14.17 – FEDELI NEL POCO E NEL MOLTO (Luca 16.10-14)

14.17 – Fedeli nel poco e nel molto (Luca 16.10-14)

 

 

10«Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti. 11Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? 12E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra?
13Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza».
14I farisei, che erano attaccati al denaro, ascoltavano tutte queste cose e si facevano beffe di lui. 15Egli disse loro: «Voi siete quelli che si ritengono giusti davanti agli uomini, ma Dio conosce i vostri cuori: ciò che fra gli uomini viene esaltato, davanti a Dio è cosa abominevole».

 

Sono parole che troviamo a conclusione della parabola dell’amministratore infedele, quando Gesù sposta l’attenzione del suo uditorio tirando le somme di quanto detto mettendo in evidenza l’esistenza di un rapporto fra ciò che facciamo nella vita quotidiana e quanto siamo spiritualmente.

Vediamo che nei versi da 10 a 12 vengono presentati due tipi di persone che vengono entrambe messe di fronte ad un “poco” che viene loro affidato. “Poco” è un aggettivo che a volte è sgradevole perché descrive sempre una quantità ridotta o un numero limitato di qualcosa che ci interessa e sappiamo che la carne aspira sempre al suo esatto contrario, cioè il “molto”, o le “cose importanti” per il cui conseguimento si effondono spesso molte energie.

Ora siccome il “poco” è qualcosa che in genere si sottovaluta, non si ritiene importante e quindi si tratta con sufficienza, è in realtà un significativo metro valutativo della persona che lo usa: è infatti da come si affrontano “cose di poco conto”, o genericamente il “poco” come nell’originale,  che riveliamo ciò che siamo veramente.

“Fedele” significa comportarsi conformemente alla fiducia che ci è stata accordata, dimostrarsi costanti sul piano dei sentimenti e degli affetti o su quello dei comportamenti pratici o dei pensieri, “disonesto”, anche se più propriamente andrebbe tradotto “infedele”, comporta l’essere privi della rettitudine necessaria in tutti i rapporti sociali che sono fondati sulla reciproca fiducia e, come nella nostra parabola, può riferirsi al modo di amministrare e gestire una cosa o un rapporto fra persone; credo, particolarmente adatto per i tempi in cui viviamo, il riferimento possa adattarsi alla Politica indipendentemente dal colore e dalla nazionalità.

Persone superficiali potrebbero guardare con sufficienza la fedeltà (o la disonestà) nel poco, dimenticando che si tratta di azioni solo in scala, che vanno al di là delle aspirazioni personali e che ciò che importa è il principio di base che guida la persona nelle sue scelte e nei suoi criteri d’azione.

Ricordiamo che quanto detto qui da Gesù è spiegato nella parabola dei talenti, quando leggiamo le parole a commento dell’operato dei servi che li avevano fatti fruttare: “Bene, servo buono e fedele; sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto” (Matteo 25.21). Notiamo che la frase è la stessa indipendentemente dal risultato raggiunto, poiché il servo che aveva ricevuto cinque unità ne produce altrettante e lo stesso fa quello che ne aveva avute due. Certo, c’è anche ci rimane fermo come quel tale che, invece che far fruttare la moneta, la sotterrò, dimostrando di non aver tenuto in alcun conto i voleri del suo padrone.

Costui verrà definito “malvagio e pigro” perché disubbidiente in modo passivo di fronte alle istruzioni ricevute. La “fedeltà” quindi, come ha rilevato un fratello, “non dipende dall’ammontare dato a uno, ma dal sentimento di responsabilità che ha nel cuore”.

Tornando al nostro testo, i versi 11 e 12 vanno più in profondità: “Se non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra?”, parole che mi hanno impegnato molto perché presentano due tipi di averi, quelli “disonesti”, quindi del mondo, e quelli di altri, cioè non nostri, quindi di Dio, comportamenti che richiedono entrambi attenzione e hanno relazione l’uno con l’altro.

Essere “fedeli nella ricchezza disonesta” trova il suo primo riferimento nel protagonista della parabola che abbiamo recentemente esaminato il quale, avendo derubato il proprio datore di lavoro, è figura di quelli che hanno amato “Mammona”, cioè la ricchezza terrena, il “dio denaro”, incompatibile con quello Unico e Vero. E infatti il nostro testo dice “Non potete servire a Dio e alla ricchezza”, “Mammona” nel testo originale. L’amministratore infedele, amando prima di tutto se stesso e quindi la propria carne, con lo sguardo sempre attento ad accrescere le sue sostanze consapevolmente a danno di altri, si precludeva la possibilità di partecipare ad una ricchezza ben diversa, quella spirituale, che mai avrebbe posseduto.

E a questo punto si aprirebbe un capitolo sterminato, perché il paragone fra “ricchezza disonesta” e “ricchezza vera” può benissimo oltrepassare l’esempio appena fatto: la salvezza è già qualcosa di enorme, ma è la base su cui costruire e si pone in relazione a come agiamo su questa terra per cui la “ricchezza vera” sono i doni dello spirito, che sono successivi ad essa e i talenti lo confermano, ricordiamo le parole “Fateli fruttare fino al mio ritorno” (Luca 19.13). E sappiamo che Gesù tornerà.

Ecco allora che la “fedeltà nel poco” e nelle “ricchezze disoneste” si riferiscono a quella gestione elementare tanto della Parola di Dio che ci è affidata, quanto di ciò che abbiamo materialmente volta non ad un arricchimento, ma a un equilibrio complessivo che porta a qualificare la persona come coerente. In altri termini i servi della parabola, per far fruttare i talenti, hanno dovuto seguire un percorso in salita partendo dalle cinque o due monete avute fino al ritorno del padrone, un periodo di tempo non quantificabile anche se tutto lascia supporre che sia stato lungo. Hanno dovuto operare con attenzione, conoscendo giorni di inerzia e giorni di fatica, ma constatando sempre un progresso o rimediando al più presto in caso di stasi.

Così il cristiano che rimane fermo alla salvezza, ragiona su di essa, magari legge la Parola di Dio per avere consolazione ma senza confrontarsi con Lei, non cerca di accrescere la propria conoscenza e comprensione perché si accontenta di ciò che è e ciò che sa, difficilmente otterrà un riconoscimento: “Se non siete fedeli nella ricchezza altrui – quella di Dio come già detto –, chi vi affiderà la vostra – cioè quella che vi aspetta nel Suo regno – ?”. Esiste infatti la ricompensa, meritata, del servo che fa fruttare il talento.

Ecco cosa significa l’essere “fedeli nel poco”, concetto che può anche essere allargato all’uso personale che si fa di quanto di sacro abbiamo davanti, cioè il Vangelo e la Bibbia in genere: sono infatti molti coloro che vorrebbero imitare le gesta dei personaggi importanti dell’Antico o del Nuovo Patto dimenticando che quelle persone sono giunte a conseguire quanto ricevuto prima di tutto per elezione, fatta da Dio e non negoziabile, poi per tutta una serie di contrassegni caratteriali che li hanno portati ad essere ciò che effettivamente furono. Soprattutto, poi, operarono in epoche profondamente diverse dalla nostra.

C’è un’esortazione – che personalmente definisco un ordine – data dall’apostolo Paolo ai credenti di Roma: “Abbiate fra voi un medesimo sentimento; non abbiate l’animo alle cose alte, ma accomodatevi alle basse; non siate savi secondo voi stessi” (21.16). Qui vengono proposti tre livelli, il primo il sentire comune – che comporta rigettare la presunzione, l’ego, il “tu dici, ma io ti dico”, il “fatti più in là perché io sono più santo di te”, ma richiedono comprensione spontanea e reciproca – il secondo è l’accomodarsi “alle basse” perché prima di scalare un monte (terzo livello), ci vuole tutta una preparazione che si acquisisce con gli anni. Chi non fa così appartiene alla categoria di chi è “savio secondo se stesso”.

L’essere “fedeli nella ricchezza altrui” comporta la gestione del talento o dei talenti, anche questa cosa non facile perché, per non avere problemi, andrebbero sotterrati ma sappiamo che il menefreghismo, tanto verso di noi che verso gli altri, non è ammissibile. Ecco, qui per rendere fattive le parole di Gesù in merito dobbiamo esaminare noi stessi e guardarci serenamente, profondamente indietro per vedere se la nostra persona ha fatto progressi nel tempo o se è rimasta quella di prima, cosa abbiamo sviluppato al di là della nostra esperienza, se abbiamo imparato o meno dai nostri errori, se siamo stati perseveranti. Ma il punto nodale non è nemmeno questo: si tratta di crescita e sviluppo, di conoscenza e pratica, di tenersi stretto ciò che si è riusciti a guadagnare prestando la massima attenzione a non perderlo perché, se è vero che farsi un tesoro nel cielo significa avere ricchezze eterne, basta poco per cadere e magari rovinare anni di lavoro.

Scrivendo a Timoteo nella sua seconda lettera, così parla a Timoteo: “Le cose che hai udite da me in presenza di molti testimoni, trasmettile a uomini fedeli, che siano capaci di insegnarle anche ad altri” (2.2). Uomini fedeli, che portano e aspirano alle dinamiche dello Spirito, che rifuggono il sentimentalismo religioso, la retorica, esprimersi con lunghi giri di parole che non arrivano da nessuna parte come fanno gli uomini inconcludenti. Il fedele è colui che va oltre e che pone Dio nelle condizioni di agire attraverso di lui.

Tutto questo discorso è specifico per i credenti e per quelle persone che guardano alle proprie sostanze materiali inquadrandole nel loro giusto àmbito e infatti leggiamo al verso 14 che “I farisei, che erano attaccati al denaro, ascoltavano tutte queste cose e si facevano beffe di lui”: pensiamo a cosa ha prodotto in loro quel verbo bellissimo che è “ascoltare”. Refrattari a qualunque richiamo, loro che vedevano simboli ovunque ed erano sempre pronti a studiare a interpretare, di fronte a tutte le verità di Dio dichiarate, lo deridevano.

E riguardo comunque alla nostra attività, al nostro essere davanti a Lui, credo che possa salvarci dal cadere doloroso solo una linea di continuità di studio, assimilazione e ricerca per quella che è la sola condizione idonea ad orientare la persona nel suo naturale percorso di vita, e cioè la dottrina per evitare quei “peccati di inavvertenza” che finiscono per minare il nostro rapporto col Signore senza che ce ne accorgiamo e possono finire per trasformarci in alberi sterili. Magari belli, con tante foglie, ma nessun frutto. Amen.

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