro stava molto a cuore, cioè la venuta del regno di Dio. Questa era impossibile che avvenisse, secondo loro, senza la presenza operante di quel Messia vittorioso, risolutore dei problemi della Nazione ebraica che avrebbe eliminato l’oppressione di Roma. Il Messia che aspettavano avrebbe dovuto governare e guidare il popolo verso un’era di pace e prosperità per tutti i popoli, primo fra tutti Israele (ecco perché Gesù si ritirò sul monte quando “volevano farlo re” in Giovanni 6.15).

L’attesa del Messia si può dire che per Israele fosse (e sia) spasmodica: era venuto Giovanni il Battista che Lo aveva annunciato, ma secondo loro Colui che attendevano non si era visto e allora scrutavano e interpretavano i segni anche minimi nella storia per poterli cogliere ed essere in grado di riceverLo. E lo avevano lì, davanti a loro! Quindi la domanda “Quando verrà il regno di Dio?” fa riferimento al loro stato d’animo di ricerca – attesa (ipocrita), ma al tempo stesso alla loro ostilità nei confronti di Gesù, alla speranza di coglierlo in flagrante attraverso non tanto una risposta, ma tramite tutti i discorsi che ne sarebbero conseguiti e che non avrebbero portato da nessuna parte. Se Gesù avesse risposto “il regno di Dio è qui, è adesso, sono io che ve lo porto”, non avrebbe avuto senso perché erano tutti concetti che aveva già portato avanti e ampiamente dimostrato.

Era come se i farisei avessero detto: “Noi non vediamo alcun segno glorioso che ci faccia pensare che sia tu a portarci il regno di Dio; aspettiamo il Messia esattamente come i nostri padri, ma non sappiamo quando questo potrà realizzarsi: diccelo tu, visto che ci parli continuamente di questo”. Possiamo anche dire che quando al verso 21 e 23 troveremo la stessa espressione, “Eccolo là, oppure Eccolo qui”, il riferimento sarà (anche) all’attesa che Israele continuerà avere per quel Messia non riconosciuto ma tanto atteso e a tutte le fedi riposte in falsi cristi.

La risposta di Nostro Signore ai farisei fu lapidaria e assolutamente veritiera, mostrando loro quanto fossero distanti dalla comprensione di un concetto che invece era stato certamente accolto dai Padri da cui si vantavano di discendere: “Il regno di Dio non viene in modo da attirare l’attenzione”, primo enunciato. La traduzione non è corretta perché sarebbe “in modo da potersi osservare”, greco paratéresis che allude a uno scrutare continuo, come quello dei Magi d’Oriente che aspettavano una stella che indicasse la nascita del “Re dei giudei”, uno stare all’erta per scoprire qualcosa che altrimenti passerebbe inosservato.

Il regno di Dio quindi, secondo queste parole, è qualcosa che trascende, cioè non è riconducibile alle determinazioni dell’esperienza in quanto sussiste indipendentemente dalla realtà di cui è peraltro il presupposto. Infatti ricordiamo cosa disse Gesù a Pilato: “Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù” (Giovanni 18.36). Quindi il regno di Dio è qualcosa che sfugge alla logica umana, non si vede, geograficamente è introvabile e, se aspetti che si riveli attraverso manifestazioni eclatanti, rimarrai fermo e deluso. Il regno dei cieli non può essere “toccato con mano”, visto coi nostri occhi che il peccato un tempo ha “aperto” a realtà ben diverse e, quando ciò sarà possibile, verrà preclusa ogni salvezza a tutti coloro che non l’avranno accolto. Non si può dire “«Eccolo qui» o «Eccolo là»” cioè andando alla ricerca di un luogo più santo di altri, di manifestazioni appariscenti, di fenomeni inspiegabili per poter finalmente credere, di qualcosa che dissipi uno stato d’animo che altro non è che la ferrea volontà di rimanere ciò che si è e tenere ciò che si ha.

Perché la vera rivelazione è “ecco, il regno dei cieli è in mezzo a voi”, greco “enròs umòn” traducibile anche con “dentro di voi”, entrambe esatte perché, tra l’altro, prese assieme mostrano il progressivo sviluppo della “nuova creatura” che si realizza in Cristo. Dire che Dio è in mezzo agli uomini mi sembra eccessivo perché tra essi è stato, ma è accanto a chi lo cerca ed è proprio una volta lasciatosi trovare che viene ad essere “dentro” di loro anche secondo Apocalisse 3.20 “Ecco, io sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, cenerò con lui ed egli con me”.

Quando poi si realizza la nuova nascita, ecco che il “regno di Dio” è anche “in mezzo” perché si crea la Chiesa, la Comunità dei credenti, dei “chiamati fuori” da un mondo al quale appartenevano e che ora non riconoscono più come prima in quanto ormai privo di attrattive.

Quella che abbiamo dato, però, è una lettura che allora non era possibile, per cui ne va cercata un’altra che non credo possa essere diversa da quella che vede il regno di Dio in mezzo a “voi”, farisei, perché Gesù era presente in mezzo a loro, pronto a leggere i cuori di ognuno e a salvare e sono convinto che, se tra quelle persone ci fosse stato qualcuno che credeva in Gesù e non si manifestava come discepolo per timore, questi avrebbe compreso immediatamente ciò che voleva dire. Quelle persone vivevano “in mezzo” al regno di Dio, eppure continuavano a non vederlo e a cercarlo da un’altra parte perché la sua venuta gli era sfuggita o, più propriamente, non avevano voluto vederla.

Allora, con questi pochi dati che abbiamo raccolto, possiamo tornare indietro alla prima frase, “Il regno di Dio non viene in modo da potersi osservare”, e adattarla ai giorni nostri in cui il regno di Dio certo non occupa i pensieri della gente, anzi esiste tutta una strategia per elevare una creatura insignificante come l’uomo a signore assoluto, padrone del proprio destino, delle proprie scelte e del mondo intero. Qui il “non potersi osservare”, o il meno adatto “attirare l’attenzione” significa da un lato che, come in ogni altro tempo, il regno va cercato, e dall’altro che quando si manifesterà sarà troppo tardi perché la miopia autoinflitta dagli uomini avrà impedito loro di riconoscerlo, e qui possiamo effettuare un piccolo “sconfinamento” sul grandissimo discorso escatologico di Gesù ai suoi che darà in proposito almeno due indizi importanti. E siccome il regno implica il ritorno di Cristo, andiamo a vederli brevemente.

Il primo indizio è di carattere storico e si sarà sicuramente impresso in modo indelebile in tutti e lo troviamo pochi versi più avanti: “Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del figlio dell’uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche la venuta del Figlio dell’uomo” (Matteo 24.37,39; vv. 26,27 del nostro capitolo). Questo è un atto di accusa perché anche a quel tempo nessuno volle vedere: tutti noi sappiamo che Noè fu il costruttore dell’Arca, ma spesso ci sfugge il lavoro che quest’opera immensa richiese ed il fatto che è impossibile che sia passata inosservata dai suoi conterranei: è stato calcolato che per costruirla – occorrerà attendere la fine del 1800 per avere una “nave” pari a quelle dimensioni – ci vollero circa 40mila piante di cedro o di pini di Aleppo da prelevare in un bosco estensivo di circa 8000 ettari; ogni albero poi doveva essere abbattuto, pulito dai rami, scortecciato e sommariamente squadrato e solo per queste operazioni una persona impiega un giorno per ogni pianta; poi questi dovevano essere trasportati in un punto di raccolta che era l’area dove doveva essere costruita l’arca. In ogni albero, per permettere la giunzione, dovevano essere praticati minimo (6+6) fori in cui innestare i relativi pioli. Poi i diversi alberi dovevano essere accatastati e giuntati. Alla fine bisognava calatafare il tutto con circa 300 q.li di pece bollente; per fare il tutto circa 160 persone avrebbero dovuto lavorare per circa 400 giorni. Da notare che, secondo una tradizione ebraica, Noè ha effettivamente diffuso tra gli uomini l’avvertimento divino della distruzione ed ha piantato dei cedri quasi centoventi anni prima dell’inondazione perché i peccatori avessero il tempo di prendere coscienza del loro vivere errato e di convertirsi.

Ecco perché il 120 è il numero della pazienza di Dio.

Credo che questa non sia affatto un’interpretazione azzardata perché l’apostolo Pietro ci dice che Noè “fu un predicatore di giustizia” (IIa, 2.5). Eppure, non si accorsero di nulla.

Il secondo indizio lo possiamo trovare in 1 Tessalonicesi 5.2,3, “Infatti voi ben sapete che come un ladro di notte, così verrà il giorno del Signore. E quando si dirà: «Pace e sicurezza», allora d’improvviso li colpirà la rovina, come le doglie una donna incinta, e nessuno scamperà”. Credo che si tratti di un verso auto referenziante.

Concludendo, in questa prima parte Gesù replica ai farisei che, con quella domanda, gli fanno capire di non credere affatto in Lui. “Quando verrà il regno di Dio?” contiene infatti l’affermazione in base alla quale, visto che secondo loro non era certo Lui a portarlo, gli chiedono quando ciò sarebbe avvenuto. Oppure, peggio ancora, la loro richiesta era quella di “muoversi ad agire” perché, se era Lui quello che avrebbe portato il regno, allora beh, non lo aveva ancora fatto. Se teniamo buona questa lettura, una delle tante possibili, la risposta calma di Nostro Signore assume ancora più valore: “È in mezzo a voi”, o “è dentro di voi”; se nonostante tutta la vostra scienza religiosa non lo sapete trovare, è solo colpa vostra.

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15.01 – I DIECI LEBBROSI (Luca 17.11-19)

15.01 – I dieci lebbrosi (Luca 17.11-19)

 

11Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samaria e la Galilea. 12Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza 13e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». 14Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati. 15Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, 16e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano. 17Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? 18Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». 19E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».

 

Il verso 11 è utilizzato da Luca per inquadrare il periodo dedicato al viaggio di Gesù verso Gerusalemme, città dalla quale si era allontanato, come abbiamo visto, dopo gli eventi riportati da Giovanni 10 alla festa della Dedicazione. Ricordiamo che lo stesso evangelista, ai versi 40-42 , scrive che Gesù “ritornò quindi nuovamente al di là del Giordano, nel luogo dove prima Giovanni battezzava, e qui rimase. Molti andarono da lui e dicevano: «Giovanni non ha compiuto nessun segno, ma tutto quello che Giovanni ha detto di costui era vero». E in quel luogo molti credettero in lui”. Qui, con la cronaca di Luca, siamo già ufficialmente nell’ultimo viaggio verso la città in cui Nostro Signore avrebbe dovuto affrontare il Suo Sacrificio. Questo “attraversava la Samaria e la Galilea” è più probabile che in realtà alluda ad un transitare attraverso i confini delle due regioni per poi portarsi in Perea in cui era Betania dove risusciterà Lazzaro.

Abbiamo quindi un episodio particolare non solo per gli insegnamenti contenuti, ma anche per il passare di Gesù per un villaggio di cui non ci è detto il nome, alle cui porte stavano dieci lebbrosi, persone che abbiamo già affrontato quanto a significato della malattia e al tipo di vita che conducevano, essenzialmente condannati alla totale emarginazione: venivano cacciati dalla loro famiglia e dal villaggio, per il loro sostentamento dipendevano unicamente dalla compassione di chi portava loro qualcosa da mangiare, tenendosi accuratamente a distanza.

Il lebbroso doveva portare indumenti stracciati, tenere il capo scoperto, il labbro superiore velato e doveva gridare, quando una o più persone si avvicinavano a lui, “L’immondo! L’immondo!”, poi “…starà solo finché durerà in lui il male – quindi fino a quando non sarà guarito da Dio con successiva attestazione del sacerdote –; è impuro, se ne starà solo, abiterà fuori dell’accampamento” (Levitico 13.46). Lo stare “solo”, riferito al fatto che nessuna persona sana poteva avvicinarsi a lui, non impediva che il lebbroso potesse accompagnarsi ad altri come lui ed è quello che si verifica nel nostro episodio in cui abbiamo un gruppo composto da nove giudei e un samaritano, segno che la loro triste condizione aveva annullato la tradizionale rivalità e disprezzo che intercorreva fra i due popoli.

Cerchiamo ora di esaminare la scena: Gesù e i discepoli, non sappiamo quanti, sono in avvicinamento all’ignoto villaggio e, giungendo nei pressi ma non dentro, incontrano i lebbrosi che si fermano “a distanza”, cioè rispettosi della Legge, dopo averlo riconosciuto, e comunicano per quanto possono “dicendo ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». Mi sono chiesto a che distanza potessero trovarsi fra loro i due gruppi: il lebbroso doveva stare sempre controvento rispetto ad un eventuale incrociante, ma credo fosse la prudenza a regolarla, posto che tra il viandante occasionale che li incontrava e loro raramente potevano esservi dialoghi.

Qui, la richiesta dei dieci fu ridotta al minimo; dimostrano di conoscerlo, lo chiamano “maestro” e lo pregano di immedesimarsi in loro, indice del fatto che, onestamente, non imputavano la condizione in cui versavano a Dio, ma alle loro colpe: l’isolamento sociale e la sofferenza che provavano nel corpo e nell’anima era solo una parte di ciò che sperimentavano quotidianamente perché cosa significasse davvero l’essere estromessi dalla comunità del villaggio lo leggiamo in Numeri 5.1 e segg.: “…li allontanerete dall’accampamento, così non renderanno impuro il loro accampamento, dove io abito tra loro”: capiamo? L’Iddio di Israele abitava con gli altri, i sani, ma non con i lebbrosi. All’isolamento sociale, quindi, si accompagnava anche quello dell’anima, un esilio perché impuri e più peccatori degli altri.

E Gesù, l’Emmanuele, il “Dio con noi”, dà loro una risposta immediata, diversa dalle solite perché non dice, ad esempio, “Lo voglio, siate guariti”, ma ordina loro di andare a presentarsi ai sacerdoti, i soli che potevano legalmente dichiarare la guarigione in un caso del genere e quindi la riammissione della persona nella società. E il controllo da parte dei sacerdoti doveva essere ripetuto per tre volte a distanza di tempo, non è che l’assenza di macchie autorizzava a un ingresso nella congregazione. L’andare dai sacerdoti, quindi, era quanto Gesù richiedeva da loro, che così fecero ponendo quindi la loro fede in quell’ordine ricevuto. “Andate a presentarvi ai sacerdoti”, non chiese nient’altro e dobbiamo prestare attenzione al fatto che Gesù disse ciò non “appena li vide” come troviamo tradotto, ma “dopo averli visti”.

Il “dopo” ci dice che intercorse uno spazio di tempo, Nostro Signore non fece qualcosa di avventato o perché essendo misericordioso voleva far del bene quanto più possibile, no: in realtà li valutò. Considerò la loro sofferenza, il loro gridare, gli anni passati nell’esclusione, nell’essere ignorati, nel constatare la loro malattia che si aggravava senza possibilità di un riscatto, nel vedere il loro corpo disfarsi poco a poco, cadere letteralmente a pezzi. Il “vedere” di Gesù non comporta mai indifferenza come nella parabola del “buon samaritano”, unico a “vedere” e a non “passare oltre” come avevano fatto tutti coloro che lo avevano preceduto nel transito.

Gesù guarda e cerca sempre qualcuno che lo cerchi, o che lo riconosca e, naturalmente, gridi a lui, come in questo caso. E quei dieci lebbrosi sapevano che Lui era l’unico al quale potevano rivolgersi per essere guariti; dagli altri uomini, al limite, potevano avere un gesto di riluttante consegna di qualcosa da mangiare per non morire di fame, ma già morti dentro, come sapevano i quattro lebbrosi di 2 Re 7.3,4 per i quali, fra il vivere e il morire, non intercorreva differenza alcuna: “Ora c’erano quattro lebbrosi sulla soglia della porta – di Samaria –. Essi dicevano fra di loro: «Perché stiamo seduti qui ad aspettare le morte? Se decidiamo di andare in città, in città c’è la carestia e vi moriremo. Se stiamo qui, moriremo. Ora, su, passiamo all’accampamento degli Aramei: se ci lasceranno in vita, vivremo; se ci faranno morire, moriremo».

“Andate a presentarvi ai sacerdoti” era quanto veniva richiesto a queste persone che infatti si incamminarono subito, senza chiedersi come mai non li aveva voluti guarire subito, anche se sapevano benissimo che senza una dichiarazione sacerdotale era impossibile venire riammessi in società. E allora andarono, ma anche qui va prestata attenzione perché non è detto che in quel villaggio il sacerdote vi fosse e in ogni caso si dovettero separare perché il lebbroso samaritano avrebbe dovuto venire dichiarato guarito dal sacerdote del suo rito e non da quello ebraico, per quanto sia i samaritani che gli ebrei si rifacessero alla stessa Legge di Mosè.

Ancora mal tradotto è “Mentre essi andarono” che lascia supporre una guarigione progressiva mentre il testo più propriamente ha “Come essi andarono, furono purificati”, cioè non appena si misero in cammino, cioè non appena manifestarono la loro fede ubbidendo all’ordine ricevuto: Gesù aveva detto così? Tanto bastava. Non fecero quindi come il generale Naaman, che quando Eliseo gli ordinò, per guarire, di bagnarsi sette volte nel Giordano, disse “Ecco, io pensavo: «Certo verrà fuori e, stando in piedi, invocherà il nome del Signore, suo Dio, agiterà la sua mano verso la parte malata e toglierà la lebbra». Forse l’Abanà e il Parpar, fiumi di Damasco, non sono migliori di tutte le acque d’Israele? Non potrei bagnarmi in quelli per purificarmi?»” (2 Re 5.11,12), ma ubbidirono e andarono.

Però il parallelo con Naaman rimane nella sua parte finale, quando, dopo avere obbedito all’ordine di Eliseo, guarì ed è scritto che “il suo corpo ridivenne come il corpo di un ragazzo, egli era purificato”, quindi non solo la lebbra andò via, ma la pelle non era più quella di prima; non sappiamo quanti anni avesse quell’uomo, ma era “comandante dell’esercito del re di Aram, personaggio autorevole presso il suo signore e stimato” (v.1) e certo non aveva la pelle di un ragazzo. La guarigione di Gesù, quindi, supererò ogni aspettativa.

Si verifica però un fatto nuovo e cioè, vistisi guariti ma bisognosi di un attestato, i nove ebrei accelerarono ancora di più il passo verso i sacerdoti, ma il samaritano, “vedendosi guarito” pensò immediatamente a ringraziare Colui che lo aveva reso così. In questi uomini, tutti con un passato identico di vita (ma di peccato diverso), accomunati dalla stessa guarigione e dallo stesso guaritore, si crea immediatamente una priorità: nove vogliono tornare al più presto alla loro casa e ai loro parenti, rioccupare il loro posto nella società, ma uno pensa in modo diverso: tutto ciò che gli altri desideravano si compisse al più presto, per lui poteva attendere, sarebbe arrivato a suo tempo, la priorità era esprimere la sua riconoscenza all’Unico che avrebbe potuto guarirlo, cioè Dio nella persona del Figlio. Per cui abbiamo letto che “tornò indietro glorificando Dio a gran voce”, modalità da non dare per scontata: non andò gridando – faccio per dire – “che bello, sono guarito”, ma “Dio mi ha guarito”, come i tanti venuti prima di lui.

Possiamo ricordare in proposito Salmo 30.12,13, “Hai mutato il mio lamento in danza, mi hai tolto l’abito di sacco, mi hai rivestito di gioia, perché canti il mio cuore, senza tacere; Signore, mio Dio, ti renderò grazie per sempre”, oppure 103.2,4: “Benedici il Signore, anima mia, non dimenticare tutti i suoi benefici – perché si possono dimenticare –. Egli perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue infermità, salva dalla fossa la tua vita, ti circonda di bontà e misericordia”.

Ecco, mentre i nove lebbrosi provarono la guarigione, il decimo provò la gioia della lode, che non a tutti è data. Quel samaritano conobbe da subito, spontaneamente, la priorità del ringraziamento, era per lui impossibile tacere. In pratica i nove, vedendosi guariti, non pensarono al ringraziamento perché, secondo la loro ottica, Gesù li aveva ascoltati e infondo aveva fatto ciò per cui era venuto per cui si reimpossessarono immediatamente dei loro spazi esattamente come prima della malattia. Per loro nulla era cambiato e poco importava che fossero stati posti in una prospettiva che fino all’esaudimento della loro preghiera era assolutamente impensabile. La stessa cosa la fanno anche oggi i cristiani cosiddetti “nominali”, che quando hanno bisogno pregano, magari partecipano a funzioni religiose e poi, una volta secondo loro ottenuto quanto richiesto, tornano imperturbabili alla vita di prima.

Anche il modo del samaritano è importante, cioè gli si getta ai piedi, in posizione subordinata, sottolineo adorante a riconoscergli chi fosse e la sua gratitudine che troviamo sicuramente espressa nei due Salmi citati in cui ciò che emerge è il principio in base al quale Dio – e non potrebbe essere altrimenti – è il tutto: “perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue infermità”, nessuna esclusa e proprio perdonando le colpe guarisce le infermità che sono ad essa conseguenti, per i lebbrosi la loro malattia, per noi la nostra miopia, egoismo, le nostre antitesi, sopraffazioni, la guerra dell’uno nei confronti dell’altro che, non conoscendo e quindi diffidando del proprio simile, trova nella difesa, violenta in un modo o in un altro, l’ unica soluzione.

Nello studio di un medico un po’ particolare che ho conosciuto c’è un cartello con su scritto “Dio c’è, ma non sei tu. Rilàssati”, ma il verbo andrebbe sostituito con “lasciati amare”, molto più impegnativo perché richiede fondamentalmente l’abbandono, quello che è più difficile da realizzare. Ci fidiamo di Dio? E se sì, fino a che punto, ammesso che ci sia? Dandoci queste risposte, credo che possiamo avere la temperatura dell’amore e della fede che abbiamo in Lui e per Lui.

Concludendo il nostro episodio, Gesù aveva guarito dieci lebbrosi, numero che ci collega ai comandamenti, che qui presumo infranti, tanto quelli verso Dio che quelli verso l’uomo, per cui possiamo dire che aveva perdonato a tutto tondo, in modo perfetto, come diversamente non avrebbe potuto fare. Eppure, uno solo era tornato, per giunta straniero per cui uno che avrebbe potuto benissimo evitare di farlo. Eppure, quell’uno solo fu salvato, a differenza degli altri che furono soltanto guariti e che, contrariamente alle loro aspettative, si sarebbero trovati con il loro problema fondamentale irrisolto. Amen.

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14.24 – QUATTRO DISCORSI DI GESÙ IV: I SERVI INUTILI (Luca 17.7-10)

14.24 – Discorsi 4: servi inutili (Luca 17.7-10)

 

7Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: «Vieni subito e mettiti a tavola»? 8Non gli dirà piuttosto: «Prepara da mangiare, stringiti le vesti ai fianchi e servimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu»? 9Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? 10Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: «Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare»».

 

Sono tanti gli interrogativi che un credente si pone dopo aver letto l’insegnamento conclusivo di Gesù, che finora ha toccato come temi gli scandali provocati, una colpa eventualmente commessa da un fratello e il perdóno. Ebbene i versi che abbiamo appena letto forniscono agli apostoli un importante aspetto della dottrina cristiana che da un lato vede la persona come un salvato, amato da Dio al punto da dare in dono il Figlio “affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna” (Giovanni 3.16), non più straniero né avventizio, “ma concittadino dei santi e membro della famiglia di Dio” (Efesi 2.19), eppure dall’altro un semplice servo, certo non trattato in modo umiliante, ma comunque una persona che non può aspettarsi la gratitudine del padrone perché, a fine compito, non ha svolto altro che il proprio dovere.

Sono convinto che, se qui manca del tutto l’onore che il padrone conferisce in Luca 12.37 (“Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli”) è solo perché il cristiano, per quanto faccia, studi, aiuti il suo prossimo ed evangelizzi, deve guardarsi bene dal sentirsi importante o presumere per questo di avere una corsia preferenziale di ascolto o considerazione da parte di Dio al di là di quanto promesso. Si tratta di un atteggiamento che può portare ad importanti e dannose manifestazioni di orgoglio che contraddirebbero l’esortazione più volte prodotta all’attenzione dei discepoli in base alla quale, se uno vuole essere maggiore degli altri, deve essere “l’ultimo di tutti e il servo di tutti” (Marco 8.35).

Il fatto di non avere meriti, allora, viene ancora una volta confermato poiché non siamo salvati per le nostre opere, affinché nessuno si insuperbisca altrimenti la Grazia non sarebbe più tale; piuttosto siamo stati “comprati a caro prezzo” (1 Corinti 6,20; 7.23) e come tali siamo chiamati a vivere per cui, quando lavoriamo per Lui, non facciamo altro che dargli ciò che è Suo, noi e la nostra fatica. È interessante che per la parola “servo” il greco ha due sostantivi diversi, uno per indicare quello salariato e l’altro, doulos, per quello comprato ed è quest’ultima la parola impiegata nei versi oggetto di attenzione. Una persona comprata al pari di un bue, una pecora o un asino perché adatta a un certo tipo di lavoro o produzione, nient’altro, per lo meno in questo contesto anche se non va dimenticato che si tratta di un servitore nel senso giudaico e non presso altri popoli, che non aveva solo doveri, ma anche diritti e uno stato sociale, che poteva essere riscattato o decidere di rimanere a servizio.

Molti, in proposito, gridano alla contraddizione, come in tanti altri punti della Scrittura in cui pare vi sia contrasto ma si dimenticano che qui, come in altri punti, a variare è il contesto e quindi la considerazione di Dio o, meglio, quella che deve avere di sé l’uomo che per Lui opera. È la negazione dell’orgoglio, come fu per Davide quando, nella sua preghiera di ringraziamento alla presenza di tutta l’assemblea, disse “Chi sono io e chi è il mio popolo, per essere in grado di offrirti tutto questo spontaneamente? Tutto proviene da te: noi, dopo aver ricevuto dalla tua mano, te l’abbiamo dato. Noi siamo forestieri davanti a te e ospiti come tutti i nostri padri – vedi l’aggiornamento in Efesi che abbiamo citato all’inizio –. Come un’ombra sono i nostri giorni sulla terra e non c’è speranza – al di fuori di te –. Signore, nostro Dio, quanto noi abbiamo preparato per costruire una casa al tuo santo nome proviene da te ed è tutto tuo” (1 Cronache 29.14-16).

Ebbene da queste parole vediamo che manca totalmente qualsiasi dichiarazione di merito presunto ed è da sottolineare che in questa stessa preghiera Davide aveva dichiarato “Da te provengono la ricchezza e la gloria, tu domini tutto; nella tua mano c’è forza e potenza, con la tua mano dai a tutti ricchezza e potere” (v.12), quindi ancora una volta viene dichiarato che, al di fuori di Lui, nulla ha senso e nulla esiste. Davide non si presenta davanti a Dio come qualcuno che ha raggiunto degli obiettivi o ha risolto problemi, ma come una persona che semplicemente ha avuto dal suo Signore in dono degli elementi per i quali non ha fatto nulla per conquistarli e quindi non ha alcun merito. Tutto questo nonostante la sua storia, guardando a tutto quanto riuscì a compiere in difesa del Nome e del suo popolo. Se umanamente Davide può avere avuto dei meriti, spiritualmente non ne ha in quanto si è solo prestato per un’opera, un lavoro che, per quanto importante, non stava a lui portare avanti per poi gloriarsene.

 

Altri versi istruttivi li troviamo nel libro di Giobbe, per quanto vadano lette con prudenza soprattutto le dichiarazioni dei tre suoi “amici” Elifaz, Bildad e Sofar perché riferiscono la saggezza del tempo, ma non adatta alla situazione che quell’uomo viveva: “Può forse l’uomo giovare a Dio, dato che il saggio può giovare solo a se stesso? Quale interesse ne viene all’Onnipotente che tu sia giusto, o che vantaggio ha, se tieni una condotta integra?” (22.2,3). Qui viene dato lo stesso concetto espresso da Gesù: se è vero che Dio ha bisogno dell’uomo perché l’amore non può che espandersi per cui ha creato Adamo e tratto da lui Eva, è altrettanto vero che i suoi progetti vanno avanti comunque e troverà sempre chi sarà disposto a farsi carico di cooperare a realizzarli, come insegna la storia del popolo di Israele che, a un certo punto, si ritrovò escluso dalla funzione di testimone per cui fu detto “Il regno di Dio vi sarà tolto e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare”. La frase “dato che il saggio può giovare solo a se stesso” intende sottolineare l’interesse che ha l’uomo a farsi servo di Dio e, se ciò non avviene, va solo a suo danno. Infatti “Il mio Signore sei tu, solo in te è il mio bene” (Salmo 16,2) nel senso che, nel rapporto tra Dio e l’uomo, è il secondo ad avvantaggiarsene un po’ come quando andiamo ad abbeverarci a una fonte. L’unica cosa che YHWH fa, è chiamare a sé in quanto amore, ma la scelta se andare a Lui o no appartiene all’essere umano. E chi risponde può essere solo ed unicamente il diretto interpellato, come fu per tutti i credenti antichi e moderni il cui nome sappiamo che è “scritto fin dalla fondazione del mondo”.

Altro verso di interesse lo troviamo in 35.7 dello stesso libro: “Se pecchi, cosa gli fai? Se aumenti i tuoi delitti, che danno gli arrechi? Se tu sei giusto, che cosa gli dai o che cosa riceve dalla tua mano?”; l’uomo non ha modo migliore per farsi del male se non quello di ignorare la voce di Dio e, se “giusto” non fa altro che ricevere una retribuzione positiva come fu per tutti coloro che ci hanno preceduto e per quanti sono in vita su questa terra continuando nel loro cammino davanti a Lui. Uno dei più grandi equivoci è che l’essere umano sia debitore nei Suoi confronti: “Ora, Israele, che cosa ti chiede il Signore, tuo Dio, se non che tu tema il Signore, tuo Dio, che tu cammini per tutte le sue vie, che tu lo ami, che tu serva il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore e con tutta l’anima, che tu osservi i comandi del Signore e le sue leggi, che oggi ti do per il tuo bene?” (Deuteronomio 10.13).

Notare, “per il tuo bene” e non “per il mio”, perché tutte le iniziative prese da Dio sono state sempre gratuite e per il bene della Sua creatura: gratuitamente, dopo averla creata, l’ha posta in Eden ed altrettanto gratuitamente ha poi dato inizio a tutto un progetto per il suo pieno recupero passando attraverso le dispensazioni. Fu proprio quella della Legge la più impegnativa sotto il profilo dell’adempiere, del fare e del non fare, prima che arrivasse quella della Grazia che, nonostante la sua leggerezza, è quella che fa delle scremature ancora maggiori.

Ed è l’uomo che a un certo punto, nonostante il peccato, scegliendo di appartenergli e servirgli, determina il proprio stato assicurandosi o meno un futuro tante volte descritto da Gesù con le parabole in cui, parlando di “servi”, annuncia comunque una retribuzione futura, una prospettiva in cui il “servo” non è mai trattato con asprezza, ma con libertà e amore unici. Non solo, ma chi crede ed è salvato, è chiamato anche “fratello” e “amico” di Cristo ed ecco perché lo stato di servitù descritto con le parole oggetto di meditazione vanno tenute presente in relazione ad un aspetto, cioè uno, ma non unico.

Ed arriviamo così, dopo gli esempi che Gesù fa della giornata lavorativa del servo, che solo dopo aver svolto tutti i suoi compiti potrà sedersi a tavola e magiare e bere, alla conclusione personale cui dobbiamo giungere: “Così anche voi, quando avrete fatto ciò che vi è stato ordinato, dite: «Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”.

Un aforisma che mi ha colpito su questo tema diceva: “Guai all’uomo che Dio chiama inutile, ma felice colui che così chiama se stesso”, e credo che poco si possa aggiungere; ricordiamo la domanda dell’apostolo Paolo in Romani 11.34,35: “Chi ha mai conosciuto il pensiero del Signore, o chi mai è stato suo consigliere? O chi gli ha dato qualcosa per primo tanto da riceverne il contraccambio?”. Piuttosto, dato che per primi siamo noi ad avere ricevuto, proseguiamo il nostro percorso sapendo che il “contraccambio” ci verrà dato al momento opportuno. Da qui l’umiltà, il non pretendere, l’acquisizione della vera coscienza di ciò che siamo realmente.

C’è poi una domanda che sempre Paolo rivolge ad alcuni della Chiesa di Corinto che si vantavano di essere personaggi di chissà quale importanza spirituale: “Chi dunque ti dà questo privilegio? Che cosa possiedi, che tu non l’abbia ricevuto? – quindi se hai un dono non puoi gloriartene perché lo hai, appunto, ricevuto – E se l’hai ricevuto, perché te ne vanti come se non l’avessi ricevuto – cioè come se lo avessi conquistato per tuoi meriti, o con le tue forze –?” (1a, 4.7).  Poi, circa l’annunciare il Vangelo, lui stesso dichiarerà che “non è un vanto, ma una necessità che mi si impone. (…) Se lo faccio di mia iniziativa, ho diritto alla ricompensa; ma se non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato affidato” (9.16,17).

Ecco, così parlò un uomo che ricevette tante rivelazioni da Dio di cui una parte riversò nelle sue lettere e nella predicazione personale. Credo che Paolo, per la colossale opera da lui compiuta, i viaggi, le sofferenze e la salute malferma che ne derivò, sicuramente possa annoverarsi tra i più grandi collaboratori di Dio, ma se può ricevere tutta la nostra ammirazione, in realtà fu un servo che non fece altro che restare fedele agli ordini ricevuti. E così dev’essere per noi, che dobbiamo rimanere nel piccolo orto che il Signore ci ha incaricato di coltivare. Perché, come tutti, non abbiamo alternative. Amen.

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14.23 – QUATTRO DISCORSI DI GESÙ III: FEDE E UMILTÀ (Luca 17.5,6)

14.23 – Discorsi 3: fede e umiltà (Luca 17.5,6)

 

 

5Gli apostoli dissero al Signore: 6«Accresci in noi la fede!». Il Signore rispose: 6«Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: «Sràdicati e vai a piantarti nel mare», ed esso vi obbedirebbe.

 

Sembra strano, eppure, almeno per me, il verso cinque rappresenta un problema perché le ipotesi sono due: o Luca qui riferisce un insegnamento di Gesù avvenuto in un secondo momento rispetto al contesto fin qui rappresentato, oppure, soprattutto tenendo conto di altre traduzioni che riportano “Allora gli apostoli dissero al Signore”, la loro richiesta “Accresci in noi la fede” proveniva dalla consapevolezza di quanto fossero distanti dal comprendere le dinamiche spirituali che venivano loro proposte. Ed effettivamente lo erano, perché lo Spirito Santo non era ancora sceso su di loro. Ancora era possibile che fossero intimoriti dal discorso sugli scandali ed avessero capito che, senza restare uniti a Lui, avrebbero potuto commetterne. ChiedendoGli di accrescere la fede in loro, allora, dimostrano di aver capito che possederla pienamente era il solo modo per camminare correttamente in Lui. Ricordiamo le parole “Ora senza fede è impossibile piacergli; poiché chi si accosta a Dio deve credere che egli è, e che ricompensa tutti quelli che lo cercano” (Ebrei 11.6). Importante in proposito quanto scrive un fratello: “La religione non può piacere a Dio perché è essenzialmente un sistema sviluppato da Satana per contrastare la verità”. Essa infatti non possiede fede, ma credenze indimostrabili se non tramite manifestazioni assolutamente umane, o miracoli costruiti artificiosamente, o ancora preparati dall’Avversario che è in grado di farne. Infatti “Anche Satana si traveste da angelo di luce. Non è dunque cosa eccezionale se anche i suoi servitori si travestono da servitori di giustizia; la loro fine sarà secondo le loro opere” (2 corinti 11.14,15). Ed è cosa che possiamo notare quotidianamente. Anche il Cristianesimo, quindi, se viene inteso come pratiche, riti, credenze e dogmi cui aderire incondizionatamente, può diventare religione e dar luogo a profonde inconcludenze e superstizioni.

La fede è qualcosa che viene provata, come fu per Abrahamo di cui è detto “Egli non vacillò nella fede, pur vedendo già come morto il proprio corpo – aveva circa cento anni – e morto il seno di Sara. Di fronte alla promessa di Dio non esitò per incredulità, ma si rafforzò nella fede e diede gloria a Dio” (Romani 4,19,20) e sappiamo che fu proprio la fede a giustificarlo davanti al signore: “Abrahamo credette a Dio e ciò gli fu imputato a giustizia” (v.4).

Ora gli apostoli – interessante notare che non furono i discepoli – capiscono che non avrebbero mai potuto, senza fede, mettere in atto compiti tanto contrari all’istinto umano come il perdonare senza una forza-dote interiore che sapevano di avere in misura infinitesimale, anzi, fu proprio il concetto del perdóno che li mise in imbarazzo, proprio loro che erano stati inviati da Gesù che “diede loro potere sugli spiriti impuri per scacciarli e guarire ogni infermità” (Matteo 10.1). Pensiamo: gli Apostoli che, tornando dalla loro missione, avevano portato al Maestro un rapporto entusiasta delle loro attività – ricordiamo le parole “Signore, anche i demoni si sottomettono a noi nel tuo nome” (Luca 10.17) ma che in un caso fallirono perché non sapevano che “questa razza di demòni non esce se non mediante preghiera e digiuno” (Matteo 17.21) – sanno di non avere fede sufficiente per arrivare a gestire il perdóno e chiedono aiuto. Piccolo inciso sul verso appena ricordato: la parola “digiuno” è frutto dell’aggiunta probabilmente di un monaco copista che volle inserirla per rafforzare una sua credenza.

Ecco allora che la risposta di Gesù che andiamo ad analizzare, “Se aveste fede quanto un granello di senape…” non è un rimprovero a significare che ne erano sprovvisti o una frase tesa ad umiliarli, ma è piuttosto un’affermazione come quella che troviamo in Marco 9.23, “Tutto è possibile a chi crede”. Sottolineiamo che queste parole furono rivolte al padre di quel ragazzino epilettico che i discepoli non avevano potuto guarire, il quale rispose “Credo; aiuta la mia incredulità”: una disperata richiesta di intervento, l’ennesima che un uomo consapevole dei propri limiti gli rivolse e quel poco di fede che aveva fu sufficiente a far sì che il figlio fosse guarito.

Come fosse la fede degli apostoli la vediamo sempre nello stesso episodio: “Allora i discepoli – presumo i dodici stante l’incarico ricevuto – si avvicinarono a Gesù in disparte e gli chiesero: «Perché non siamo riusciti a scacciarlo?». Ed egli rispose loro: «Per la vostra poca fede. In verità io vi dico: se avrete fede pari a un granello di senape, direte a questo monte: «Spòstati da qui a là» ed esso si sposterà, e nulla vi sarà impossibile” (Matteo 17.19,20). La fede quindi c’era, ma era “poca”, non sufficiente in quel caso perché legata al quotidiano, al contingente, distratta dal vivere camminando sulla terra, guardando l’orizzontale, tutti elementi che contaminano e spesso sfiniscono, prostrano. Ma abbiamo letto “nulla vi sarà impossibile”, naturalmente sotto la prospettiva spirituale, ai risultati. E qui pensiamo a tutte le manifestazioni dello Spirito narrate nel libro degli Atti.

Vediamo ora un po’ più da vicino cosa si intende per “fede” perché darne una definizione è impossibile stante le due sfaccettature. L’apostolo Paolo in Ebrei 11.1 scrive che è “certezza delle cose che si sperano, dimostrazione di cose che non si vedono” e per sviluppare queste parole non basterebbero dei libri. Possiamo dire che la fede nasce in una persona e si sviluppa col tempo a patto di coltivarla e di vivere secondo la Parola, ma la sua base, risolto il problema della ricerca di Dio in quanto trovato, consiste nella certezza – non forzata né forzosa – che sia solo Gesù, il Cristo, a risolvere il problema dell’essere umano riguardo alla propria destinazione finale. Ma poiché vita futura e presente formano un tutt’uno, è certezza di soluzione di qualunque situazione nella quale possiamo venirci a trovare. Non si può scrivere un manuale sulla fede: è consapevolezza, attesa, certezza, preghiera, realizzazione spirituale, è cammino fatta di cadute e di risollevamenti.

Questa, il possesso della fede, fu la caratteristica che permise ai contemporanei di Gesù di venire da lui ascoltati e guariti. Egli infatti non risolse i problemi umani di chiunque, ma solo di quanti si accostavano a lui riconoscendoLo come loro unica fonte di salvezza. Pensiamo al tristissimo commento che fanno gli evangelisti in merito alla visita a Nazareth, quando scrivono che, a parte la guarigione di poche persone malate, non poté fare miracoli “per la loro incredulità”.

Vediamo però la fede operante nel centurione di Capernaum, quando Gesù disse “In verità io vi dico, non ho trovato nessuno in Israele con una fede così grande” (Matteo 8.10), nel paralitico e nei suoi amici che, pur di avere guarigione, giunsero a produrre un’apertura nel tetto della casa e in davvero molti altri casi.

Questa è la fede che potrebbe definirsi “di primo grado”, quella che serve alla persona per avere la cittadinanza celeste, ma poi arriva quella operante, che Gesù chiama in causa nel nostro verso, la stessa che, venendo a mancare, fece sprofondare Pietro nell’acqua: dalla lettura dell’episodio vediamo che fino a quanto in lui rimasero impresse le parole del suo Maestro, “Vieni”, ed accoglierle fu per lui naturale, non successe nulla di spiacevole; quando però vide “che il vento era forte, s’impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: «Signore, salvami!». E subito Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?»” ( Matteo 14.30,31).

Non oso pensare a quanto Pietro si ritrovò umiliato, anche per il tono di voce e soprattutto lo sguardo di Gesù: aveva iniziato nel migliore dei modi, ma poi la propria umanità non poté fare a meno di emergere. E noi facciamo la stessa cosa, vediamo “che il vento” è “forte”, cioè prendiamo atto che tutti gli elementi che ci circondano creano le premesse per un’impossibilità che si verifichi un fatto del genere. Eppure saremmo in grado di camminare sull’acqua, di spostare le montagne, di dire “a questo gelso – mal tradotto, poiché era un sicomoro – «Sràdicati e vai a piantarti in mare», ed esso vi ubbidirà”.

Ecco la fede cui Nostro Signore faceva riferimento, quella pratica come conseguenza di un mandato ricevuto. Credo che qui Gesù parli agli apostoli, ai portatori del Vangelo e non ai credenti indistintamente, come possiamo prendere atto da Giovanni 14.12: “In verità in verità io vi dico: anche chi crede in me, compirà le opere che io compio e ne farà di più grandi, perché io vado al Padre”. Il riferimento alle “opere più grandi” non è riferito ai miracoli (che comunque ci furono), ma alla predicazione, alla conversione dei molti che sarebbero venuti il cui numero sicuramente oltrepassa quello di quanti credettero alla predicazione di Nostro Signore mentre era nel corpo.

La frase sullo spostare le montagne e sul sicomoro piantato nel mare è allora non tanto un rimprovero come ve ne furono molti sulla poca fede, ma un invito a valutare noi stessi su quanto realmente la nostra vita terrena influisca negativamente su quella spirituale: le interferenze come quelle che distolsero Pietro dal camminare sull’acqua non sono costituite soltanto dalla presa d’atto che c’è “vento”, ma da tutto ciò che è contaminante provenendo dalla terra e distrae dall’esercizio libero della fede che, altrimenti, non avrebbe ostacoli. Non so spiegarmi diversamente il concetto di “fede” qui utilizzato perché tanto i dodici quanto i discepoli la dimostravano quotidianamente avendo rinunciato a starsene nella quiete delle loro case e al loro tranquillo inserimento nella società del tempo: chi glielo faceva fare, se non l’avessero avuta?

Ecco allora che con gli esempi fatti Gesù intende passare ad un altro livello, quello che porta – vista la distanza con cui pratichiamo non tanto la “fede”, ma quella “fede” – al concetto del “niente è impossibile a chi crede”. La fede non ha e non può avere limiti salvo quelli che noi le imponiamo con la nostra carnalità, e questo lo vedo purtroppo tutti i giorni, naturalmente guardando a me stesso e alla mia immaturità. Ecco perché sgorgò la preghiera “Accresci in noi la fede”! Di fronte alle manifestazioni dello Spirito, i discepoli si trovarono distanti, anche molto. La “poca fede” non solo ci impedisce di trascendere, di non avere limiti, ma anche di fraintendere in modo colossale quel Gesù sempre presente che a volte riteniamo dorma sulla nostra barca col mare in tempesta. Anche lì, quando succede, è perché guardiamo verso il basso ed il fatto stesso che a volte sia così ed altre, nella stessa situazione, avvenga l’esatto contrario è proprio dovuto alla nostra carne che a volte è mortificata ed altre vorrebbe avere il sopravvento.

Ecco perché, nella solitudine apparente del nostro stare davanti a Dio, dobbiamo fare la stessa preghiera che Gli rivolsero i Suoi, “Accresci in noi la fede!”; sapevano che solo lui lo poteva fare e chissà se si ricordarono di quanto aveva detto loro un giorno: “Chi tra di voi al figlio che gli chiede un pane darà una pietra? O se gli chiede un pesce, darà una serpe? Se voi dunque che siete cattivi sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a coloro che gliele domandano!” (Matteo 7.9,10). Amen.

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