13.03 – Il buon samaritano: III. La pratica dell’amore (Luca 10.30-37)
30Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. 31Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. 32Anche un levita, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. 33Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. 34Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. 35Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: «Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno». 36Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». 37Quello rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ così».
Il prosieguo della parabola ci presenta due personaggi particolari, il sacerdote e il levita: essendo il fatto avvenuto nella strada che “scendeva da Gerusalemme a Gerico” si può ipotizzare che compissero quel tragitto perché avevano terminato il loro servizio al Tempio e rientrassero a casa loro. Gerico, infatti, di sacerdoti e leviti, ne ospitava molti, “diverse migliaia” secondo alcuni commentatori. Ammettendo quindi tale probabile situazione, tanto l’uno che l’altro attesero il passare del sabato, giorno in cui il turno di servizio delle mute cambiava, e quindi si misero in viaggio, in momenti diversi.
Sacerdoti e leviti possiamo dire che costituivano il cardine del giudaismo, senza i quali non poteva essere celebrata alcuna funzione nel Tempio. I primi erano chiamati cohanim, cohen singolare, termine che indica “colui che si leva a favore di un altro, che intercede per la sua causa” (e tale infatti era il loro ruolo, essendo i soli a poter compiere i sacrifici e non solo). I secondi, i leviti, erano addetti all’ausilio dei sacerdoti occupandosi delle opere cosiddette “servili”: preparavano il sacrificio, lavavano gli utensili sacri e cantavano alle funzioni, ma potevano anche svolgere il compito di magistrato e giudice secondo 1 Cronache 23. 3-5.
È proprio il ruolo di queste due categorie che, nella parabola, li condanna perché, conoscendo la Scrittura e avendo un ruolo specifico comandato da Dio, non la misero in pratica quando videro un loro correligionario “mezzo morto” lungo la strada.
Occorre prestare attenzione perché il comportamento da loro adottato non era ammissibile neppure per le bestie. Così infatti prescriveva la Legge: “Quando incontrerai il bue del tuo nemico o il suo asino dispersi, glieli dovrai ricondurre. Quando vedrai l’asino del tuo nemico accasciarsi sotto il carico, non abbandonarlo a se stesso: mettiti con lui a scioglierlo dal carico” (Esodo 23.4,5). Addirittura, in Deuteronomio 22.4, “Se vedi l’asino di tuo fratello o il suo bue caduto lungo la strada, non fingerai di non averli scorti, ma insieme con lui li farai rialzare”. C’è poi la definizione di Dio del digiuno, pratica cui molti si dedicavano religiosamente: “Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo? Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza trascurare i tuoi parenti? Allora la tua luce sorgerà come l’aurora, la tua ferita si rimarginerà presto. Davanti a te camminerà la tua giustizia, la gloria del Signore ti seguirà” (Isaia 58.6-8).
Abbiamo visto, nei versi citati, la compassione dovuta a fronte di un disagio che potremmo definire “fisico”, ma la stessa è compresa anche per quello morale: “A chi è sfinito dal dolore è dovuto l’affetto degli amici, anche se ha abbandonato il timore di Dio” (Giobbe 6.4), per non parlare degli esempi negativi contenuti in Salmo 38.12 e 69.21, “I miei amici e i miei compagni si scostano dalle mie piaghe, i miei vicini stanno a distanza” e “L’insulto ha spezzato il mio cuore e mi sento venir meno. Mi aspettavo consolazione, ma invano. Consolatori, ma non ne ho trovati”. Infine, Proverbi 21.13: “Chi chiude l’orecchio al grido del povero invocherà a sua volta e non otterrà risposta”.
Eppure, del sacerdote e del levita, è scritto che “giunto in quel luogo, vide e passò oltre”, traduzione sbrigativa dall’originale “passò dall’altra parte” quindi entrambi, prima di riprendere il loro cammino, si scostarono, attraversarono la strada volendo stabilire una distanza ancora più acuta di quanto non fosse già, loro in piedi (o a cavalcioni su un asino) e l’altro a terra: perché? Mi sono chiesto se questa indifferenza fosse causata solo da un animo insensibile o ci fosse stato qualche altro motivo e credo che, trattandosi di religiosi, ritenessero di avere già fatto abbastanza per il loro Dio e che soccorrere un uomo ridotto in quelle condizioni dovesse competere ad altri. Questa è l’interpretazione che do.
Aprendo una parentesi, è vero che il testo non dice perché il sacerdote e il levita passassero di là e che avessero terminato il loro ufficio nel Tempio, ma non trovo altro motivo, dubitando che entrambi fossero in gita di piacere. Il “Per caso” con cui inizia il verso 31 non allude infatti a una presenza immotivata, ma alla contemporaneità dell’azione, cioè da una parte l’uomo “mezzo morto” e dall’altra il fatto che sacerdote e levita passarono di là poco dopo l’aggressione.
Quei due, quindi, dopo una settimana a servire il Dio d’Israele, si ritenevano esenti da qualsiasi altro compito nonostante vi fosse la Sua parola scritta che solo apparentemente poteva essere considerata una lista di doveri, ma che in realtà era tesa ad educare i cuori e il cui riassunto, come abbiamo letto, era scritto nelle piccole pergamene che quegli uomini si portavano addosso, “Amerai il Signore Iddio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente”. Però – attenzione – era un amore che, per essere perfetto, si collegava a Levitico 19.18, “Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso”. Si tratta di due capisaldi che non a caso il dottore della Legge che diede origine a questa parabola aveva unito e di cui Gesù stesso ribadirà la necessità in Marco 12.28-31, quando uno scriba gli chiederà “Qual è il primo comandamento di tutti?”.
Ecco allora che il sacerdote e il levita dimostrarono, con la loro indifferenza, di non aver capito proprio nulla: per loro Dio era Colui che esigeva da loro un servizio formale per il popolo e si crogiolavano in questo ritenendo di essere dei buoni israeliti esattamente come oggi ci sono molti che si definiscono “buoni cristiani” perché partecipano alle funzioni religiose e praticano i cosiddetti “sacramenti” senza alcun moto del cuore che li spinga a praticare effettivamente l’amore. Sono coloro che sanno bene che dovrebbero osservare il decalogo, ma sanno di potere infrangerlo perché tanto poi si vanno a confessare, recitano l’ “atto di dolore”, fanno penitenza e poi tutto torna come prima. Sono i cosiddetti “praticanti”, quasi che la “pratica” possa limitarsi all’osservanza di precetti che non possono dare un significato a nulla. Sono quelli che si sentono bene quando prendono posto alle funzioni, ma appena usciti dall’edificio di culto tornano prontamente ai loro egoismi, ai loro calcoli, alle loro miserie. Sono quelli che vedono e passano dalla parte opposta a quella del bisognoso e poi proseguono per la loro strada. Non vogliono fastidi ma soprattutto, come i due personaggi che stiamo esaminando, si ritengono a posto con la loro coscienza e si autoassolvono qualunque cosa accada.
Si tratta chiaramente di soluzioni di comodo che consentono di confezionare un vestito su misura che non è certo quello che il Re della parabola degli invitati alle nozze ha inviato: ricordiamo che “Il re entrò per vedere i commensali e lì scorse uno che non indossava l’abito nuziale – era cioè vestito, ma a modo suo e non come era richiesto per restare lì –. Gli disse: «Amico, come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?». Quello ammutolì. Allora il re ordinò ai servi: «Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti»” (Matteo 22.11-13).
A questo punto entra in scena il samaritano che, a differenza del sacerdote e del levita che “passavano di là”, “era in viaggio”: si trattava forse di un mercante? È un’ipotesi, ma quello che sappiamo di certo è che non era giudeo, ma uno straniero e, soprattutto, appartenente a gente che nei confronti degli ebrei nutriva un profondo risentimento per ragioni che abbiamo già accennato. Ebbene, quello riconobbe la nazionalità dell’uomo ferito e “mezzo morto” dall’abito, ma nulla gli importò perché lo vide, azione comune agli altri due, ma questa volta “ne ebbe compassione”. Tanto fu istintiva la repulsione provata dal sacerdote e dal levita, poi sfociata in indifferenza, tanto il samaritano si immedesimò nelle condizioni di quell’uomo ferito. Poteva non farlo e andarsene, nessuno lo avrebbe visto né giudicato. Agì su una base del tutto volontaria e soprattutto vediamo che tra il vedere ed il reagire non intercorse nessun intervallo temporale.
Per quanto Nostro Signore, con questa parabola, volesse far capire a quell’anonimo dottore della Legge cosa s’intendesse amare il proprio prossimo come se stessi per cui quello è il suo primo significato; non è però difficile scorgere nella descrizione delle azioni del buon samaritano le stesse che ha compiuto Lui nei confronti dell’uomo: prima “ne ebbe compassione”, poi “gli si avvicinò, gli fasciò le ferite versandovi olio e vino”, rimedi efficaci di allora per le ferite quando non interessavano parti vitali: il vino le disinfettava e l’olio ne attutiva il dolore. E quel samaritano, persona previdente, li aveva con sé, oltre le bende, come oggi potrebbe fare chi affronta un’escursione mettendo in conto la possibilità che qualcuno si possa far male. Quell’uomo, poi, sapeva come agire in base alle circostanze.
Anche oggi Gesù è in grado di fasciare, disinfettare e attutire il dolore dell’uomo ferito e privato dal peccato della propria dignità, ridotto all’incapacità di muoversi e chiedere aiuto. Il samaritano non risponde a un grido, ma offre il suo intervento a chi non ha neppure la forza di chiederlo.
Consapevole del fatto che olio, vino e bende non avrebbero risolto il problema, fa poi qualcosa di totalmente contrario al principio della comodità personale: scende dalla sua cavalcatura, vi carica il ferito portandolo “in albergo, e si prese cura di lui”. Questo significava camminare per un certo tempo a suo fianco, sorreggendolo perché non cadesse e tutto questo in una strada assolata e in zona desertica. Ora non è difficile scorgere in queste azioni la rinuncia del Figlio di Dio alla condizione che aveva nei Cieli per scendere e vivere per un certo tempo (trentatré anni circa) in mezzo agli uomini senza lasciare nulla di intentato per salvarli dalla morte. Fece insomma tutto quanto in suo potere, adempiendo ogni cosa vista nella frase “Tutto è compiuto”.
Non pago di tutto il lavoro fatto per quell’uomo, poi, “si prese cura di lui”, presumo per tutta la notte, attento ad ogni segnale di sofferenza. Al contrario di quanti passarono prima di lui, il sacerdote e il levita che ritennero di avere già adempiuto ai loro incarichi di servizio divino, interrompe la sua opera solo quando nella persona da lui soccorsa iniziano ad emergere i primi segnali di guarigione. Quindi, come in tante parabole, “partì” promettendo all’albergatore, in cui possiamo vedere spiritualmente la Chiesa, di ritornare e gli dà il denaro necessario per curare quella persona, promettendo di rimborsare quanto eventualmente avrebbe speso in aggiunta.
Queste sono applicazioni possibili oggi, non certo allora. Dobbiamo sempre tenere presente il fatto che quanto avviene o troviamo scritto ha valenza per chi leggeva e ascoltava allora e per noi possono esserci delle varianti.
La domanda di Gesù a quel punto fu “Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che caduto nelle mani dei briganti?”. La risposta del dottore della Legge è molto indicativa perché non indica semplicemente “Il samaritano” ma, non volendo neppure nominarlo, dice “Chi ha avuto compassione di lui”: dimostra di aver capito solo parzialmente il senso della parabola perché per lui le persone erano divise in due categorie, gli israeliti e gli altri cosa che, se il samaritano avesse voluto applicare quel metodo di ragionamento, avrebbe causato la morte dell’uomo rapinato e percosso dai malfattori.
Le parole conclusive del dialogo fra Gesù e il dottore della Legge furono “Va’, e anche tu fa’ così”, ancora una volta le uniche che allora potesse dire per risvegliare la coscienza del suo interlocutore. Per noi, invece, valgono le parole dette ai discepoli in Giovanni 1512: “Questo è il mio comandamento – quindi nuovo, che perfeziona i precedenti, il primo senza il quale ogni nostra posizione diventa nulla –: che voi vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi”. E di fronte a quel “come”, tutto si tace. Amen.
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