13.21 – IL GRAN CONVITO I (Luca 14.15-24)

13.21 – Il gran convito I (Luca 14.15-24)   

 

15Uno dei commensali, avendo udito questo, gli disse: «Beato chi prenderà cibo nel regno di Dio!». 16Gli rispose: «Un uomo diede una grande cena e fece molti inviti. 17All’ora della cena, mandò il suo servo a dire agli invitati: «Venite, è pronto». 18Ma tutti, uno dopo l’altro, cominciarono a scusarsi. Il primo gli disse: «Ho comprato un campo e devo andare a vederlo; ti prego di scusarmi». 19Un altro disse: «Ho comprato cinque paia di buoi e vado a provarli; ti prego di scusarmi». 20Un altro disse: «Mi sono appena sposato e perciò non posso venire». 21Al suo ritorno il servo riferì tutto questo al suo padrone. Allora il padrone di casa, adirato, disse al servo: «Esci subito per le piazze e per le vie della città e conduci qui i poveri, gli storpi, i ciechi e gli zoppi». 22Il servo disse: «Signore, è stato fatto come hai ordinato, ma c’è ancora posto». 23Il padrone allora disse al servo: «Esci per le strade e lungo le siepi e costringili ad entrare, perché la mia casa si riempia. 24Perché io vi dico: nessuno di quelli che erano stati invitati gusterà la mia cena»».

 

            Prima di esaminare il nostro passo, di immediata comprensione ma al tempo stesso impegnativo, occorre ricordare quanto avvenuto pochi attimi prima, cioè Gesù che disse a colui che l’aveva invitato “Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici, né i tuoi fratelli, né i tuoi parenti, né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio. Quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti” (vv. 12-14).

È quindi lecito pensare che a queste parole seguirono momenti di grande imbarazzo e “uno dei commensali”, quindi un altro fariseo, per alleviare la tensione, fece un collegamento tra quel convito e le parole di Gesù sulla “resurrezione dei giusti” dicendo “Beato chi prenderà cibo nel regno di Dio!”. È questo un punto delicato da interpretare, ma non credo che quell’intervento fosse dettato da ragioni spirituali; piuttosto fu la conoscenza religiosa di quel fariseo che parlò, buttando lì un principio nel tentativo di cambiare argomento; non credo si riferisse a Isaia 25.6-8 relativo al banchetto celeste dei tempi a venire: “Preparerà il Signore degli eserciti – celesti – per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati. Egli strapperà su questo monte il velo che copriva la faccia di tutti i popoli e la coltre – di ignoranza – distesa su tutte le nazioni. Eliminerà la morte per sempre”.  È proprio questo passo che, pur non citato, viene sviluppato da Gesù, prendendo spunto dalla frase che l’ignoto pronunciò nel tentativo di alleggerire la tensione che si era venuta a creare.

La parabola del convito è riportata, con più dettagli, anche da Matteo 22, ma verrà affrontata separatamente stante la sua indipendenza da quella che stiamo esaminando: qui abbiamo “un uomo”, in Matteo “un re”, ma è evidente che, mentre nel nostro caso Gesù espone un concetto basilare, nell’altra occasione lo approfondirà con più dettagli perché erano differenti le circostanze e l’uditorio.

Bene, l’uomo della nostra parabola “diede una gran cena”: non ci è detto il motivo, ma il racconto, per come si sviluppa, è incentrato (anche) sulla volontà di questa persona di offrirla e soprattutto che questa veda la partecipazione di molti. È anche chiaro che vi sia una preferenza, perché i “molti” che quell’uomo invita rientrano in una categoria di persone precisa, quelli che lo conoscevano, avevano un rapporto con lui e viceversa.

È facile riconoscere in questi il popolo di Israele, quello eletto da Dio ad essere suo; ciò lo vediamo non solo quando fu liberato dalla schiavitù d’Egitto (ricordiamo le parole “Lascia andare il mio popolo perché mi serva” in Esodo), ma anche da molto prima, con Abramo di cui abbiamo dedicato diverse riflessioni. Anche da Abramo comunque possiamo andare a ritroso, con Noè e prima ancora a Set, il cui nome significa “Sostituto”, figlio di Adamo che segnò un punto di partenza spirituale perché in Genesi 4.26 leggiamo “Anche a Set nacque un figlio, che chiamò Enos. A quel tempo si cominciò a invocare il nome del Signore”.

Anche da qui, però, possiamo retrocedere nel tempo e arrivare ad Abele, che nella sua coscienza sapeva che il Creatore andava onorato e ringraziato per i doni che gli arrivavano. Da lui risaliamo ad Adamo, “che fu di Dio” (Luca 3.38), e da Adamo a YHWH stesso, progettista e creatore non solo dell’universo e dell’uomo, ma anche del piano di salvezza che si sarebbe dovuto sviluppare dopo la caduta sotto la prospettiva del recupero non di Eden, ma della vita di comunione con l’uomo da Lui voluta. Ecco chi è/sono, a parte ciò che già sappiamo come credenti e lettori del Vangelo, “l’uomo” e gli invitati, discendenti naturali di quei grandi uomini di Dio grazie anche ai quali possiamo esistere spiritualmente.

La “grande cena” è proprio quella in vista dei “nuovi cieli e nuova terra dove dimora stabile la giustizia”, la dimora eterna di Dio con l’uomo, impossibile da raggiungere senza invito né il vestito dato a ciascuno, ma ancora di più senza conoscere chi è il suo autore e ideatore. Ecco quindi che le parole “fece molti inviti” si riferiscono alle innumerevoli manifestazioni d’amore rivolte al Suo popolo tanto con miracoli che con i Suoi messaggi che i profeti provvedevano a trasmettere. I “molti inviti” si possono intravedere nelle parole del Salmo 68 di Davide, vv.6-11: “O Dio, quando uscivi davanti al tuo popolo, quando camminavi per il deserto, tremò la terra, i cieli stillarono davanti a Dio, quello del Sinai, davanti a Dio, il Dio d’Israele. Pioggia abbondante hai riversato, o Dio, la tua esausta eredità tu hai consolidato e in essa ha abitato il tuo popolo, in quella che, nella tua bontà, hai reso sicura per il povero”.

Ora, negli antichi scritti abbiamo la testimonianza che l’essere resi partecipi della sapienza – figura del Figlio la cui accettazione sarà fonte di doni spirituali – equivale all’accettazione di un invito tutto particolare: “La sapienza si è costruita la sua casa, ha intagliato le sue sette colonne. Ha ucciso il suo bestiame, ha preparato il suo vino e ha imbandito la sua tavola. Ha mandato le sue ancelle a proclamare sui punti più alti della città: «Chi è inesperto venga qui!». A chi è privo di senno elle dice: «Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che ho preparato. Abbandonate l’inesperienza e vivrete, andate diritti per la via dell’intelligenza» (Proverbi 9.1-6).

Infine Isaia 55.1-3 che ogni tanto ricordiamo: “O voi tutti assetati, venite alle acque, voi che non avete denaro, venite, comprate e mangiate; venite, comprate senza denaro, senza pagare, vino e latte. Perché spendete denaro per ciò che non è pane, il vostro guadagno per ciò che non sazia? Su, ascoltatemi e mangerete cose buone e gusterete cibi succulenti. Porgete l’orecchio e venite a me, ascoltate e vivrete”.

Arriviamo così al nostro verso 17, “all’ora della cena”, quindi quanto è tutto pronto. E qui vediamo i tempi di Dio, che non sono i nostri, ma che ci dicono che tutto è ormai apparecchiato, i cibi stanno finendo di cuocere e stanno per essere serviti. Stante l’imminenza della cosa, ecco che “mandò il suo servo a dire agli invitati: «Venite, è pronto!»”: notiamo l’articolo determinativo, “il”, quindi Colui che, per dignità e grado, poteva rappresentarlo, quindi “il Servo del Signore”, quello da Lui sostenuto, che rende l’annuncio del Regno di Dio e su come entrarvi in modo assolutamente perfetto al punto da dire, sulla croce, “tutto è compiuto”, ultima frase pronunciata quando era in vita, umanamente, con il corpo. Ciò secondo Giovanni 19.30.

Non sottovalutiamo il fatto che quel “servo” avrebbe dovuto presentarsi come inequivocabilmente inviato dall’organizzatore del convito perché non fosse confuso con altri e così fu per Gesù che infatti, come Servo ad annunciare che ogni cosa era pronta, arrivò proprio in un momento particolare della storia umana, come scrive l’autore della lettera agli ebrei con versi che ogni tanto amo riportare: “Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi ha parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante al quale ha fatto anche il mondo” (1.1,2).

Possiamo ricordare anche le parole di Giovanni Battista, che esortava i suoi uditori a ravvedersi perché “il Regno dei cieli è vicino”, ma quello che non si può fare a meno di sottolineare nella parabola è che gli invitati erano informati, sapevano che prima o poi vi sarebbe stata una cena per cui non potevano avere scuse nel rifiutare l’invito. Perché lo sapevano? Perché tutta la Parola loro data, a partire da Mosè, ma anche molto prima, lasciava intendere che il progetto di Dio per il Suo popolo sarebbe giunto un giorno a perfetto compimento.

Tutto lascia intendere, nella parabola, che l’ideatore del convito fosse stata una persona importante, vuoi per dignità e rango, vuoi per la relazione che intercorreva con gli invitati. E infatti la scortesia del rifiuto sembra cogliere quell’uomo di sorpresa e, guardando alle risposte che vengono date, possiamo osservare due cose: la prima è che gli argomenti che adducono per evitare il convito sono di natura esclusivamente egoistica: uno ha “comprato un campo” e deve andare a vederlo, l’altro ha comprato “cinque paia di buoi” e deve andare a provarli, un altro ancora “si è appena sposato”. I primi due, poi, dicono “Ti prego di scusarmi” così, confidenzialmente, quasi a sottintendere che la prossima volta avrebbero accettato stante l’impegno improvviso cui non potevano sottrarsi, ritenendo evidentemente campo e buoi più importanti della relazione con l’autore dell’invito.

Notiamo che, per i primi due personaggi, l’interesse personale viene prima di tutto: il “campo” e i “buoi”hanno riferimento con il denaro e le “cose di questo mondo” in genere, da sempre ostacolo forte, violento per la Parola di Dio: “Quando abbiamo di che mangiare e di che coprirci, accontentiamoci. Quelli invece che vogliono arricchirsi, cadono nella tentazione, nell’inganno di molti desideri insensati e dannosi, che fanno affogare gli uomini nella rovina e nella perdizione. L’avidità del denaro infatti è la radice di tutti i mali; presi da questo desiderio, alcuni hanno deviato dalla fede e si sono procurati molti tormenti” (1 Timoteo 6.9.10).

L’interesse è quindi ciò che impedisce ai primi due invitati di accettare quanto il servo, inviato a dichiarare aperto il convito, proponeva loro.

Il terzo, invece, che non si scusa neppure a differenza dei precedenti, si trincera dietro un –in questo caso- cavillo legale, poiché sappiamo che la Legge, in Deuteronomio 24.5, esentava l’uomo dalla guerra o altri incarichi perché “…sarà libero per un anno di badare alla sua casa e farà lieta la moglie che ha sposato”, ma in questo caso l’appellarsi al verso citato era chiaramente pretestuoso perché, semplicemente, quell’uomo desiderava starsene tranquillamente in casa propria usando – attenzione – la Legge come giustificazione del rifiuto, cosa che sappiamo fecero molti farisei, scribi e dottori. Dei tre, è l’unico che non si scusa, convinto che la norma citata sia sufficiente.

Credo non sbagli neppure chi ha visto, in quest’ultimo rifiuto, il terzo livello di ostacoli nella parabola dei terreni, quello dei rovi in Matteo 13.22: “Quello seminato tra i rovi è colui che ascolta la Parola, ma le sollecitudini di questo modo, l’inganno delle ricchezze e i piaceri di questa vita soffocano la parola ed essa non dà frutto”.

Comunque sia, questi tre personaggi che rappresentano i “molti” invitati, hanno tutti di meglio da fare che non partecipare al convito organizzato da quell’ “uomo” che, a differenza di quelli, lo offriva liberamente e nel loro interesse. Esiste una chiara sproporzione, una distanza enorme fra le parti: uno desidera condividere e, pur di avere la mensa piena, inviterà persone che con lui non avevano nulla a che fare; gli altri si vedono bastanti a se stessi, hanno le loro cose, i loro interessi, danno per scontato che l’invito rifiutato sarebbe giunto un’altra volta, quando avrebbero avuto tempo. E ancora di più oggi sono tanti quelli che reputano il tempo come qualcosa che appartenga loro e di cui possano disporre liberamente.

Giungiamo così alla fine di queste riflessioni, con la prima parte del verso 21: “Al suo ritorno, il servo riferì tutto questo al suo padrone”. Ora credo che qui, fra i tanti, abbiamo fondamentalmente due insegnamenti, il primo dei quali è non ancorarsi sempre e necessariamente alla letteralità del testo, perché sembrerebbe che Gesù venga inviato altre due volte sulla terra ad annunciare il convito, cosa chiaramente impossibile. Piuttosto – secondo insegnamento – il suo “riferire tutto al padrone”, tradotto più correttamente come “signore”, ha connessione con le innumerevoli volte in cui pregò il Padre rapportandogli e discutendo con Lui di tutto, in particolar modo sul cosa, come e dove agire. E sappiamo che un giorno disse “Vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare” (Matteo 21.43).

Abbiamo poi altri stimoli di riflessione offertici anche dal fatto che, come Gesù pregava il Padre rapportandogli ogni cosa, lo stesso facevano i discepoli con lui, in particolare al ritorno della loro missione quando leggiamo “Tornati dal loro giro, gli apostoli riferirono a Gesù tutto quello che avevano fatto” (Luca 9.10). Da qui il fatto che la preghiera non è, come purtroppo molti fanno, un elenco di ciò che ci necessita, ma soprattutto un esame, un rapportare quanto da noi operato per avere consigli, indirizzi, trovare soluzioni a problemi che devono essere soprattutto personali, per come affrontare dignitosamente il giorno, per correggere quei difetti e mancanze che sappiamo benissimo di avere e che possono rallentarci nella nostra vita cristiana.

Pregare, allora, non è facile perché prima bisogna essere di un’onestà assoluta prima con noi stessi perché chi ci ascolta non si può ingannare. E infatti, è scritto “Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia – due cose –  e le altre cose vi saranno date in aggiunta” (Matteo 6.19). Amen.

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13.20 – CHI INVITARE (Luca 14.12-14)

13.20 – Chi invitare (Luca 14.12-14)          

 

12Disse poi a colui che l’aveva invitato: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio. 13Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; 14e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti».

 

            Siamo giunti al secondo intervento verbale di Gesù che, dopo aver parlato a quelli che cercavano i primi posti in quel convito sabatico, ora si rivolge proprio “a colui che l’aveva invitato” ed è proprio qui che credo risieda la corretta lettura delle parole che verranno.

Così come al gruppo degli invitati viene detto di fare attenzione a dominare la propria vanità spostando il concetto su un terreno spirituale e scritturale, il fariseo viene esortato a rifuggire dalla logica del “do ut des” alla quale non solo lui, ma tutti i presenti oltre a chi aveva alte cariche, erano abituati.

Le normali relazioni interpersonali, solitamente, sono utili a tutti e soddisfano il semplice e disinteressato piacere di stare insieme e condividere, ma raramente questo avviene tra le categorie sociali elevate in cui il ritrovarsi serve a consolidare conoscenze, alleanze o anche il semplice confronto tra pari per alimentare il proprio orgoglio, in altri termini specchiarsi l’uno nell’altro per scoprirsi membri di una stessa “corporazione”. Ricordiamo anche i pranzi o le cene di lavoro in cui perfetti sconosciuti sono costretti a confrontarsi e recitare una parte per ottenere un risultato commerciale.

            Le parole di Gesù che abbiamo letto, poi, rivestono ancora più valenza nel fatto che furono pronunciate ad un uomo che, seppure importante per carica, non viveva in un grosso centro urbano né poteva dirsi particolarmente addentrato nel vero potere, quello che stava a Gerusalemme, ma comunque teneva molto ai “ricchi vicini” (a parte parenti e fratelli, cioè appartenenti alla sua corporazione) per cui, sostanzialmente, il suo atteggiamento si configurava nel modo che abbiamo descritto. In pratica, alla franchezza e alla spontaneità delle relazioni, si era sostituito il calcolo e l’interesse, come prova lo stesso invito a Gesù, rivoltogli evidentemente per poter coglierlo in flagranza di chissà quale reato e non per avere a casa propria qualcuno che avrebbe potuto cambiare radicalmente il proprio destino spirituale.

            La stessa frase “perché a loro volta non t’invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio” rivela questa mancanza di apertura l’uno verso l’altro; “t’invito perché tu m’inviti” era una frase che certo non veniva mai pronunciata, ma che si poteva ascoltare, respirare, vedere in ogni gesto, in ogni sguardo, nella forma stessa del convito. Era una consuetudine che rendeva tutti prigionieri e il pranzo era una formalità da adempiere, come testimonia il fatto stesso che fosse di sabato, giorno in cui si mangiava ciò che era stato preparato il venerdì, quindi non certo lautamente, quindi chi era lì aveva un motivo che andava oltre al semplice piacere per il cibo. Questo motivo non era da ricercare in qualche strategia per ottenere un favore, ma bastava anche solo essere presenti lì, ammessi, invitati da una persona in vista per poter farsi notare o dire «io c’ero».

            Si trattava quantomeno della situazione psicologica (e dei suoi contrari) già descritta in Luca 6.32-35: “Se amate quelli che vi amano, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori amano quelli che li amano. E se fate del bene a coloro che fanno del bene a voi, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori fanno lo stesso. E se prestate a coloro da cui sperate ricevere, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori concedono prestiti ai peccatori per riceverne altrettanto. Amate invece i vostro nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e la vostra ricompensa sarà grande e sarete figli dell’Altissimo, perché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi – nel senso che non li tratta come meriterebbero ai nostri occhi-. Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso”. Da sottolineare sicuramente “Anche i peccatori fanno lo stesso” a conferma che il comportamento cristiano non può ricordare, avere alcuna parentela con quello del mondo.

            All’organizzatore del convito a questo punto viene detto, al posto dei propri conoscenti altolocati e magari parenti vari, di invitare ben altre categorie di persone: poveri, storpi, zoppi e ciechi, cioè quelli che nella società di allora sopravvivevano con molta fatica dovendo dipendere tutti da altrui interventi caritatevoli che certo erano prescritti dalla Legge, ma che raramente venivano effettuati con amore. Anche la parabola del “buon samaritano” che abbiamo esaminato mette in risalto un amore che non necessariamente sarebbe stato dovuto nei confronti della vittima dei predoni, che pure è alla base della cura di quell’uomo. E qui, come nelle parole di Gesù al fariseo, constatiamo l’amara verità del sistema in cui viviamo: ti assiste o finge di farlo (cassa integrazione, servizi sociali, etc.), ti cura o finge di farlo (medicina di base, ospedali), ma non ti ama o, peggio, in alcuni casi simula un interesse o un sentimento che non prova in alcun modo perché può essere “terapeutico”. La persona è così costretta a mendicare un’attenzione, un interessamento la cui sincerità non potrà mai andare oltre a quella di una frase di circostanza, pronunciata magari con tanto di volto apparentemente adeguato al caso di specie.

            Ecco allora che Nostro Signore sposta tutta la lettura degli intenti umani su un piano che non ha nulla di letterale nel senso che le istruzioni che dà sul modo di organizzare un convito o di curare una persona non hanno alcun valore se non si va alla radice interiore del problema, nostro e altrui perché altrimenti il ”far del bene” potrebbe diventare un alibi per la propria coscienza e finire per generare le stesse relazioni che s’instaurano fra “amici, fratelli, parenti e ricchi vicini”.

            Piuttosto, con l’invito a chiamare quelli che non possono contraccambiare, Gesù intende fare riferimento ancora una volta allo spogliare se stessi, a rinunciare a quanto abbiamo di caro visto nelle consuetudini, nei piaceri egoistici, a tutto ciò che porta al “volere”, “potere” ed “essere” di cui abbiamo accennato nelle scorse riflessioni.

Siamo nulla perché, se fossimo qualcosa, non moriremmo.

Sappiamo che il povero poteva sperare nella benevolenza di chi pranzava perché gli offrisse gli avanzi, ma non è questo di cui parla Gesù, che chiama in causa prima di tutto l’atteggiamento: devi trattare le persone allo stesso modo perché sono tuoi fratelli, in quanto appartenenti al tuo popolo ed è qui che si rivela la figura del “prossimo” che non può essere generalizzata come facciamo nel nostro tempo per cui, a quel tempo, un distacco, un disinteressamento nei confronti dell’altro era davvero una contraddizione: erano tutti figli di Abrahamo.

            Ancora una volta, nella lettura dei Vangeli, emerge quanto sia importante contestualizzare certi eventi o parole di nostro Signore pena un grosso fraintendimento, poiché parrebbe che qui sia in un certo qual modo “proibito” organizzare una cena coi nostri cari e venga “caldeggiato” di fare la stessa cosa con poveri o menomati, ma non è così, altrimenti si incorrerebbe nell’errore commesso da S. Luigi di Francia (Luigi IX, 1200 ca,) o la regina Edwige di Polonia (1300), entrambi santi per la Chiesa di Roma che, in ossequio a queste parole, mantenevano rispettivamente 900 e 1200 poveri senza che facessero nulla.

            Al contrario, Gesù qui parla ad un ebreo e lo invita a coinvolgere nelle sue iniziative altri ebrei che, non ricchi né benestanti, ma privi di un sostentamento, avevano comunque in comune una storia: anche loro, lo abbiamo citato, erano figli di Abrahamo, quindi della promessa del Cristo. Anche loro avevano una tribù d’appartenenza, forse diversa in quanto a nome, ma tutte facenti riferimento a Giacobbe, chiamato da Dio Israele, e ai suoi dodici figli. Tutti, ricchi e poveri, erano i discendenti di coloro che furono chiamati dalla schiavitù d’Egitto e liberati perché facenti parte del popolo che Iddio aveva scelto perché lo servissero e seguissero ed ecco perché non era concepibile che una classe sociale agiata non si occupasse di quelle più deboli, a parte quanto imposto dalla Legge.

A parte le norme sulla spigolatura, sul raccolto che non doveva essere meticoloso per dare l’opportunità al povero di nutrirsi, ricordiamo la regola della decima annuale e triennale: “Alla fine di ogni triennio metterai da parte tutte le decime del tuo provento in quell’anno e le deporrai entro le tue porte. Il levita, che non ha parte né eredità con te, il forestiero, l’orfano e la vedova che abiteranno le tue città, mangeranno e si sazieranno, perché il Signore, tuo Dio, ti benedica in ogni lavoro a cui avrai messo mano” (Deuteronomio 14.29). Si noti la presenza del “forestiero” che veniva accolto a condizione di integrarsi sul serio cioè accettando non solo le regole del popolo che lo ospitava, ma soprattutto aderendo al patto di Dio attraverso la circoncisione.

            Ricordiamo anche la festa delle Settimane: “Quando si metterà la falce nella messe, comincerai a contare sette settimane e celebrerai la festa delle settimane per il Signore, tuo Dio, offrendo secondo la tua generosità e nella misura in cui il Signore, tuo Dio, ti avrà benedetto. Gioirai davanti al Signore, tuo Dio, tu, tuo figlio e tua figlia, il tuo schiavo e la tua schiava, il levita che abiterà le tue città, il forestiero, l’orfano e la vedova che saranno in mezzo a te, nel luogo che il Signore, tuo Dio, avrà scelto per stabilirvi il suo nome. Ricordati che sei stato schiavo in Egitto: osserva e metti in pratica queste leggi” (Deuteronomio 16.9-12).

            L’aiuto ai deboli però andava ben oltre ad una fredda applicazione di una norma, ma doveva essere qualcosa di naturale, che sgorgasse da un cuore disponibile, come dalle parole di Isaia che, facendo da tramite con Dio, ricordò cosa fosse il vero digiuno: “Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza trascurare i tuoi parenti?” (58.7). Infine Proverbi 14.31 “Chi opprime il povero offende il suo creatore, chi ha pietà del misero lo onora”.

            C’è però una chiave di lettura, allora come oggi, che in questo episodio resta, ed è rinvenibile nella frase “sarai beato perché non hanno da ricambiarti” (v.14): all’uomo naturale suona una contraddizione, perché quasi sempre la persona agisce per un tornaconto personale nel senso che, se dà, si aspetta qualcosa in contraccambio e non a caso, quando si dice “grazie”, plurale di “grazia”, si esprime riconoscenza, una amichevole dichiarazione di essere in debito per qualcosa.

            Se allora chi fa un favore, una cortesia, un gesto positivo nei confronti di qualcuno in un certo senso lega a sé la persona cui lo ha rivolto, non così accade per chi non può ricambiare ed è qui che sta la beatitudine nel senso che, se fossimo soli, potremmo ritenere sprecata una buona azione rivolta a chi non può ripagare, ma intervenendo il Dio che vede e che sa, questa persona riceverà la sua “ricompensa alla resurrezione dei giusti”, cioè quando ciascuno verrà giudicato secondo le sue opere perché “tutti dobbiamo comparire davanti al Tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno la ricompensa delle opere compiute quando era nel corpo, sia in bene che in male” (2 Corinti 5.10).

            E questa frase è per i credenti di grande responsabilità, perché diretta a loro: l’incontro con Cristo non sarà come quello che certi uomini, vissuti ai tempi di Gesù, hanno sperimentato, cioè con una persona “umile e mansueta di cuore”, con Colui che “non è venuto per essere servito, ma per servire” ma con l’ “IO SONO”, “l’Alfa e l’Omega, il Principio e la Fine” la cui visione provocò nell’apostolo Giovanni, che con Gesù aveva un rapporto particolare a differenza degli altri undici, un mancamento: “Appena lo vidi, caddi ai suoi piedi come morto” (Apocalisse 1.17). Sarà al Tribunale di Cristo che molti ultimi saranno primi e viceversa, perché i Suoi occhi, il fuoco “che farà la prova dell’opera di ciascuno” e la “spada a due tagli” che esce dalla Sua bocca selezioneranno, separeranno, vaglieranno in modo assolutamente perfetto nel senso che non sarà possibile, come nella giustizia umana, cercare un secondo o un terzo grado di giudizio per vedersi stornata la decisione del primo Tribunale a nostro favore.

            Notare il possessivo “tua ricompensa”, cioè qualcosa di adatto a te, perché ogni nostra azione ne ha una, nel bene e nel male e qui voglio concludere: se è vero che per ogni nostro sbaglio, errore o peccato più o meno di inavvertenza c’è il perdono di Dio qualora riconosciuto, confessato e lasciato, è altrettanto vero che per ogni volta che veniamo perdonati è richiesto un attento esame su noi stessi perché non abbiamo a ripetere lo stesso errore, ricordando l’esortazione “Va’ e non peccare più, che peggio non ti avvenga”. E per trarre beneficio da un errore occorre valutarsi molto, andando a cercare la genesi, sviluppo e compimento di quell’errore, o peccato. Anche questo rientra in quel processo che porta l’uomo nuovo a rinnovarsi “per una piena conoscenza, ad immagine di Colui che lo ha creato”(Colossesi 3.10). Amen.

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13.19 – LA PARABOLA DEI PRIMI POSTI (Luca 14.7-11)

13.19 – La parabola dei primi posti (Luca 14.7-11)        

 

7Diceva agli invitati una parabola, notando come sceglievano i primi posti: 8«Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, 9e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: «Cedigli il posto!». Allora dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto. 10Invece, quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: «Amico, vieni più avanti!». Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. 11Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato».

 

            Nella precedente riflessione avevamo dedotto che Nostro Signore fosse arrivato con anticipo al pranzo proprio dal particolare espresso al verso settimo, “notando come sceglievano i primi posti”. Abituati a partecipare più o meno occasionalmente a pranzi o a cene di conoscenti più o meno cari, viene istintivo pensare a uno o più tavoli imbanditi con sedie, ma ai tempi e nei territori di Gesù non era così: si stava sdraiati sui triclinii, praticamente dei letti, che contemplavano la possibilità di avere tre posti – ecco la ragione del suffisso “tri” – il cui centrale era quello ritenuto più onorevole. Inoltre, tanto più il triclinio era vicino a quello del padrone di casa, tanto più il posto suscitava l’ambizione dei partecipanti, come osservò Gesù stesso in Matteo 22.6 quando, parlando dei farisei, disse “Si compiacciono nei posti d’onore nei banchetti”. I triclinii erano poi disposti attorno a una tavola centrale sulla quale trovavano posto i cibi e le bevande.

Ebbene, Gesù assisté alla corsa ai “primi posti” da parte di persone attratte dal fatto di sedere a fianco di chi li aveva invitati, illudendosi così di avere un posto importante in quell’occasione, senza pensare che quel capo fariseo non avrebbe consentito a uno qualsiasi di sedere accanto a lui. Di qui l’intervento di Nostro Signore, non certo teso a insegnare le buone maniere sul prender posto a tavola.

E il primo tema che viene trattato è il desiderio di primeggiare, presente da sempre nell’essere umano, in un modo o in un altro. È qualcosa che non ha nulla a vedere con chi ha posizioni di prestigio guadagnate per capacità e meriti – fatto ai nostri giorni sempre più raro –  ma che coinvolge coloro che, senza alcuna qualità, hanno raggiunto posti di riguardo grazie ad artifizi, sotterfugi, raccomandazioni. Qualora ciò accada – e purtroppo soprattutto nella nostra società è la regola –, quando si crea uno squilibrio tra i verbi “volere”, “potere” ed “essere”, il risultato non può essere che devastante.

Il primo insegnamento sulla parabola, allora, si può dire che riguardi l’ambizione, la stessa che avevano tutti quegli scribi e farisei – ad esempio – che non solo, come ricordato poco prima, si compiacevano “nei posti d’onore nei banchetti”, ma amavano farsi vedere pregare dalla gente o a tutti i costi farsi notare quando facevano l’elemosina, esempi proposti da Gesù nel Sermone sul Monte. Proprio in quell’occasione abbiamo l’invito a fare l’esatto contrario perché “Il Padre tuo, che vede nel segreto, te ne darà ricompensa”.

Anche nella Chiesa abbiamo chi ambisce a posizioni di prestigio per pura vanità personale, senza interrogarsi se il ministero lo ha avuto da Dio come dono oppure se è un abito che si è cucito addosso, se ha ricevuto davvero dei talenti della cui gestione dovrà rendere conto, oppure è un “semplice” figlio di Dio, salvato per grazia, la cui presenza è importante nei radunamenti di Chiesa e per il quale comunque il Signore ha riservato altri compiti, dove con “altri” non s’intende meno onorevoli. Si tratta, è bene ricordarlo, di quel servitore cui è stata data la gestione di un talento, quindi qualcosa di ben di più di un nulla, da far fruttare esattamente come gli altri suoi colleghi che ne avevano avuti di più. Concettualmente, di base quindi, non ci può essere un credente superiore ad altri perché tutti sono comunque dei peccatori perdonati.

Tornando all’episodio, la ricerca dei primi posti in quel convito denotava la vanità e l’orgoglio dei partecipanti che agivano così senza pensare minimamente alla relazione che avevano col padrone di casa, che avrebbe gradito o meno la vicinanza dei suoi commensali. Entrambi questi sentimenti fanno parte dell’uomo naturale, esistono in maniera più o meno accentuata in base al suo carattere, ma sono alla radice del male; ricordiamo infatti Salmo 10.4 “Nel suo orgoglio il malvagio disprezza il Signore: «Dio non ne chiede conto, non esiste!»; questo è tutto il suo pensiero”. “Tutto” nel senso che, a prescindere da quanto possa fare e dire, la base è quella, priva da qualsiasi originalità e, partendo da essa, non può che proporre argomenti e temi che si riciclano da sempre, situazione che ha fatto scrivere a Salomone “Quel che è stato sarà e quel che si è fatto si rifarà; non c’è niente di nuovo sotto il sole”(Qoelet 1.9,10). Ricordiamo invece Salmo 19.4 “Anche dall’orgoglio salva il tuo servo perché su di me non abbia potere: allora sarò irreprensibile, sarò puro da grave peccato”.

Ricordiamo poi le censure più o meno velate espresse da Gesù in proposito al voler trasporre il metodo umano alle realtà spirituali ad esempio quando i dodici “discutevano tra loro su chi fosse il più grande”ottenendo da Lui una descrizione esattamente contraria alla visione umana di un “capo” (Luca 9.46), o più ancora, in un episodio che incontreremo, quando Salome, madre di Giacomo e Giovanni, Gli chiese che i suoi figli, nel Regno, potessero sedere l’uno alla Sua destra e l’altro alla Sua sinistra (Matteo 20.21). La risposta di Nostro signore fu “… sedere alla mia destra e alla mia sinistra non sta a me concederlo: è per coloro per i quali il Padre mio lo ha preparato”(v.23).

E qui allora ci raccordiamo al nostro episodio, dove credo emerga in primo luogo la delicatezza di Gesù che, ai presenti, parla in modo tale da non urtarne la suscettibilità prendendo come esempio un convito nuziale, quindi esponendo una breve parabola. Occorre fare attenzione perché la parabola non è volta ad illustrare il convito nel Regno di Dio – compito che verrà svolto da altre –, ma della necessità dell’umiltà come metodo: chi viene invitato a nozze e sceglie un posto di riguardo senza che gli sia stato indicato, può incorrere nel rischio di magre figure una volta che, giunto qualcuno più importante di lui, costringa chi ha fatto l’invito a entrambi a dire all’usurpatore “Cedigli il posto!”. Infatti “L’orgoglio dell’uomo ne provoca l’umiliazione, l’umile di cuore ottiene onore”(Proverbi 29.23), lo raccordiamo alle parole “dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto”(v.11) non come castigo ma perché, mentre l’usurpatore se ne stava seduto compiacendosi della posizione che aveva conquistato, altri più accorti di lui avevano occupato tutti gli altri spazi.

A questo punto possiamo vedere che lo stesso “ultimo posto”causa di umiliazione per l’orgoglioso, torna invece ad onore per chi lo avrà scelto di sua volontà vuoi per umiltà, prudenza o delicatezza nei confronti di chi lo ha invitato: “Va’ a metterti all’ultimo posto, perché quando viene chi ti ha invitato ti dica: «Amico, vieni più avanti!». Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali”(v.10).

Certo, con queste parole Gesù non intende fare scuola di bon ton ai presenti, che tra l’altro di questo mancavano vistosamente, ma dare loro una traccia per considerare quanto fosse distante quel comportamento dal metodo di ogni vero credente anche del loro tempo, perché “il timore di Dio è scuola di sapienza, prima della gloria c’è l’umiltà”(Proverbi 15.33 ribadito in 18.12 con la premessa “Prima della caduta il cuore dell’uomo s’innalza”) e infine, strettamente raccordato alla contingenza del momento, “Non darti arie davanti al re e non metterti al posto dei grandi, perché è meglio sentirsi dire: «Sali quassù!» piuttosto che essere umiliato davanti a uno più importante” (25.6.7). Ricordiamo che si tratta di versi che gli invitati al convito di quel fariseo dovevano conoscere e probabilmente conoscevano, ma che la religiosità aveva impedito loro di assimilare.

Quindi, se in un’occasione sotto certi aspetti banale come un convito nuziale, vale l’umiltà, quanto più andrà attuata nell’ambito del servizio nella Chiesa dove Gesù, a parte le raccomandazioni e le risposte date ai dodici dietro loro richiesta, proprio dopo l’episodio di Salome e della sua richiesta inopportuna, disse “Voi sapete che i governanti delle nazioni dòminano su di esse e i capi le opprimono. Tra voi non sarà così; ma chi vuole diventare grande tra di voi, sarà il vostro servitore e chi vuole essere il primo tra voi, sarà vostro schiavo. Come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”(Matteo 20.25-28).

Si noti che con queste parole Gesù tronca sul nascere qualsiasi velleità nel senso che “chi vuole diventare grande”nella Chiesa o vuole essere “il primo”è chiamato a fare qualcosa che certamente non farà mai, farsi servitore e addirittura schiavo, posizioni incompatibili con chi è orgoglioso. Ricordo che quando da bambino leggevo il Vangelo ero molto attratto da come veniva esaltata l’umiltà a dispetto del mondo che mi circondava, certo piccolo, ma popolato da parenti che mi esortavano ad essere ambizioso e si stupivano quando mi sentivano dire che preferivo essere umile, il che non significa farsi calpestare, ma lasciare che fossero altri a seguire sentieri che alla fine li avrebbero umiliati.

Il commento finale di Nostro Signore alla sua breve parabola è lapidario, “perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato”(v.11), frase importantissima non solo perché fa da ponte con un’altra parabola che verrà esposta di lì a poco, ma perché conclude in poche parole, nel nostro caso dodici, la fine di tutta l’esistenza della persona indipendentemente dal fatto che creda oppure no. Ha scritto un fratello che c’è nel cuore umano una tendenza naturale ad umiliare l’uomo arrogante e presuntuoso, ma non si trova la tendenza corrispondente ad esaltare chi è modesto e meritevole. Così va il mondo.

Ma “Dio resiste ai superbi e fa grazia agli umili”(Giacomo 4.6), “Rivestitevi tutti di umiltà gli uni verso gli altri”(1 Pietro 5.5), perché? Perché nulla di ciò di materiale che abbiamo, cose, posizione sociale, meriti eventualmente acquisiti sul lavoro o nella nostra cerchia di conoscenze più o meno grande, potremo utilizzarla per avere una posizione nel mondo a venire. E rimarrà solo quanto avremo fatto e dato al prossimo in quanto figli di Dio. Amen.

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13.18 – L’UOMO IDROPICO (Luca 14.1-6)

13.18 – L’uomo idropico (Luca 14.1-6)      

 

1 Un sabato si recò a casa di uno dei capi dei farisei per pranzare ed essi stavano a osservarlo. 2Ed ecco, davanti a lui vi era un uomo malato di idropisìa. 3Rivolgendosi ai dottori della Legge e ai farisei, Gesù disse: «È lecito o no guarire di sabato?». 4Ma essi tacquero. Egli lo prese per mano, lo guarì e lo congedò. 5Poi disse loro: «Chi di voi, se un figlio o un bue gli cade nel pozzo, non lo tirerà fuori subito in giorno di sabato?». 6E non potevano rispondere nulla a queste parole.

 

            Non sfugge il fatto che, nel nostro commento, abbiamo tralasciato i versi da 13.21 fino alla fine dello stesso capitolo, che tratteremo più avanti; ciò è dovuto al fatto che Luca predilige una narrazione per quadri non cronologica ed è opinione comune che, all’episodio del miracolo della donna rattrappita, la guarigione dell’uomo idropico avvenne una settimana dopo. Ricordiamo infatti 13.22, “Passava insegnando per città e villaggi, mentre era in cammino verso Gerusalemme”. Quali furono i contenuti dell’insegnamento di Gesù? Quelli che abbiamo letto e leggeremo, non potendo categoricamente stabilire dove questo venne impartito alle folle o ai singoli.

Ebbene Gesù, giunto in un villaggio innominato, si recò con anticipo rispetto all’ora di pranzo a casa di uno dei capi dei farisei, evidentemente da lui invitato. Certo, costui era una persona importante, poiché il termine “árchon” a lui riferito poteva indicare un membro dei Sinedrio, un capo della sinagoga o un Magistrato, oltre che naturalmente “uno dei capi dei farisei”.

Che il pranzo, frugale essendo sabato, non fosse ancora iniziato lo rileviamo dal verso 7, quando Gesù esporrà la parabola dei posti a sedere: “Diceva agli invitati una parabola, notando come sceglievano i posti”. Quindi la scena dei nostri primi due versi descrive questo: Gesù viene invitato a pranzo da “uno dei capi dei farisei”, giunge assieme ad altri (parte dei quali assisteranno all’episodio, altri arriveranno dopo) alla spicciolata e nota due cose: da una parte gli sguardi dei religiosi – abbiamo letto “stavano a osservarlo”, presumiamo in modo non amichevole – e dall’altra la presenza un uomo “malato di idropisia”, evidentemente in modo grave poiché la cosa era visibile.

L’idropisia, o anasarca, in realtà, più che una malattia, è il sintomo di una grave infezione interna che si manifesta con un edema generalizzato, cioè con un ristagno di liquido in tutto il corpo.

L’idropico appare come abnormemente rigonfio d’acqua, a tal punto da essere fortemente impedito nei movimenti ed avere bisogno di essere sorretto da altri e potrebbe trovarsi in quelle condizioni, insufficienza renale a parte, per insufficienza cardiocircolatoria, gravi affezioni del fegato, specialmente cirrosi. Possiamo immaginare la sofferenza di quella persona, impossibilitata a condurre una vita dignitosa ancor di più pensando alla calura che pativa più degli altri. Poteva soltanto cercare di sopravvivere, e col tempo aveva imparato a non turbarsi più di tanto per gli sguardi altrui di curiosità e compatimento. Nulla possiamo sapere di lui salvo che soffrisse, ma certo il suo disagio era visibile a chiunque perché si manifestava, appunto, come abbiamo visto.

Dalle parole “stavano a osservarlo”e “davanti a lui vi era un uomo malato”rileviamo che la vera natura dell’invito da parte del “capo dei farisei”poteva essere proprio questa: mettergli di fronte un infermo sperando che lo guarisse per poi usare quell’azione contro di Lui in un giudizio che sicuramente sarebbe avvenuto. Pare singolare, rispetto al precedente miracolo operato in giorno di sabato, che qui l’infermo è “davanti”a Gesù, mentre nella sinagoga “c’era là una donna che uno spirito teneva inferma da diciotto anni”: se la presenza di quest’ultima era “ordinaria” nel senso che evidenzia la volontà di partecipare all’assemblea e una frequenza presumiamo assidua, lo stesso non si può dire dell’idropico, che era là per una ragione sulla quale si esprimono due possibilità, cioè che fosse lì di sua volontà per chiedere a Gesù di essere guarito, oppure secondo un piano dei farisei che, sapendo la posizione del loro avversario sul punto, desideravano porre le premesse per un nuovo miracolo in giorno di sabato e quindi accusarlo.

Anche se è giusto porre attenzione a non far dire a Luca ciò che ha omesso, credo che il modo con cui Nostro Signore esordisce, cioè chiedendo proprio ai suoi oppositori “È lecito o no guarire in giorno di sabato?”, sia stato un modo per coglierli di sorpresa e costringerli a dargli un parere. E, infatti, tacciono perché, se avessero risposto di sì, avrebbero annullato tutte le accuse precedenti in proposito, ma se il parere fosse stato negativo, loro che avevano il dovere di spiegare la legge al popolo, avrebbero anche dovuto citare un passo, scritturale e non della loro tradizione, che contenesse la proibizione di guarire qualcuno in quel giorno.

È a questo punto che Gesù fa qualcosa di particolare, prende per mano quell’uomo, un’azione che personalmente mi stupisce molto di più del fatto che lo guarisce e lo licenzia: furono infatti quattro le persone che furono prese in quel modo: la suocera di Pietro, la figlia di Jairo, il ragazzo epilettico di Marco 9.27 e infine l’idropico, un numero importante, il quattro, applicato a persone in balia di forze esterne dalle quali non riuscivano, né avrebbero mai potuto, liberarsi. Possiamo dire, alla luce non solo dell’esperienza di queste persone, che Gesù interviene là dove altrimenti non esisterebbe prospettiva, speranza, soluzione e cammino. E tutte le guarigioni da lui operate si trovano qui riassunte, parlandoci il quattro dell’essere umano e di ciò di cui ha bisogno.

La guarigione dell’uomo idropico – raccontata da Luca che era medico – è un’altra non richiesta dal diretto interessato, per quanto non possiamo escludere che tra i due sia intercorso un dialogo muto, fatto di soli sguardi. Se era là perché aveva saputo della presenza di Gesù e voleva guarire, o perché lì posto dai farisei quale strumento delle loro congiure, fu liberato comunque da una condizione certamente penosa e umiliante.

Dopo averlo preso per mano, Gesù lo guarisce – e non poteva essere altrimenti – e lo congeda: perché, se stava per consumarsi un pasto cui avrebbe potuto partecipare? È una domanda assurda: guarito dalla malattia, che in realtà erano due in quanto l’idropisia era piuttosto un sintomo, una reazione del corpo ad un’altra patologia spirituale, era giusto che stesse da solo a gioire per il proprio ristabilimento in salute, ma soprattutto pensare al privilegio ricevuto; Gesù, come aveva fatto con tanti comunque, lo aveva visto, aveva compreso il suo dolore di vivere, ed era intervenuto prendendolo per mano il tempo strettamente necessario perché guarisse. Era come se avesse voluto percorrere con lui il percorso di guarigione, a dirgli “con me guarisci, senza di me rimani quello che sei, anzi peggiori”. Una volta ciò avvenuto, stava a quell’uomo trarre le conclusioni del caso.

Una nota molto importante va fatta nel modo in cui è stato tradotto il verso 5, “Chi di voi, se un figlio o un bue gli cade nel pozzo…”che si basa su una versione errata del testo in cui l’originale “asino”viene tradotto con “figlio”non per imperizia, ma per un voler enfatizzare il verso dall’anonimo copista del greco che sostituì “uiòs”(figlio) all’originale“ònos”(asino) rendendo così difficile capire il senso del verso che, così composto, porrebbe sullo stesso piano un figlio a un bue, cosa chiaramente impossibile.

In realtà Gesù, con le sue parole, volle mettere in risalto come, se la compassione verso gli animali avrebbe spinto i suoi oppositori ad intervenire a loro vantaggio con un animale di loro proprietà, in giorno di sabato, compiendo certamente degli sforzi da paragonare a un lavoro, Lui avrebbe potuto guarire senza sforzo una persona che, rispetto a quelle creature, era certamente più importante, cioè un essere umano, alle origini fatto a immagine e somiglianza di Dio.

Citando l’asino e il bue Gesù si rifà a Esodo 23.5 e Deuteronomio 23.4, in cui è scritto “Quando vedrai l’asino del tuo nemico accasciarsi sotto il carico, non abbandonarlo a se stesso: mettiti con lui a scioglierlo dal carico”e “Se vedi l’asino di tuo fratello o il suo bue– ecco perché “figlio”non ha senso – caduto lungo la strada, non fingerai di non averli scorti, ma insieme con lui li farai rialzare”.

Abbiano quindi Nostro Signore che cita due passi di Scrittura da una parte, ma i farisei dall’altra che “non potevano rispondere nulla a queste parole”, Diodati aggiunge “in contrario”. Perché alla parola di Dio non possiamo mai opporre qualcosa e perché “IO” trova senso solo se affiancato alla D: toglierla, trascurarla, escluderla, implica uno squilibrio che non può che portare alla rovina.

Credo che vi sia un altro significato alla domanda di Gesù, perché parla di un animale caduto “in un pozzo”e non, come da testo della Legge, oppresso da un peso importabile: se la situazione originaria ci richiama immediatamente al verso in base al quale “il mio gioco è dolce e il mio carico leggero”perché Gesù soccorre sempre l’uomo per primo e lo libera, l’esempio dell’animale caduto suggerisce la sorte che affronta chi si ritrova intrappolato in una condizione senza averla voluta. E, spiritualmente, non esiste essere umano che non assomigli all’animale nel pozzo: per farlo, basta venire al mondo, nascendo inevitabilmente imperfetti e, dopo i pochi anni passati nell’innocenza, s’impara presto a mentire per i propri scopi, a volere, a barare, a cercare una felicità che, al di fuori dell’intervento del Cristo, non può essere raggiunta. Ecco allora che poco importa che quest’uomo sia andato a quel pranzo di sua volontà o fosse stato messo lì dai farisei perché, in ogni caso, cessò di essere una pedina, di se stesso o di altri.

Credo quindi che Gesù, congedando l’uomo idropico, lo abbia voluto porre nelle condizioni di scegliere cosa fare e soprattutto da quale parte stare, quale posto occupare nella sua vita interiore ed esteriore, cosa comunicare, a chi darsi dopo un periodo, che non possiamo quantificare, in cui aveva provato su di sé gli effetti del peccato e dell’imperfezione visto nella malattia che lo aveva afflitto. E sono convinto che il ricordo del calore di quella mano che per un attimo lo aveva preso lo portò con sé per tutta la vita. Amen.

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