13.05 – L’amico importuno (Luca 11.5-8)
5Poi disse loro: «Se uno di voi ha un amico e a mezzanotte va da lui a dirgli: «Amico, prestami tre pani, 6perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da offrirgli», 7e se quello dall’interno gli risponde: «Non m’importunare, la porta è già chiusa, io e i miei bambini siamo a letto, non posso alzarmi per darti i pani», 8vi dico che, anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono. 9Ebbene, io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. 10Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto.
Il passo riportato viene posto da Luca subito dopo l’insegnamento del “Padre Nostro”; a differenza di Matteo, è da lui collocato dopo l’episodio di Marta e Maria quando leggiamo che, qualche tempo dopo, “Gesù si trovava in un luogo a pregare. Quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli»” (v.1). Il problema a questo punto è se ci troviamo di fronte a una diversa collocazione temporale dell’insegnamento del Padre Nostro, oppure se questa fu ripetuta non ai dodici, presenti nel racconto di Matteo, ma ad altri discepoli che, vistolo pregare in modo totalmente diverso da quanto facevano gli scribi e i farisei, capirono la necessità di venire istruiti anche attorno a questo argomento. Possiamo ricordare le parole dell’anonimo discepolo che chiese “Signore, insegnaci a pregare come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli” (v.1) da cui rileviamo che gli evangelisti hanno riportato solo una parte del messaggio del Battista agli uomini, cioè attinente alle sue funzioni di precursore. È tra l’altro impossibile che Gesù abbia trascurato un argomento così importante come la preghiera per affrontarlo solo negli ultimi mesi del Suo Ministero. Piuttosto possiamo dire che il “Padre Nostro” è talmente importante da essere citato per due volte, in momenti diversi, proposto da Luca in una versione più essenziale: “Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno; dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, e perdona a noi i nostri peccati. Anche noi infatti perdoniamo ad ogni nostro debitore, e non abbandonarci alla tentazione” (vv.2-4).
Come nel sermone sul monte, in cui leggiamo “Chi di voi, al figlio che gli chiede un pane, darà una pietra? E se gli chiede un pesce, gli darà una serpe? Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele chiedono!” (Matteo 7.9,10), qui abbiamo l’esposizione di una breve parabola (più altri esempi), quella dell’amico importuno che riflette, attenendoci alla semplice narrazione, la realtà dei paesi caldi in cui non è raro che si scelga di viaggiare, per la maggior parte dell’anno, di notte. In ogni caso, non esistendo allora contenitori in grado di proteggere gli alimenti dalla calura, chi si spostava portava con sé quanto bastava per sfamarsi senza fare provviste, acquistandole poi di volta in volta. Era allora frequente che proprio di notte, capitando nei pressi di abitazioni di persone conosciute come anche di bottegai, il viaggiatore bussasse alla loro casa chiedendo da mangiare. Era una società diversa dalla nostra.
Ora, non avendo la persona interpellata dal viaggiatore da dargli alcunché, si reca da un altro e quindi gli rappresenta il problema. Costui, già addormentato, stanco ma comunque a letto, non si alza neppure ad aprire una finestra, ma risponde “dall’interno” dicendo “non posso alzarmi per darti i pani”: li avrebbe, ma non ha voglia di darli per pigrizia.
Chiaramente siamo chiamati a riflettere sulle parole del verso 8, “vi dico che, anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono”, che potrebbe lasciare intendere che l’insistenza e l’assillare il prossimo (e Dio per relazione) sia la chiave per ottenere le cose. Questa almeno è l’idea del religioso e dei bambini che sanno molto bene, se non hanno genitori responsabili, che possono ottenere dagli adulti ciò che vogliono continuando ad insistere capricciosamente assillandoli. È tra l’altro il motivo per cui i giochi per i bambini, nei grandi magazzini, sono sempre posti in basso o comunque alla loro altezza perché possano prenderli e litigare con gli adulti che il più delle volte, presi dalle necessità del fare compere, pur di farli tacere li accontentano.
In realtà Gesù ricorre a questa parabola, e ad altre di significato analogo, con lo scopo primario di far comprendere la “necessità di pregare senza stancarsi mai” (Luca 18.1) alla luce però dell’intelligenza, che della perseveranza e dell’insistenza dev’essere compagna. Abbiamo letto nella parte finale dei nostri versi la promessa “cercate e troverete”, il cui metodo è illustrato in Proverbi 2. 3-5, “…se appunto invocherai l’intelligenza e rivolgerai la tua voce alla prudenza, se la ricercherai come l’argento e per averla scaverai come per i tesori, allora comprenderai il timore del Signore e troverai la conoscenza di Dio”. Ecco, il paragone con l’argento è molto calzante perché si tratta di un metallo che si trova sempre legato ad altri, come il piombo da cui viene separato con difficoltà, essendo necessario fonderli, raffreddarli e rifonderli di nuovo con un procedimento complicato che prende il nome di coppellazione, quello usato nell’antichità. Il “cercare” di cui parla l’autore del libro dei Proverbi, e quindi Gesù nel nostro passo, non consiste in un tentativo svogliato o approssimativo, ma in un metodo serio e direi professionale.
Credo che, connesso al nostro racconto di Gesù, siano la tenacia, costanza e infaticabilità sostenute da Giacobbe in Genesi 32.25-29: “Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora. Vedendo che non riusciva a vincerlo, lo colpì all’articolazione del femore e l’articolazione del femore di Giacobbe si slogò, mentre continuava a lottare con lui. Quello disse: «Lasciami andare, perché è spuntata l’aurora». Giacobbe rispose: «Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!». Gli domandò: «Come ti chiami?». Rispose: «Giacobbe». Riprese: «Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto contro Dio e gli uomini e hai vinto!»”. Giacobbe vuol dire “Colui che precede” e Israele “Colui che lotta con Dio”.
Anche qui abbiamo la presenza del Figlio in forma umana, come dalle parole “contro Dio e gli uomini” che un angelo non avrebbe mai potuto utilizzare: è il Figlio che mette alla prova Giacobbe che lotta con Lui instancabilmente a tal punto da costringerLo a colpirlo all’articolazione femorale non riuscendo nonostante tutto a fermarlo. Mosè non ci ha lasciato nulla di scritto sull’oggetto della contesa, ma dalle parole “Non ti lascerò se non mi avrai benedetto” è chiaro che a quell’uomo premeva di venire benedetto da Dio non accontentandosi delle parole di suo padre Isacco.
Anche l’articolazione con la quale Giacobbe fu colpito è figura della prova che Dio dà agli uomini perché non si inorgogliscano, come fu per l’apostolo Paolo per la “spina nella carne” che inutilmente chiese che gli venisse tolta (2 Corinti 12.7,8). Se quindi Gesù con la parabola oggetto di riflessione avesse voluto alludere a quanto dobbiamo pregare per un problema materiale, certo avrebbe fatto in modo che Paolo fosse guarito; invece scrive “Per questo, affinché io non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia. A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza»”. Anche qui vediamo che l’apostolo, sperando di venire guarito dal Signore, pregò “per tre volte” e non con richieste continue e petulanti.
Tornando a Giacobbe vediamo che continuò a lottare nonostante il dolore causato dalla slogatura del femore, infortunio caratterizzato dalla fuoriuscita della testa del femore dall’acetabolo dell’osso iliaco: nella classifica delle emergenze mediche occupa un posto di rilievo e comporta spesso, come nel caso di Giacobbe, una lesione al nervo sciatico. Leggiamo infatti che, a conclusione dell’episodio in Genesi, ”Spuntava il sole, quando Giacobbe passò Penuel e zoppiacava all’anca. Per questo gli israeliti, fino ad oggi, non mangiano il nervo sciatico che è sopra l’articolazione del femore, perché quell’uomo aveva colpito l’articolazione del femore di Giacobbe nel nervo sciatico” (32.32,33).
Giacobbe lotta con quell’uomo per tutta la notte fino a quando giunse l’alba, figura del chiarore della consolazione a fronte della notte, immagine dell’afflizione. Dalle parole “Lasciami andare, perché è spuntata l’aurora” del Figlio di Dio in forma umana (v.27), che avrebbero tranquillizzato chiunque perché annunciavano la fine del combattimento, Giacobbe non si smosse perché, più del riposo, gli premeva essere benedetto e così avvenne. Abbiamo così in questo episodio la figura del combattimento della fede e della preghiera che trova la sua realizzazione, fra l’altro in 1 Giovanni 5.4,5: “Chiunque è stato generato da Dio vince il mondo; e questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede. E chi è che vince il mondo se non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio?”.
Ora il senso dell’episodio di Genesi 32 è questo: Giacobbe, se avesse dovuto lottare con Dio nella sua forma spirituale, non sarebbe durato un solo infinitesimale frammento di secondo, ma in quella umana dimostrò tutta la sua volontà a tal punto che poco dopo disse “Io ho visto Dio faccia a faccia, eppure la mia vita mi è stata risparmiata” (v.30), anche qui figura del futuro, espresso, restando nell’Antico Patto, in Salmo 17.15: “Ma io nella giustizia contemplerò il tuo volto, al risveglio mi sazierò della tua immagine” che anticipa 1 Giovanni 3.2, “Sappiamo però che quando egli sarà manifestato noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è”.
Certo, la nostra parabola parla di “pane” chiesto all’amico per cui non possiamo pensare che il Signore non ci conceda anche quanto necessita per il nostro sostentamento, ma credo sia necessario spostare sempre l’attenzione sul significato spirituale delle cose. I nostri problemi materiali rientrano nel “dacci oggi il nostro pane quotidiano” (meglio tradotto con “necessario”) e col paragone che Gesù fa, nel sermone sul monte, con “i corvi” che “non seminano e non mietono, non hanno dispensa né granaio, eppure Dio li nutre. Quanto più degli uccelli valete voi!” (Luca 12.24). Fra l’altro, aggiungendo una nota strettamente personale ed altrettanto dolorosa, posso dire che fissarsi ed essere insistenti su cose che riteniamo necessarie senza chiederci davanti al Padre se lo siano davvero, potrebbe anche causare un esaudimento che poi ci si ritorce conto procurandoci sofferenze e fastidi per farci capire l’inopportunità della nostra posizione. Ci sono infatti dei lacci che tende l’Avversario, ma anche altri che, più o meno, siamo noi stessi a costruirci addosso perché siamo vittime della nostra stessa superficialità, o carnalità che dir si voglia.
È vero che l’uomo del nostro episodio chiede i pani, ma tale alimento è comunque figura di ciò che sta oltre, perché sappiamo che “l’uomo non vive di solo pane, ma di tutto ciò che procede dalla bocca di Dio” ed anche la parabola del giudice e della vedova, che solo apparentemente allude all’insistenza per avere qualcosa, termina con parole che vanno al di là dell’esempio: “Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente” (Luca 18.6-7).
Io credo che la prima cosa che abbiamo il diritto-dovere di chiedere in preghiera a Dio è il discernimento, cioè avere la possibilità che la nostra mente, attraverso lo Spirito, esca dalla umana ossessività che ci è propria. Dobbiamo tenere sempre presente che questa filtra tutte le nostre esigenze materiali e spirituali attraverso il nostro ego per cui istintivamente sbaglieremmo: di qui la preghiera per poter essere in grado, cercando alla luce della preghiera e dello Spirito, di poter abbracciare per quanto possibile il vero, reale, necessario alimento destinato a sostenerci per quello che possiamo essere, ricordando che “il Padre sa ciò di cui avete bisogno”: cosa possiamo dire di fronte al “sapere” di Dio che ci ha creati, che ci ha conosciuti prima della fondazione del mondo, che conosce il numero dei capelli del nostro capo?
Ecco perché il nostro episodio si chiude con tre promesse fondamentali, “sarà dato”, “troverete” e “vi sarà aperto” che si concretano nel momento in cui si “chiede”, si “cerca” e si “bussa”, azioni che solo il diretto interessato può intraprendere per ottenere ciò che cerca esattamente come la persona della parabola chiede con insistenza all’amico riluttante. E poiché si tratta di cose che Dio ha promesso, non può non mantenerle. Queste tre azioni vengono portate avanti da chi ha bisogno e riconosce che può trovare esaudimento solo presso di Lui: chiedo ciò che non ho, cerco ciò che mi manca, busso per entrare dove altrimenti non potrei stare sapendo, come dal verso decimo, che “chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto”. Amen.
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