13.16 – LA PARABOLA DEL FICO STERILE (Luca 13.5-9)

13.16 – La parabola del fico sterile (Luca 13.5-9)   

 

6Diceva anche questa parabola: «Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. 7Allora disse al vignaiolo: «Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo. Taglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?». 8Ma quello gli rispose: «Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. 9Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai»».

 

            Viene spontaneo supporre che Nostro Signore, che non lasciò mai nulla d’intentato per recuperare le Sue creature, espose questa parabola per far capire ai presenti cosa significasse la Sua presenza in mezzo a loro e dare la descrizione di quanto avrebbe fatto. Ora credo che l’attenzione del lettore debba per ora concentrarsi sui due alberi citati, perché la presenza del fico in una vigna è per noi anomala: abituati a una mentalità che vede la produzione e il guadagno al primo posto, quindi a una coltivazione intensiva che sfrutti ogni metro quadrato di terra, la presenza di un albero estraneo ci sembra uno spreco. Al contrario, ai tempi di Gesù ma anche prima, era frequente trovare un albero di fichi tra le viti ed era sinonimo di pace e prosperità, come da 1 Re 5.5 quando, sotto Salomone, “Giuda e Israele erano al sicuro; ognuno stava sotto la propria vite e sotto il proprio fico, da Dan fino A Bersabea, per tutti i giorni di Salomone”. Ancora, ricordiamo le parole del re d’Assiria al popolo: “Fate la pace con me e arrendetevi. Allora ognuno potrà mangiare i frutti della propria vigna e del proprio fico e ognuno potrà bere l’acqua della sua cisterna”(2 Re 18.31).

Dando un rapido excursus su ciò che questa pianta rappresenta, vediamo che è la prima, dopo gli alberi “della vita”e “della conoscenza del bene e del male”, a trovarsi in Eden. A differenza dei primi due, però, ci parla di qualcosa di temporaneo e soprattutto non adeguato a risolvere appieno i problemi dell’uomo, come leggiamo in Genesi 3.7: “Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e conobbero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture”. Questa conoscenza fu per Adamo ed Eva sconvolgente, perché per la prima volta nella loro vita si videro per quello che erano, privati dell’innocenza che li aveva caratterizzati fino ad allora: la loro non fu una vergogna dovuta dal fatto che i loro organi sessuali erano esposti, ma perché il loro corpo aveva perduto lo splendore che aveva. Consci di questo, cercarono di porvi  rimedio prendendo le foglie grandi del primo albero a portata di mano e intrecciandole, ma scoprirono subito che questo serviva a ben poco, del tutto inutile per il recupero dell’identità, nobiltà e soprattutto dignità perduta. Per questo c’è chi ha ipotizzato che fosse stato proprio il fico ad essere l’albero di cui l’Avversario aveva esortato Eva a mangiarne i frutti.

Il fico, inoltre, ci parla di sostituzione, di passaggio da una condizione di inadeguatezza ad un’altra di idoneità a seguito di un intervento di Dio, poiché sappiamo che quelle “cinture”che i nostri progenitori si erano fatte furono sostituite da un vestito fatto con pelli di animali: “il Signore Dio  – Lui e nessun altro – fece all’uomo e a sua moglie tuniche di pelli e li vestì”(3.21).

Accanto quindi all’utilità di questa pianta e dei suoi frutti, che venivano impiegati anche per scopo medicinale (l’impiastro sull’ulcera di Ezechia in 2 Re 20.7 e Isaia 38.21 a lui correlato), il fico è anche sinonimo di riposo, preghiera e studio della Torah come nel caso di Natanaele cui Gesù disse “Prima che Filippo ti chiamasse, ti ho visto sotto l’albero di fichi”(Giovanni 1.48), ma per la comprensione della nostra parabola va tenuto presente l’intervento di Dio che può essere in salvezza o in giudizio.

Quanto mai attinente è il capitolo 24 di Geremia cui gli viene spiegato il significato di una visione: “Il Signore mi mostrò due canestri di fichi posti davanti al tempio del Signore dopo che Nabucodonosor, re di Babilonia, aveva deportato da Gerusalemme Ieconia, figlio di Ioakim, re di Giuda. I capi di Giuda, gli artigiani e i fabbri li aveva condotti a Babilonia. Un canestro era pieno di fichi molto buoni, come i fichi primaticci, mentre l’altro canestro era pieno di fichi cattivi, così cattivi che non si potevano mangiare, Il Signore mi disse: «Che cosa vedi, Geremia?». Risposi: «Dei fichi, i fichi buoni sono molto buoni, quelli cattivi sono molto cattivi, tanto che non si possono mangiare»– l’uomo, senza rivelazioni di Dio, non può che constatare l’ovvietà delle cose -. Allora mi fu rivolta questa parola dal Signore: «Così dice il Signore, l’Iddio d’Israele: come si trattano con riguardo i fichi buoni, così io tratterò i deportati di Giuda che ho mandato da questo luogo nel paese dei Caldei.– notare “che ho mandato”, quindi la lettura della storia, di ogni storia umana, ha un suo perché spirituale che va al di là di ciò che accade in sé –. Poserò lo sguardo su di loro per il loro bene; li ricondurrò in questo paese, li edificherò e non li abbatterò, li pianterò e non li sradicherò mai più. Darò loro un cuore per conoscermi, perché io sono il Signore; saranno mio popolo e sarò il loro Dio, se torneranno a me con tutto il cuore. Come invece si trattano i fichi cattivi, che non si possono mangiare tanto sono cattivi, così dice il Signore, così io tratterò Sedecia, re di Giuda, i suoi capi e il resto di Gerusalemme, ossia i superstiti di questo paese, e coloro che abitano nella terra d’Egitto. Li renderò un esempio terrificante per tutti i regni della terra, l’obbrobrio, la favola, lo zimbello e la maledizione in tutti i luoghi dove li scaccerò. Manderò contro di loro la spada, la fame e la peste, finché non saranno eliminati dalla terra che io diedi a loro e ai loro padri”.

 

Il fico e la vigna della parabola stanno in un terreno unico, di proprietà di Dio, accuratamente separato dal resto del podere, la cui cura è stata affidata a una persona di Sua assoluta fiducia e infatti il Figlio, come Parola, ha sempre abitato e coltivato coloro che sono Suoi. È  proprio quest’ultimo albero, la vite, a parlarci di responsabilità, come rileviamo dalla parabola dei contadini omicidi di Luca 20.9-16. Inoltre, la vite-vigna ci parla del progetto e della cura visibile di Dio sul Suo popolo: “Hai sradicato una vite dall’Egitto, hai scacciato le genti e l’hai trapiantata. Le hai preparato il terreno, hai affondato le sue radici ed essa ha riempito la terra. La sua ombra copriva le montagne e i suoi rami i cedri più alti. Ha esteso i suoi tralci fino al mare, arrivavano al fiume i suoi germogli. Perché hai aperto le brecce nella sua cinta e ne ha vendemmia ogni passante? La devasta il cinghiale del bosco e vi pascolato le bestie nella campagna” (Salmo 80.9-14).

Da questo passo, sorprendentemente legato a quello di Geremia 24 e al nostro, vediamo che entrambi, fico e vite, non sono autonomi nel loro sviluppo, ma hanno bisogno di cura e assistenza che non può che venire da Dio. E qui è impossibile non pensare a Gesù, in Giovanni 15 1-7 disse “Io sono la vite vera e il Padre mio l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio ce porta frutto, lo pota perché porti più frutto.(…) Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto”.

A questo punto è facile vedere nella vite ciò che vive nel e per l’amore di Dio e che da Lui stesso trae nutrimento – Israele prima e la Chiesa poi – e nel fico un albero piantato perché desse frutto senza che ciò avvenisse, quindi simbolicamente l’Israele di allora che da lontano appariva come un fico rigoglioso, ma una volta avvicinatosi il padrone della vigna risultava non avere quei frutti che prometteva in apparenza.

Anche qui è necessaria un’interpretazione che non sia a senso unico perché indubbiamente Gesù parla agli uomini del suo tempo, ma anche a noi e allora il fico va identificato sì nell’Israele che non portò alcun frutto nonostante i tre anni di ministero di Nostro Signore, ma anche in tutti coloro che nella Chiesa appaiono “belli di fuori”, ma dentro non hanno saputo sviluppare nulla nonostante la Sua presenza continua in essa, “tutti i giorni fino alla fine del mondo”.

Rimanendo però allo stretto argomento della parabola, vediamo che il padrone “Venne a cercarvi dei frutti, ma non ne trovò”, decretando la condanna della pianta: come ha scritto un fratello, “I frutti che Dio si aspettava dai Giudei, e che egli aspetta da ciascuno di noi, sono quelli della giustizia, di un cuore convertito, una volontà rinnovata, degli affetti rivolti a lui e una vita consacrata al suo servizio. Le foglie di professioni di fede e i fiori di promesse non bastano”.

Dalle parole del proprietario della vigna vediamo che questi non mette affatto in dubbio che il vignaiolo non abbia cercato di prendersi cura del fico e infatti non vi è per lui alcun rimprovero, ma solo l’ordine di eliminare la pianta perché avrebbe impoverito il terreno.

Da notare le parole del lavorante, che chiede la possibilità di prendersi cura dell’albero un altro anno nonostante il suo essere sterile: chiede un periodo in cui si occuperà di lui ancora di più, come un medico si prodigherebbe per salvare la vita ad un malato grave. Gli avrebbe zappato attorno e gli avrebbe messo il concime.

Tre anni di Ministero di Gesù non furono sufficienti a che il fico desse frutto? Poco importa, ve ne sarebbe stato un altro, figura del richiamo attraverso inviti continui: “La sapienza grida per le strade, nelle piazze fa udire la sua voce; nei clamori della città essa chiama, pronuncia i suoi detti alle porte della città: «Fino a quando, o inesperti, amerete l’inesperienza e gli spavaldi si compiaceranno delle loro spavalderie e gli stolti avranno in odio la scienza? Tornate alle mie esortazioni: ecco, io effonderò il io spirito su di voi e vi manifesterò le mie parole. Perché vi ho chiamati ma avete rifiutato, ho steso la mano e nessuno se ne è accorto. Avete trascurato ogni mio consiglio e i miei rimproveri non li avete accolti; anch’io riderò delle vostre sventure, mi farò beffe quando su di voi verrà la paura, quando come una tempesta vi verrà addosso il terrore, quando la disgrazia vi raggiungerà come un uragano, quando vi coglieranno angoscia e tribolazione. Perché hanno odiato la sapienza e non hanno preferito il timore del Signore, non hanno accettato il mio consiglio e hanno disprezzato ogni mio rimprovero”(Proverbi 1. 20-30).

L’anno in più che il vignaiolo chiede al padrone del campo, a differenza degli altri tre, credo che non possa venire quantificato altrimenti se non con un periodo dato all’uomo per rinunciare agli inganni che si è autoinflitto, al termine dei quali non potrà che essere gettato nel fuoco. Nel fico, allora, abbiamo non soltanto Israele, ma tutti coloro che, nella Chiesa, non portano frutto accontentandosi delle apparenze, appunto dell’avere rami e foglie quindi frequentare le assemblee, pregare meccanicamente impiegando formule imparate a memoria, magari impegnandosi in opere di carità, ma senza alcuna scintilla in loro, senza rinunciare a nulla di ciò che ritengono li caratterizzi nella vita, sociale o con se stessi non importa.

Per concludere, per quanto possa dirsi concluso un commento alla Scrittura che è infinita, a conferma del comportamento di Dio verso il suo popolo, possono citarsi due passi importanti di Isaia, uno sulla cura e un altro sul giudizio: “Io, il Signore, ne sono il guardiano, a ogni istante la irrigo; per timore che si danneggi ne ho cura notte e giorno. Io non sono in collera. Vi fossero rovi e pruni, muoverei loro guerra, li brucerei tutti insieme”(Isaia 27.3,4).

Dal secondo passo, invece, vediamo che se la vigna non riconosce tutte queste attenzioni, subirà il seguente destino: “Che cosa dovevo fare ancora alla mi vigna che io non abbia fatto? Perché, mentre attendevo che producesse uva, essa ha prodotto acini acerbi? Ora voglio farvi conoscere ciò che sto per fare alla mia vigna: toglierò la sua siepe e si trasformerà in pascolo; demolirò il suo muro di cinta e verrà calpestata. La ridurrò un deserto, non sarà potata né vangata e vi cresceranno rovi e pruni”(Isaia 5.5-7).

Ecco allora la severa necessità che abbiamo, sempre, di guardare dentro di noi, perché non possiamo porre resistenza agli interventi di Dio nella nostra vita per poter portare un frutto a Lui gradito e accettevole. Amen.

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