14.22 – Quattro discorsi di Gesù: II, il perdono (Luca 17.3-4)
“Se il tuo fratello commetterà una colpa, rimproveralo; ma se si pentirà, perdonagli. 4E se commetterà una colpa sette volte al giorno contro di te e sette volte ritornerà a te dicendo: «Sono pentito», tu gli perdonerai”.
Certo non è la prima volta che Gesù affronta coi Suoi il tema del perdóno; ricordiamo la domanda che gli rivolse Pietro in Matteo 18.21,22 che “gli si avvicinò e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette»”. Qui probabilmente Pietro, con le sue “sette volte” accresceva il numero prescritto dal Talmud che diceva doversi perdonare fino a tre volte, ma non fino a quattro per cui il limite posto da Pietro, sette, faceva riferimento con il numero della manifestazione, rivelazione di Dio all’uomo, quindi della completezza. Eppure Gesù lo moltiplica per dieci, cioè rivelazione ed esigenza per cui, perdonando settanta volte sette, esprime la totalità: se il cristiano è stato ammesso alla comunione con Dio per aver accettato il sacrificio del Figlio, è inevitabile che non pratichi il perdóno esattamente come è stato fatto con lui. Credo sia questo il significato tanto delle parole rivolte a Pietro, e quindi ai dodici, quanto ai presenti in questo passo.
Ancora una volta la nostra traduzione interpreta: l’ipotesi non è quella di un fratello che commette “una colpa” generica, ma “una colpa contro di te”, quindi un torto o crea una situazione per cui ne consegue una sofferenza o un danno più o meno grande. Non ho potuto fare a meno di sottolineare il fatto che questi versi siano rivolti fondamentalmente ai rapporti tra cristiani e che Gesù faccia un discorso destinato ad essere accolto nella Chiesa e sia quindi in questa prospettiva che vada inquadrato. Noi, che dal mondo veniamo, sappiamo benissimo cosa voglia dire lasciarsi trasportare dagli effetti negativi delle offese, dei tradimenti o delle colpe, elementi che generavano rancore, livore, progetti di vendetta.
Ebbene qui Nostro Signore, per quanto ai discepoli dia delle istruzioni, per tutti coloro che sarebbero venuti dopo dà un metro per auto valutarsi e valutare gli altri (salvati come lui): io non perdóno perché è scritto, ma perché la mia fede mi porta inevitabilmente a farlo tenendo presente – ancora una volta – prima la trave che è nel mio occhio: il “fratello” è “uno per cui Cristo è morto” e quindi, se sono forte, sono chiamato a sopportare – attenzione, costruttivamente – le sue debolezze.
Abbiamo letto al verso 3 “Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, rimproveralo”: non è una novità, ma già nella Legge troviamo enucleato il principio che è teso non allo sfogo di una rabbia repressa, ma a qualcosa che ha per fine un recupero e quindi l’intervento dev’essere mirato alla persona, al suo carattere, alla sua psicologia: “Non coverai nel tuo cuore odio contro il tuo fratello; rimprovera apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai di un peccato per lui. Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore. Osserverete le mie leggi”.
Certo, sono versi importanti perché nelle relazioni di fede non esiste la persona-isola, ma ciascuno è collegato all’altro tramite il ponte della fratellanza e ciascuno è responsabile al tempo stesso di sé e del fratello o sorella che sia. Quando entrai nella famiglia di Dio attraverso il battesimo ci fu un fratello che mi disse “Da adesso sono responsabile di te come tu lo sei di me”.
Nel momento in cui avviene il “rimprovero” – e vedremo cosa significhi – la persona oggetto si esso si rivela perché può accettarlo o rifiutarlo e in tal caso il “perdóno” risulta impossibile. Proverbi 17.10 scrive che “Fa più effetto un rimprovero all’assennato che cento percosse allo stolto” per cui una riprensione, certo studiata sulla persona perché la verità deve sempre essere accompagnata dalla carità, può essere utile per correggere un cammino che porterebbe l’ “assennato” ad errori e colpe non più nei nostri confronti, ma di Dio. Se questo principio veniva applicato dagli antichi, quando più dovrà essere nella Chiesa di Cristo?
E qui possiamo collegarci a Giacomo 5.19,20: “Fratelli miei, se uno di voi si allontana dalla verità e un altro ve lo riconduce, costui sappia che chi riconduce un peccatore dalla sua via di errore lo salverà dalla morte e coprirà una moltitudine di peccati”. Qui mi pare che si vada oltre alla visione rosa che alcuni hanno della vita cristiana, in cui si parla di salvezza e di fratellanza con Gesù e i cristiani a prescindere, di libertà: il cammino nella fede è qualcosa di molto, molto serio che non può venire influenzato dal sentimentalismo perché è proprio lì che si annida l’allontanamento dalla verità, si rischia l’anarchia spirituale e la conseguente distanza dello Spirito di Dio dall’uomo. Deviare dalla verità è qualcosa di molto pericoloso perché più restiamo nella nostra autonomia carnale, più perdiamo di vista quel cammino che ci è stato mostrato e che troviamo quotidianamente nella Scrittura. La verità, poi non è qualcosa che si impossessa di noi improvvisamente per cui tutto è chiaro e illuminato, ma si costruisce giorno per giorno sia con lo studio che con l’esperienza.
È molto bello comunque ciò che abbiamo letto sul salvare “dalla morte” ed al “coprire una moltitudine di peccati”, azione che verrà messa per così dire “in conto premio” a chi si sarà così comportato.
Basilare, sempre al verso 3, è la condizione del perdóno che non può essere data indipendentemente dal comportamento di chi ha sbagliato: “Se si pente, perdonagli”. Se. Viceversa, dando un perdóno comunque e a prescindere, commetteremmo un illecito, ricordando che il l’azione del perdonare è qualcosa che una persona si deve meritare non perché noi siamo speciali, superiori, ma perché va dato quando sono presenti le caratteristiche del pentimento e della volontà di ravvedersi dall’errore che ha generato la “colpa contro di te”. Capiamo? È qualcosa che va oltre noi e la nostra misera persona, è la stessa azione che ha compiuto Dio nei nostri confronti nel senso che l’essere umano non è perdonato comunque e per pietà delle sua condizione, ma solo quando si pente e confessa il proprio peccato.
Non agendo così, generalizzando il perdóno, saremmo come quelli che aggiungono o tolgono alla Scrittura, faremmo di essa qualcosa di poco credibile perché il pentimento è ciò che prelude alla Grazia di Dio e tutta la storia degli uomini che gli appartennero, lo conferma; Davide primo fra tutti, che giunse all’adulterio e all’omicidio, quando prese coscienza del suo peccato grazie a Natan, scrisse il meraviglioso Salmo 51 che andrebbe analizzato integralmente e di cui riporto qualche verso: “Lavami molto e molto della mia iniquità. E nettami dal mio peccato. Perché io conosco i miei misfatti e il mio peccato è del continuo davanti a me. Io ho peccato contro a te solo, ed ho fatto quel che ti dispiace; io te lo confesso, affinché tu sia riconosciuto giusto nelle tue parole, e puro nei tuoi giudizi. (…) Purgami con Ìsopo – sinonimo di perdóno e sofferenza –, e sarò netto; lavami e sarò più bianco che neve”.
Gestire il perdóno è una gioia più grande del riceverlo perché si concreta la carità che “è magnanima, benevola: non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si aira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si rallegra della verità” (1 Corinti 13.4-6). L’esatto contrario di ciò che prova l’uomo naturale.
Chiude il discorso la nostra stessa storia, che è quella dei molti che, incontrato Gesù di persona, quando era nel corpo ai tempi del Vangelo o in spirito dalla sua ascensione in poi, gli hanno chiesto perdóno per le proprie colpe, sono stati perdonati e hanno così iniziato un cammino volto al recupero del loro essere. Impensabile che un essere umano, convinto dallo Spirito Santo di “peccato, giustizia e giudizio”, prosegua imperturbabile un percorso nella carne: non sarebbe un salvato, un peccatore perdonato. E allo stesso modo, non perdonare in mancanza di pentimento significa non restare offesi come dei bambini permalosi, ma essere consapevoli di un conto in sospeso di cui la persona dovrà rispondere non più a noi: “A chi perdonerete i peccati saranno perdonati, a chi li riterrete, saranno ritenuti” (Giovanni 20.23).
Possiamo ricordare Colossesi 3.12.13, “Scelti da Dio, santi ed amati, rivestitevi dunque di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità, sopportandovi – nel senso di capirvi – a vicenda e perdonandovi gli uni gli altri, se qualcuno avesse a lamentarsi nei riguardi di un altro. Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi”.
Ecco allora che si spiega anche il verso 4 del nostro Vangelo, “E se commetterà una colpa sette volte al giorno contro di te e sette volte ritornerà da te dicendo: «Sono pentito», tu gli perdonerai”. Sembra una cosa assurda che una persona sana di mente si comporti in questo modo, ma è ciò che facciamo noi con Lui: magari ci sentiamo superiori agli altri e siamo convinti di non cadere, ma “il giusto pecca sette volte al giorno” (Proverbi 24.16), cioè sempre. Se non intervenisse quotidianamente il perdóno di Dio verso di noi, non avremmo senso né come credenti, né come persone. Ed è quando ci si ritrova umiliati per aver fatto un percorso non voluto, detto cose o provato pensieri o fatto azioni non consone alla nostra condizione, che nasce l’umiliazione e la nostra fragilità si scontra con l’amore di Dio.
E nel guardare a Cristo troviamo la spiegazione del nostro agire che non è un’imitazione, la finzione di un atteggiamento, ma il metodo di chi ha compreso quale sia il metro con il quale agire, tutti i giorni della nostra vita. Amen.
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