14.15 – TRE PARABOLE: IL FIGLIO PRODIGO IV (Luca 15.23)

14.15 – Tre parabole – 3, il figlio prodigo 4 (Luca 15.23)

 

 

25Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; 26chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. 27Quello gli rispose: «Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo». 28Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. 29Ma egli rispose a suo padre: «Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. 30Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso». 31Gli rispose il padre: «Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; 32ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato»».

 

Possiamo affermare che l’ultima parte della parabola è interamente dedicata alle reazioni e al carattere del figlio maggiore che vediamo gran lavoratore (“si trovava nei campi”), fedele ai compiti che gli dava il padre (“ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando”, attento a quanto succedeva in casa (“chiamò i servi e domandò cosa fosse tutto questo”) e, con un comportamento anche al di fuori dell’ambiente “aziendale”, irreprensibile (accusa il fratello minore di avere “divorato le tue sostanze con le prostitute” dimostrandosi estraneo a tale stile di vita).

Eppure, a queste note positive, ve ne sono di negative perché era incapace di provare qualunque forma di empatia, con un concetto del vivere del tutto particolare escludendo qualsiasi forma di distrazione da quello che era il dovere svolto come un obbligo, unica possibilità di espressione che non includeva il piacere, la soddisfazione nell’operare. Il figlio maggiore, quindi, è un rigido osservante di norme, per lui esistono solo quelle. E qui, nonostante la parabola non porti ad identificare inequivocabilmente alcune sue componenti, abbiamo un riferimento ai Giudei che sicuramente fu compreso da tutti i presenti perché anche loro si ritenevano irreprensibili e guardavano gli altri con disprezzo o, nel migliore dei casi, sufficienza.

 

Esaminando la reazione alla risposta di uno dei servi, “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”, vediamo che “si indignò e non voleva entrare”. Qui osserviamo che, quando il fratello minore se ne era andato, oltre a essere in disaccordo con la sua scelta, aveva emesso dentro di sé un decreto di condanna senza possibilità di appello: le parole “Tuo fratello è qui” lo avevano immediatamente allarmato, certo non rallegrato ed il fatto che il padre avesse voluto far festa usando il vitello migliore e soprattutto avesse “riavuto sano e salvo” quel giovane, lo scandalizzò a tal punto che abbiamo letto che “non voleva entrare”, cioè non si riconosceva più in quell’ambiente per il quale aveva certo dato molto, direi tutto se stesso, prestando un’opera continua per il sostentamento e lo sviluppo di quella casa.

Abbiamo qui una reazione stizzita, dettata dall’orgoglio che precludeva qualunque forma di apertura al rinnovamento, a ciò che andava al di fuori della consuetudine. Da quando il fratello minore si era allontanato, evidentemente quell’uomo si era convinto di essere l’unico erede compiacendosene, dicendo dentro di sé “un giorno tutto questo sarà mio” ed il fatto che il padre avesse riaccolto colui che, legalmente, aveva già avuto tutta l’eredità spettantegli, lo offendeva profondamente. Certo, se fosse stato come il figlio maggiore, quel padre avrebbe potuto benissimo dire al minore che tutto quanto gli spettava gli era stato dato per cui non aveva nulla da pretendere e, quindi, che si arrangiasse come meglio potesse. Infatti, nelle intenzioni originali del figlio più giovane, vi era quella di essere trattato come uno dei servi presi a giornata.

Il maggiore, quindi, nonostante tutto il suo desiderio di servire il padre, aveva agito solo per se stesso perché, nonostante avesse vissuto con lui quotidianamente, non ne aveva assorbito il carattere, non aveva imparato nulla da lui, anzi era rimasto schiavo delle sue convinzioni, come fece Eliab, fratello maggiore di Davide, che lo rimproverò di aver abbandonato poche pecore nel deserto per venire a combattere contro il filisteo Golia, accusandolo di essere malizioso e borioso (1 Sam 17.28).

Ancora, ravvisiamo nel comportamento del figlio maggiore lo stesso di quei Giudei che rimproverarono Pietro a Gerusalemme dicendogli “Sei entrato in casa di uomini non circoncisi e hai mangiato insieme a loro!” (Atti 11.3) ritenendosi superiori. Lo stesso successe con l’apostolo Paolo, quando predicava ad Antiochia (13.45) ed ancor più a Gerusalemme (capp. 21 e 22): qui è interessante quanto avvenne perché fu ascoltato con interesse fino a quando non parlò della sua conversione e del martirio di Stefano.

C’è quindi, in ogni persona religiosa, un punto di non ritorno e proprio lì si scandalizza e cade, proprio come il figlio maggiore della nostra parabola.

C’è un contrasto direi lacerante fra l’ostinazione del maggiore che non vuole entrare e il padre che, con lo stesso amore con il quale aveva accolto l’altro fratello, ora lo prega di partecipare alla mensa.

C’è qualcosa di insanabile nelle parole del figlio “irreprensibile”: al contrario dell’altro, omette di chiamarlo “padre”, ma inizia a autoincensarsi, esattamente come il fariseo della parabola col pubblicano: sicuramente da sottolineare l’ “io” e il “tu” che da sempre, nelle discussioni anche umane, nostre, sono usate automaticamente per dar ragione a una parte e torto all’altra. I versi 29 e 30 mostrano un tragico infantilismo e non potrebbe essere altrimenti perché quando una persona non ha maturato in profondità il vero senso dell’essere, non potrà restare altro se non il bambino capriccioso e insoddisfatto che era un tempo, sempre pronto a vedere soprusi e torti là dove non ci sono, perseguitato dalla sua stessa, inguaribile, insoddisfazione. La frase “tu non mi hai dato nemmeno un capretto per far festa con i miei amici” non solo dimostra che in realtà non aveva mai cercato comunicazione col padre al di là di un arido rapporto di lavoro – perché non chiedergliene uno, quando gliene avrebbe dati certamente di più? –, ma che tutto il suo operare era dettato dall’interesse e non dall’amore e gratitudine per lui.

Poi leggiamo “Ma ora che è tornato questo tuo figlio”, parole che accrescono ulteriormente la distanza da tutto il contesto familiare: quello che poteva essere considerato il figlio buono, irreprensibile, gran lavoratore, ora emerge come una persona insensibile, acida, che in realtà a quella famiglia non era mai appartenuta. E mi viene in mente un’altra parabola, sempre con due figli protagonisti, che troviamo in Matteo 21.28-32 che penso possa raccordarsi a questa: “Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: «Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna». Ed egli rispose: «Non ne ho voglia». Ma poi si pentì e vi andò. Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: «Sì, signore». Ma non vi andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre? Risposero: «Il Primo». E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli”.

Forma e sostanza sono quindi due cose diverse e la prima si rivela sempre nel momento in cui l’essere umano viene provato, come nel caso della parabola su cui stiamo ragionando: la persona, qualunque persona, appare ciò che è nel momento in cui si trova nelle circostanze che la provano: il figlio maggiore è considerato positivo fino a quando non si ribella al fatto che il minore torni pentito.

Gesù non dice come andò a finire quella faccenda famigliare, né era necessario perché ciò che gli premeva era far emergere due condizioni opposte, quelle di un orgoglio che muore visto nelle vicende del figlio minore, e quello che resiste, alberga nel profondo e si mimetizza nel maggiore, persona che viene posta davanti a parole che è libero di condividere o meno: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo, ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”.

Quindi il maggiore era libero di scegliere se unirsi o meno alla festa per il fratello ritrovato, che qui credo sia un’occasione per Gesù di richiamo a quella per eccellenza, quando tutti i credenti si ritroveranno nel regno di Dio e/o alla gioia perché era venuto il Figlio in mezzo a loro: “Le genti invece glorificano Dio per la sua misericordia, come sta scritto: Per questo ti loderò fra le genti e canterò inni al tuo nome. E ancora: Esultate, o nazioni, insieme al suo popolo. E di nuovo: Genti tutte, lodate il Signore; i popoli tutti lo esaltino. E a sua volta Isaia dice: Spunterà il rampollo di Iesse, colui che sorgerà a governare le nazioni: in lui le nazioni spereranno” (Romani 15.9-12). Amen.

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