13.02 – Il buon samaritano: l’uomo e i briganti (Luca 10.25-28)
30Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. 31Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. 32Anche un levita, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. 33Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. 34Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. 35Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: «Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno». 36Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». 37Quello rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ così».
Questa parabola, come sappiamo, fu esposta a un dottore della Legge che chiese a Gesù di dargli una definizione di “prossimo”. Il racconto parabolico, che secondo l’uso di quel tempo aveva fine didattico presso i Giudei e tramite il quale Nostro Signore si pone sullo stesso piano dell’interrogante che lo aveva chiamato “Maestro”, viene in realtà esposto per far sì che quel dottore potesse trarre le sue conclusioni e presenta quattro personaggi che cercheremo di analizzare; del primo sappiamo ben poco e viene lasciato volutamente nell’ombra anche se possiamo ipotizzare fosse un israelita che “scendeva da Gerusalemme a Gerico”: quella strada infatti copriva il dislivello di circa un km che intercorreva fra le due città. Si trattava, allora come fino a metà del secolo scorso, di un percorso rischioso perché infestato da bande di criminali che assalivano soprattutto le persone che viaggiavano da sole. Con l’andar del tempo, poi, la criminalità locale si organizzò in modo tale da riuscire ad affrontare e rapinare anche tutti coloro che viaggiassero privi di scorta.
Ebbene al protagonista della parabola “portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto”, cioè nelle condizioni di non poter chiedere aiuto perché quel “mezzo morto”ci descrive uno stato di privazione delle forze necessarie per muoversi, rialzarsi. La vittima dei briganti versava quindi in uno stato di immobilità, senza altra possibilità se non rimanere dov’era poiché, proseguendo nella lettura, leggiamo che chi passò vicino a lui “lo vide”, ma non ci è stata trasmesso alcun dialogo fra loro.
Questa è la lettura più immediata della parabola, cioè di quanto probabilmente avvenuto attenendosi ad essa, ma è facile riconoscere nelle azioni dei briganti, cioè nel portare via tutto, percuotere a sangue e lasciare la persona priva di forze, gli effetti del peccato che, quando lo assale, lascia l’individuo nelle stesse condizioni dal punto di vista spirituale. Ricordiamo anche quanto avvenuto alla guarigione di quel giovane indemoniato operata da Gesù quando i discepoli non riuscirono: ”Lo spirito, gridando e straziandolo fortemente, uscì”(Marco 9.36), fatto avvenuto comunque in altri episodi. Questo perché il peccato e la lontananza da Dio straziano sempre, paralizzano, rendono ciechi e sordi. Tutte le applicazioni possibili su questa prima parte della parabola riguardano proprio questa condizione.
A proposito del nostro personaggio leggiamo “gli portarono via tutto”, traduzione dall’originale “spogliatolo”anche qui come il peccato, e quindi l’Avversario, fece con i nostri progenitori che, da esseri rivestiti dalla grazia e luce di Dio (e soprattutto d’innocenza), si ritrovarono soli nel loro corpo di carne; ricordando il giudizio su Adamo sappiamo che non gli rimase nulla se non una vita a termine: “Con il sudore del tuo volto mangerai il pane, finché non tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere ritornerai”(Genesi 3.19). Se non è rivestito di Dio, l’uomo ha ben poco valore. Ecco allora che la creatura per cui esisteva un progetto di vita attiva, partecipe pienamente dell’eternità, sarebbe stato e tornato polvere, cioè la materia che Dio aveva utilizzato per crearlo, ma priva del Suo splendore. Avrebbe dovuto un giorno restituirgli l’anima, o la vita come altri traducono. Così infatti è detto nella parabola del ricco: “Stolto, questa stessa notte l’anima tua ti sarà richiesta. E le cose che hai accumulato, di chi saranno?” (Luca 12.13-21).
A proposito dell’episodio in Eden va comunque rilevato che, se Satana riuscì a fare in modo che Adamo ed Eva fossero spogliati e decaduti, Dio comunque procurò loro un vestito idoneo (la pelle d’animale al posto delle foglie di fico intrecciate) e che ai cristiani è detto “Vi siete spogliati dell’uomo vecchio con le sue azioni– e qui dobbiamo verificare se si effettivamente così, visto che sta a noi farlo – e avete rivestito il nuovo– stessa verifica – che si rinnova, per una piena conoscenza, ad immagine del suo Creatore.(…). Rivestitevi dunque, come amati di Dio, santi e diletti, di sentimenti di misericordia, di bontà, di pazienza”(Colossesi 3.10-13).
I briganti, figura dell’Avversario, dei suoi ministri e del peccato, portano “via tutto”il necessario per vivere alla luce di Dio e ancora una volta il parallelo con Adamo ed Eva è inevitabile perché da loro abbiamo naturalmente ereditato la condizione di persone da Lui lontane e saremmo tuttora incapaci di vivere una vita vera se, a un certo punto, non fosse intervenuto Gesù Cristo. Secondo alcuni passi che conosciamo, infatti, Gesù è definito dall’apostolo Paolo come “ultimo Adamo”. Ricordando le parole “Come in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti– quelli che lo avranno accolto – riceveranno la vita”(1 Corinti 15.22), “Il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente, ma l’ultimo Adamo divenne spirito datore di vita”(v.45).
I briganti della parabola non si limitarono a spogliare il malcapitato, ma “lo percossero a sangue”, cioè non si accontentarono di rapinarlo tenendolo sotto la minaccia delle armi e non si fermarono in questa azione violenta fino a quando non videro il sangue e constatarono che la persona era rimasta lesionata a tal punto da non potersi più muovere. Possiamo idealmente paragonare la condizione di quel malcapitato, visto che il termine “parabola” significa appunto “paragone”, al gesto di Giobbe che, pur potendo parlare, subì la stessa sorte. Ricordiamo che anche Giobbe, dietro intervento di Satana, perse tutto: figli e figlie, servi e pecore, quindi fu spogliato di ogni cosa. Poi venne la malattia – ecco le percosse –: “Satana si ritirò dalla presenza del Signore e colpì Giobbe con una piaga maligna, dalla pianta dei piedi alla cima del capo. Giobbe prese un coccio per grattarsi e stava seduto in mezzo alla cenere”(2.7,8). E qui probabilmente abbiamo anche il sangue, che esce nel momento in cui si gratta una piaga.
Certo per Giobbe ci fu anche la tortura morale dei tre cosiddetti “amici venuti per consolarlo”che finiranno per affliggerlo con parole indubbiamente buone dal punto di vista morale e religioso, ma non certo spirituali e quindi adatte al suo caso. Di qui la necessità di parlare a chi soffre con parole appropriate, se ne abbiamo. Ricordiamo anche come Giobbe fu trovato da loro: “Alzarono gli occhi da lontano, ma non lo riconobbero. Levarono la loro voce e si misero a piangere. Ognuno si stracciò il mantello e lanciò polvere verso il cielo sul proprio capo. Poi sedettero accanto a lui in terra per sette giorni e sette notti. Nessuno gli rivolgeva una parola, perché vedevano che il suo dolore era molto grande”(2.12,13).
Gli effetti del peccato sono allora quelli appena descritti; possono essere visibili a tutti qualora si manifesti con la malattia del corpo o della mente – che in Eden non vi erano – oppure tramite una vita sregolata, persa ad inseguire il mito della realizzazione personale, in quale campo non importa; se non interviene Gesù a sanare, l’essere umano resta paralizzato, incapace di chiedere aiuto, non necessariamente si accorge di essere stato “spogliato di tutto”e “percosso a sangue”. O, meglio, quando se ne accorgerà sarà troppo tardi.
La terza condizione in cui versa l’anonimo è “mezzo morto”, espressione che nel nostro linguaggio comune viene intesa come “molto stanco, mal messo, sfinito” ma che Gesù, che non parlò mai usando termini esagerati per far meglio presa sui suoi uditori, intende come in stato di incoscienza, cioè con funzioni vitali minime. Essere incoscienti significa non avere consapevolezza della propria esistenza e non essere in grado di interagire con l’ambiente che ci circonda.
Tutto, dal racconto di Nostro Signore, lascia ipotizzare che il personaggio della parabola non fosse in grado di comunicare: non c’è infatti alcuna traccia di dialogo fra il samaritano e il ferito, ma sappiamo che le sue condizioni erano serie a tal punto da richiedere un ricovero nella speranza che guarisse. Effettuando allora un collegamento spirituale, quel “mezzo morto”è la descrizione dello sfinimento finale provocato dalla lontananza da Dio: avendo interrotti i rapporti con Lui, la persona non può vivere autonomamente in una sorta di limbo dove tanto il Signore che l’Avversario sono assenti, ma cadrà inevitabilmente vittima della seconda entità come direi insegna tutta la Scrittura. Non abbiamo infatti un solo caso in cui un uomo o una donna abbiano vissuto in una condizione di neutralità, poiché “nessuno può servire a due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro”(Matteo 6.24).
“Mezzo morto”è chiaramente la descrizione di uno stato grave, ma in cui è lasciato spazio alla speranza nel senso che non è ancora intervenuta la morte a scrivere la parola “fine” a quell’esistenza. Se l’uomo assalito dai briganti fosse rimasto privo di un intervento teso a curarlo, sarebbe probabilmente deceduto e qui abbiamo i due riferimenti-significati della parabola perché, se nel primo è descritta la carità di un individuo verso il suo “prossimo”, nel secondo abbiamo l’intervento misericordioso del Cristo nei confronti dell’uomo preda dell’Avversario e quindi della lontananza da Dio, come già anticipato. Se prendiamo come appropriato il primo riferimento, abbiamo la descrizione di un’opera intrapresa nei confronti dell’ “altro” di cui non ci viene rivelato il risultato, cioè non sappiamo se quell’uomo guarì oppure no, ma se ci appropriamo del secondo, cioè l’intervento di Gesù, l’insuccesso non è neppure pensabile.
Perché però la persona si possa ristabilire, deve volerlo nel senso che può accettare o rifiutare le cure che gli vengono applicate e il fatto che il samaritano “lo portò in albergo e si prese cura di lui”ci lascia supporre che restò in quel luogo, un caravanserraglio, dedicandosi a lui per tutta la notte fino a quando non ebbe speranza che il suo paziente potesse riprendersi. Infatti leggiamo “Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore”perché si curasse di quell’uomo nell’attesa che ripassasse a pagare le altre, eventuali cure.
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