13.24 – Per seguire Gesù (Luca 14.25,26)
25Una folla numerosa andava con lui. Egli si voltò e disse loro: 26«Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. 27Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo.28Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? 29Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, 30dicendo: «Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro». 31Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? 32Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace. 33Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo.il fallimento dell’uomo etico,
Dalle parole “Si voltò e disse loro”vediamo che Gesù conosceva le ragioni che spingevano quanti si erano messi a seguirlo ovunque andasse. Così come tante erano le opinioni che la gente aveva di Lui, altrettante erano le motivazioni per cui mettersi al suo seguito: alcuni volevano soddisfare la loro curiosità e speravano di vedergli compiere qualche miracolo, altri desideravano ascoltare le sue parole visto che sta scritto che gli riconoscevano un’autorità superiore a quella degli scribi e farisei, altri ancora erano spie dei Giudei, lì unicamente per riferire a chi li aveva inviati. Vi erano poi coloro che si erano interrogati profondamente attorno alla Sua Opera e aspettavano forse l’occasione propizia per presentarsi a Lui e parlargli.
Ebbene Gesù, che conosceva i pensieri di ciascuno, si volta e pronuncia un brevissimo discorso che potremmo definire selettivo perché la pericope “non può essere mio discepolo”esprime il limite, la barriera fra ciò che sono le intenzioni umane e la realtà delle cose perché l’unica condizione per seguirLo oppure, come scrive Matteo 10.37, essere degni di Lui, è “Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me; chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me. Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà”, parole che abbiamo analizzato a suo tempo.
Notiamo che la nostra traduzione riporta “…e non mi ama più di quanto ami…”, che offre l’interpretazione corretta dell’originale “…e non odia suo padre…”perché in effetti il termine “odiare” significa proprio, nella Scrittura, “amare meno” rispetto a qualcun altro. Si tratta di un argomento già trattato, ma sul quale torniamo anche se con riflessioni diverse.
Le parole “Se uno viene a me”sono riferite al fatto che la figura di Gesù attrae molti, o per lo meno attraeva visti i tempi che viviamo in cui a Dio si sostituisce una spiritualità generica, artefatta, posticcia; il più delle volte, infatti, la figura del Figlio di Dio oggi è cercata, anche tramite una lettura dei Vangeli, per porlo in ridicolo di fronte a una critica testuale assolutamente priva di conoscenza e radici e soprattutto è usata col fine di abolirne la figura storica, morale e spirituale. Ancora, la figura di Cristo e del cristiano è sostituita da quella dell’ “uomo etico”: è del 28 agosto 2021 la notizia che il nuovo presidente dei cappellani di Harvard è un ateo che coordina le attività di quaranta comunità, tra cui quella cristiana, ebraica, indù e buddista. Costui ha dichiarato: “C’è un gruppo crescente di persone che non si identificano più con alcuna tradizione religiosa, ma sperimentano ancora un reale bisogno di conversazione e sostegno intorno a ciò che significa essere un buon umano e vivere una vita etica”. Alla religione vuota e del vuoto si sostituisce quella di princìpi mutevoli basati sull’inconsistenza.
Comunque, poiché in ogni caso la lettura della Bibbia non è ancora stata proibita e nella Chiesa esistono ancora credenti che svolgono la loro testimonianza, è sempre possibile che vi sia chi desideri porsi, anche se a distanza di secoli, al seguito di Gesù le cui parole sono dirette ai credenti di ogni tempo.
Allora come oggi, abbiamo letto che non è possibile seguirLo senza una profonda rivoluzione interiore che stravolga le priorità affettive di chi Gli si avvicina. Più che analizzare il significato delle categorie rappresentate dalle persone citate, andrei alla radice del problema offertaci da Deuteronomio 13.7-12 che chiarisce il tipo di rapporto che si instaura tra chi intende rimanere fedele a Dio e chi, suo parente o amico, intende traviarlo; certo, tenendo presente la differenza fra Grazia e Legge: “Qualora il tuo fratello, figlio di tuo padre o figlio di tua madre, o il figlio o la figlia o la moglie che riposa sul tuo petto o l’amico che è come te stesso t’istighi in segreto, dicendo: «Andiamo, serviamo altri dèi», dèi che né tu né i tuoi padri avete conosciuto, divinità dei popoli che vi circondano, vicini a te o da te lontani da un’estremità all’altra della terra, tu non dargli retta, non ascoltarlo. Il tuo occhio non ne abbia compassione: non risparmiarlo, non coprire la sua colpa. Tu anzi devi ucciderlo: la tua mano sia la prima contro di lui per metterlo a morte; poi sarà la mano di tutto il popolo. Lapidalo e muoia, perché ha cercato di trascinarti lontano dal Signore, tuo Dio, che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile. Tutto Israele verrà a saperlo, ne avrà timore e non commetterà in mezzo a te una tale azione malvagia”. Sono parole molto forti, valide per chi viveva in un tempo lontano con mentalità e usanze profondamente diverse dalle nostre. Soprattutto, era fondamentale che Israele seguisse il Signore dal quale poi sarebbe proceduto il Messia. Rimane però il profondo distacco tra chi rimane fedele a Dio e chi invece, facendo leva sulla presenza di un rapporto affettivo, vuole distogliere la sua attenzione da Lui finendo per porlo in una posizione contraria: “Il tuo occhio non abbia compassione, non risparmiarlo”nel senso di non consentire a questa persona, diventata negativa e pericolosa, di attecchire perché non solo si è traviato, ma anche voleva spingere una terza persona a fare lo stesso, diventando un agente dell’Avversario.
Notiamo che anche in questo passo vengono chiamati in causa gli affetti più cari, “la moglie che riposa sul tuo petto o l’amico che è come te stesso”che, nel momento in cui diventano elementi attivi di svio, andavano addirittura uccisi con il diretto interessato che doveva essere il primo a scagliare la pietra nella lapidazione. Da qui, collegandoci al famoso “chi è senza peccato scagli la prima pietra”, vediamo l’assoluta responsabilità di chi avrebbe dovuto agire in tal modo, cioè si assumeva un carico d’innocenza che, nel caso della donna adultera, non poteva avere, mentre in quello dello sviamento verso altre divinità a prevalere era il rifiuto dell’idolatria. In questo modo chi agiva così veniva messo duramente alla prova perché non solo si trattava di agire contro chi era comunque una persona cara, ma doveva fare violenza a se stesso privandosi della moglie o dell’amico, o del figlio o della figlia coi quale intercorreva indubbiamente una forte identificazione. Ribadisco, si era in un’altra dispensazione ed oggi rimane il principio di base, quello del porre nella giusta collocazione gli affetti che non possono essere dominanti, quindi impedire, ostacolare, rallentare il percorso spirituale del credente, uomo o donna che sia.
Ecco allora che, alla luce dei testi fin qui raccolti, Gesù fa presente che, se non è messo al primo posto, a nulla serve mettersi al suo seguito così come chi ha creduto è chiamato a “portare la propria croce”e seguirlo, cioè portare dignitosamente le sofferenze provenienti dalla propria fede. Presto o tardi infatti, per tutti, arriva il momento in cui occorre fare una scelta per il Vangelo che non porterà certo benefici nel senso materiale del termine; pensiamo alle persecuzioni che hanno subìto e subiscono, anche del nostro tempo, i veri cristiani. Pensiamo al futuro sistema che non consentirà di comprare o vendere senza il marchio della bestia o anche alle persecuzioni poste in essere da parte di Satana, che tenta e mette alla prova nei modi più svariati. Ed è fuor di dubbio che, in questo tempo, vediamo tutto in embrione. Credere comporta inevitabilmente anche sofferenza, fisica e morale. Il cristiano è infatti allo stesso tempo sacerdote e vittima.
Abbiamo poi, nella seconda parte dell’intervento di Gesù con gli esempi della torre e della pace con il re nemico, un lapidario invito-elogio alla prudenza di cui purtroppo molti credenti non si appropriano basando le loro scelte e imprese sulla speranza, o fede inopportuna, di un intervento di Dio quando questo si renderà necessario. Per molti di loro la prudenza è vista come qualcosa di fuori luogo, dando una lettura a senso unico del significato vero della fede e dell’aiuto di Dio, che nella parabola di Gesù non è chiamato in causa: perché? Perché la persona deve mettere in atto tutte le precauzioni possibili per non cadere vittima di se stesso. Personalmente ho constatato che la gestione fuori luogo della fede, dando per scontato che solo perché cristiano avrei comunque beneficiato dell’aiuto di Dio, mi ha portato in condizioni simili al costruttore della torre che non riesce a finire, la quale implica e coinvolge tanti elementi non necessariamente legati all’orizzontalità della vita. Certo, questo è avvenuto anche per l’eccessiva confidenza cui sono stato spinto nei confronti di Chi, di base, va trattato con rispetto e temuto essendo molto più in alto dell’uomo. Quante esistenze sono state progettate senza prima ponderare accuratamente se erano presenti le risorse, anche spirituali, necessarie! E quante sono rimaste schiacciate da un peso che si è voluto portare quando non si era chiamati a farlo, solo per il letteralismo usato verso certi versi! E questi inconvenienti li hanno sperimentati in tanti, indipendentemente dalle denominazioni, con clausure non richieste, ma auto inflitte. Così, da un “giogo dolce” e di un “carico leggero”ci si è resi schiavi di qualcosa o di qualcuno quando in realtà si era liberi.
Nel caso dei due re ho constatato che Nostro Signore si guarda bene dal nominare tutti quegli episodi in cui Israele vinse nemici più forti di lui anche dal punto di vista numerico e mi sono chiesto perché. Sicuramente evitò la citazione perché si trattava di vittorie profetizzate, rivelate da Dio, che sceglie “le cose pazze del mondo per svergognare le savie”, e penso ad esempio a Davide quando, nel primo libro di Samuele, vinse Golia. Ricordiamo il commento umano alla sua proposta di battersi: “Tu non puoi andare contro questo filisteo a combattere con lui: tu sei un ragazzo e costui è uomo d’armi fin dalla sua adolescenza”(17.33). Se Davide vinse, non fu perché pensò alla prudenza, ma perché difendeva il nome del Signore: “Tu vieni a me con la spada, con la lancia e con l’asta. Io vengo a te nel nome del Signore degli eserciti, Dio delle schiere d’Israele, che tu hai sfidato. In questo stesso giorno, il Signore ti farà cadere nelle mie mani”(v.45).
La situazione non poteva che volgere a suo favore perché l’Iddio d’Israele avrebbe dato un segno della sua presenza: “Quel filisteo maledisse Davide in nome dei suoi dèi”(43).
Nel passo di Luca che stiamo esaminando, quindi, Gesù non promette la riuscita di una nostra impresa a prescindere dalle nostre forze, anzi fa esempi molto concreti quasi a “tenersene fuori” e a dire: “stai attento a quello che fai, ai tuoi limiti, a ciò che puoi permetterti, a non fare il passo più lungo della gamba”. Perché al discepolo non è chiesta né l’inesperienza e nemmeno la stoltezza: “Imparate, inesperti, la prudenza e voi, stolti, fatevi assennati”(Proverbi 8.5). Sono quindi elementi da imparare, perseguire.
Sappiamo che “Il Signore dà la sapienza, dalla sua bocca escono scienza e prudenza”(2.6) e, se si accolgono le Sue parole, si concreterà la promessa “La riflessione ti custodirà e la prudenza veglierà su di te, per salvarti dalla via del male, dall’uomo che parla di propositi perversi, da coloro che abbandonano i retti sentieri per camminare nelle vie delle tenebre, che godono nel fare il male e gioiscono dei loro propositi perversi, i cui sentieri sono tortuosi e le cui strade sono distorte; per salvarti dalla donna straniera, dalla sconosciuta che ha parole seducenti, che abbandona il compagno della sua giovinezza e dimentica l’alleanza con il suo Dio”(2.11-17). E credo che, oggi, l’unico modo che abbiamo per custodire le Sue parole, sia uno studio severo di esse, come del resto è sempre stato. Da lì arriva la protezione.
Tornando sui due esempi, vediamo che il primo uomo della parabola, in caso di insuccesso, viene deriso dagli altri, quindi fallisce nella sua testimonianza; il secondo invece, cercando la pace col re nemico e con un esercito superiore, risparmia i suoi soldati e il popolo da una morte inutile ed evita loro la vergogna della sconfitta.
Arriviamo alla frase finale – perché il sale che diventa insipido lo abbiamo già affrontato –: “Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo”. “Così”sembra la conclusione dei due esempi precedenti, ma non può essere ed è probabile che Luca abbia voluto ribadire un concetto più volte espresso da Gesù sull’abbandono. Qui vengono chiamati in causa “tutti i suoi averi”, quindi anche i nostri, ma la rinuncia non necessariamente implica l’attuazione di quanto detto al giovane ricco, cioè di vendere tutto ciò che aveva, darlo ai poveri, e poi seguire Gesù: gli apostoli prima e i discepoli poi avevano effettivamente “lasciato ogni cosa”nel senso che ciò che avevano, da punto di arrivo e da gestione egoistica, era diventata solo uno strumento, per di più temporaneo perché, quando le esigenze della predicazione lo richiederanno, gestiranno i loro beni in modo diverso.
Rinunciare a tutti i nostri averi, per noi oggi, implica il non considerarli come fondamentali alla nostra sussistenza e sbarazzarcene nel momento in cui questi diventano vincolanti, di ostacolo al nostro avanzamento spirituale esattamente come gli affetti elencati da Gesù al verso 26 o dal passo di Deuteronomio che abbiamo citato. Sarà poi l’intelligenza della persona, in base a ciò per cui è chiamata da Dio, a stabilire ciò che è necessario per la propria vita e ciò che non lo è, liberato per lo Spirito dai suoi egoismi.
Ricordiamo infatti le dinamiche della Testimonianza iniziata da Nostro Signore, inizialmente benestante con la sua famiglia grazie anche ai doni portati dai Magi: sia lui che i discepoli avevano una casa nella quale dimoravano e a cui tornavano dopo le predicazioni, poi vissero col loro gruppo delle offerte con la cassa comune che teneva Giuda Iscariotha; la Chiesa di Gerusalemme aveva molti credenti che vendevano i loro averi e deponevano ai piedi degli apostoli il ricavato per sovvenire ai fratelli più economicamente deboli, ma più avanti troviamo persone, come Lidia, commerciante di porpora a Tiàtira, che ospitava nella sua casa dei credenti, quindi la Chiesa, e che non risulta si sia sbarazzata dei suoi possedimenti. E il suo nome e persona furono importanti a tal punto da comparire nel testo del libro degli Atti.
La gestione della propria persona e conseguentemente dei propri beni il cristiano deve averla alla luce della prudenza e dell’intelligenza, da “acquistare a costo di tutto ciò che possiedi”(Proverbi 4.7) che ben si raccorda alle parole di Gesù e che, assieme all’essere attenti e accorti, ci fanno capire le posizioni da prendere. Amen.
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