13.04 – MARTA E MARIA (LUCA 10.38-42)

13.04 – Marta e Maria (Luca 10.38-42)     

 

38Mentre erano in cammino, entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo ospitò. 39Ella aveva una sorella, di nome Maria, la quale, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. 40Marta invece era distolta per i molti servizi. Allora si fece avanti e disse: «Signore, non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti». 41Ma il Signore le rispose: «Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, 42ma di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta».

 

Il verso di esordio, apparentemente scritto da Luca per raccordare i due episodi dell’insegnamento su chi fosse il “prossimo”e quello che abbiamo letto, presenta dei punti interessanti: Gesù, non da solo, “entrò in un villaggio”che sappiamo essere Betania, il cui nome significa “casa dei poveri”, oggi chiamato in arabo “Al-Azariyeh”, cioè “casa di Lazzaro”. Entrambi i nomi sono indicativi per quanto succederà: Marta e Maria infatti erano sorelle di Lazzaro, qui non citato, ed erano appunto di quella località come leggiamo in Giovanni 11.1: “Un certo Lazzaro di Betania, il villaggio di Maria e di Marta sua sorella, era malato”.

Elemento che dà un significato particolare al racconto e alla località, poi, lo abbiamo nel luogo in cui si verificò, poiché Betania si trovava lungo “la strada che scendeva da Gerusalemme a Gerico”(era a tre km da Gerusalemme) e quindi possiamo pensare che l’ambiente scelto da Gesù per l’esposizione della parabola del buon samaritano non fu casuale.

Altro elemento offertoci dal verso 38 è poi la citazione di Marta, “Signora”, nominata per prima perché sorella maggiore di Maria e responsabile della casa da loro abitata. Abbiamo poi il verbo, “lo ospitò”, tradotto da altri con “lo accolse in casa sua”: fu questa la prima volta? Fu qui che iniziò il rapporto tra Gesù e quella famiglia, Lazzaro compreso per quanto non nominato? Non possiamo stabilirlo con certezza, poiché è probabile che Nostro Signore fosse passato per Betania altre volte, diretto a Gerusalemme.

I verbi “entrare” e “ospitare”, poi, ci rimandano a come Gesù era solito agire e di come ordinò fare altrettanto ai suoi discepoli: “In qualunque città o villaggio entriate, fatevi indicare se vi sia qualche persona degna, e lì rimanete fino alla vostra partenza. Entrando nella casa, rivolgetele il saluto. Se quella casa ne sarà degna, la vostra pace scenda sopra di essa; ma se non ne sarà degna, la vostra pace ritorni a voi”(Matteo 10.11-13). Certo la situazione era diversa perché i discepoli avevano il Maestro con loro, che già sapeva quale fosse la casa in cui abitavano persone degne di riceverlo; oramai non era certo uno sconosciuto nemmeno per chi o coloro che non lo conoscevano di persona. Comunque siano andate le cose, visto che quello che propongo è un’interpretazione, un raccordo, certo è che Marta, quale responsabile della casa, “lo accolse”; dire quanti, quali e se vi fossero i discepoli, non è dato perché Luca, il solo che ha riportato l’episodio, potrebbe aver interpellato tanto uno dei dodici, quanto le due sorelle a Betania. Va tenuto però presente il plurale, “Mentre erano in cammino”.

Cercando di analizzare la figura di Marta, è evidente che fosse una persona energica e responsabile che cercava di svolgere al meglio quanto richiedeva la gestione di una casa. Come tutte le persone pratiche, forti di carattere e volenterose, badava al concreto delle cose senza valutarle nella loro globalità o, se preferiamo, considerarne le variabili. Ricordando infatti che, nell’occasione della morte del fratello Lazzaro, andò “incontro”a Gesù mentre sua sorella “stava seduta in casa”(a piangere) e che lo rimproverò: “Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!”, stesse parole che gli dirà poi Maria, ma con significato diverso. Marta, amata da Nostro Signore assieme alla sorella e al fratello (Giovanni 11.5), limitandoci al nostro episodio, è la figura della persona “calata nel proprio ruolo”, in questo caso per fare degna accoglienza all’ospite confondendo però tra il riguardo a lui dovuto umanamente e la profonda attenzione necessaria ai contenuti del messaggio che portava. Possiamo anche pensare che Marta fosse, al pari di sua sorella e del fratello, benestante perché la casa doveva essere grande, ammettendo che non si limitò ad ospitare Gesù, ma anche i dodici o una parte di loro. Il modo con cui il testo greco la presenta, infatti, “in casa sua”allude ad esserne padrona  nel senso di disporne, governarla, occuparsi di lei come vediamo in Giovanni 12.2 quando, sei giorni prima della Pasqua, leggiamo che “…qui fecero per lui una cena: Marta serviva e Lazzaro era uno dei commensali”.

Di tutt’altro carattere la sorella Maria, che viene descritta dai passi di cui disponiamo come una persona profondamente sensibile, che alla praticità delle cose preferisce il loro senso, distinguere ciò che è veramente utile da quanto non lo è; ciò lo vediamo non solo perché qui si pone a sedere ai piedi di Gesù, nella stessa posizione degli studenti ebrei coi loro maestri, ma soprattutto per l’episodio appena ricordato, quello della cena sei giorni prima della Pasqua, in cui viene contrapposta alla sorella che “serviva”: “Maria allora prese trecento grammi di profumo di puro nardo, assai prezioso, ne cosparse i piedi di Gesù, poi li asciugò con i suoi capelli, e tutta la casa si riempì dell’aroma di quel profumo”(vv.3,4).

Per quanto sarà un episodio che analizzeremo, vediamo che Maria valutò la persona e la presenza di Gesù in mezzo a loro tale da giustificare il versamento di quel profumo “assai prezioso”sulla Sua persona. Ricordiamo anche il comportamento assunto alla morte del fratello: quando Marta andò da lei in casa dicendole “«Il Maestro è qui, e ti chiama», udito questo, ella si alzò subito e andò da lui”(11.28,29) consapevole che solo da Gesù avrebbe potuto trovare consolazione, come effettivamente avvenne. Le parole che poi gli disse, identiche a quelle della sorella, “Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!”manifestano tutta la sua impotenza di fronte all’umano dolore oltre che alla visione limitata che aveva, ritenendo possibile che Gesù potesse operare solo se fosse stato fisicamente presente sul luogo. Fu una convinzione che corresse presto, visto che il profumo fu versato successivamente alla resurrezione del fratello, ricordandosi le parole “Non ti ho detto che, se crederai, vedrai la gloria di Dio?”(11.40).

Maria, quindi, è la figura dell’ascesa del credente da ciò che prima ignora e che poi sperimenta personalmente: infatti prima la vediamo “seduta ai piedi del Signore”, poi ci fu per lei il tempo della riflessione, dell’elaborazione di quanto ascoltato, quindi la sperimentazione degli effetti della parola di Dio con la risurrezione di Lazzaro, ed infine l’adesione totale a Lui con il versargli addosso il profumo.

Venendo ora all’episodio in esame, va sfatata l’ipotesi che vede in Marta un personaggio negativo. Semplicemente, è apparentemente meno positivo della sorella che sapeva benissimo, come lei, che per ricevere un ospite andavano osservate regole precise, a cominciare dall’acqua per lavare i piedi impolverati e forse a questo aveva adempiuto, ma tutto il resto, alla luce di ciò di cui Gesù parlava, non riteneva avesse ragione di essere. Marta era lieta di avere Gesù come ospite, era la responsabile della casa e in quanto tale era solo lei che poteva accoglierlo, però confonde l’accoglienza formale, diremmo noi “del galateo”, con quella spirituale. Per lei, per lo meno in questo episodio, era importante “fare bella figura” non a livello egoistico, ma non concepiva un atteggiamento diverso, per onorare il proprio ospite, da quello di approntare tutto il meglio per riceverlo e non capisce perché la sorella non debba comportarsi allo stesso modo. Certo che Maria sapeva che avrebbe dovuto comportarsi come Marta, ma non riuscì, c’era qualcosa che la teneva seduta e questo “qualcosa” era “la Parola di Gesù” che “ascoltava”consapevole, come altri del resto, che “nessuno parlò mai come costui”. Gesù non insegnava o parlava a una folla, ma a lei e alla sorella che, credo, ascoltava distrattamente, “distolta per i molti servizi”.

La nostra traduzione ha “Allora si fece avanti”, ma l’originale ha piuttosto “venne”che ci autorizza a pensare da un’altra stanza della casa, convinta che il suo rimprovero – ancora – fosse ben accolto da Gesù: “Non t’importa nulla che mia sorella mi ha lasciata sola a servire?”. “Mi ha lasciata”lascia intendere che all’inizio i comportamenti delle due furono identici, ma che poi Maria non poté fare a meno che sedersi ad ascoltare. Furono la sua sensibilità e la sua indole a portarla ad assumere quella posizione, null’altro importava. E qui esce una considerazione ovvia e cioè che anche noi, se ascoltiamo i richiami delle convenienze, dei doveri umani, della consuetudine, del “così si fa”, e ci concentriamo su di essi in nome di un nostro presunto dovere, non troviamo il tempo per ascoltare la Parola di Dio che ha per noi un messaggio individuale, preciso, specifico. Così facendo, però, ci priviamo inconsapevolmente di molto, dell’essenziale.

La risposta di Gesù fu questa (ripresa dalla traduzione di Giovanni Diodati che è preferibile): “Marta, Marta, tu sei sollecita e ti travagli intorno a molte cose. Ora di una sola cosa fa bisogno. Ma Maria ha scelto la buona parte, che non le sarà tolta”. I due termini, “essere solleciti” e “travagliarsi” hanno una quantità enorme di riferimenti nella Scrittura, comunque sempre rivolti, considerati come gli effetti che il mondo ha sulla persona. Marta era ansiosa e preoccupata perché i preparativi da lei messi in atto fossero degni della persona che ospitava, ma dimenticava che non poteva esservi accoglienza migliore se non l’ascolto di quanto aveva da dire, la “buona parte”,“di una cosa sola c’è bisogno”.

Possiamo fare un parallelo con Giovanni 14.23 “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio l’amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui”, cioè la stessa cosa veniva offerta tanto a Maria quanto a Marta, ma la prima non ebbe bisogno che Gesù glielo spiegasse. Credo che la differenza fra le sue sorelle sia stata spiegata molto bene da un fratello di cui riporto le parole: “Marta e Maria ci sono presentate come esempi di due aspetti diversi del carattere cristiano, cioè la devozione interna e l’attività pratica; quest’ultima è una qualità molto preziosa in un credente, ma tra le diverse occupazioni della vita può, se non si fa attenzione, diventare un tranello, permettendo alle cure e ai fastidi delle cure mondane di indebolire la vita spirituale dell’anima. D’altra parte c’è il pericolo che le sole occupazioni spirituali generino pigrizia e trascuratezza dei doveri che, quali cristiani, abbiamo verso le nostre famiglie, verso la Chiesa visibile e la società in generale. Contro questo pericolo le Marie devono stare in guardia, non meno delle Marte contro le attrazioni del mondo”. Per questo l’apostolo Paolo scelse di non dipendere dalle offerte dei credenti per il suo sostentamento, ma per mantenersi continuò il mestiere che conosceva, quello di tappezziere, e scrisse“Noi non siamo rimasti oziosi in mezzo a voi, né abbiamo mangiato gratuitamente il pane di alcuno, ma abbiamo lavorato duramente, notte e giorno, per non essere di peso ad alcuno di voi. Non che non ne avessimo diritto, ma per darci a voi come modello da imitare. E infatti quando eravamo presso di voi, vi abbiamo sempre dato questa regola: chi non vuole lavorare, neppure mangi”(2 Tessalonicesi 3.7-10).

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13.03 – IL BUON SAMARITANO III: LA PRATICA DELL’AMORE (Luca 10.30-37)

13.03 – Il buon samaritano: III. La pratica dell’amore (Luca 10.30-37)    

 

30Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. 31Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. 32Anche un levita, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. 33Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. 34Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. 35Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: «Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno». 36Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». 37Quello rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ così».

 

Il prosieguo della parabola ci presenta due personaggi particolari, il sacerdote e il levita: essendo il fatto avvenuto nella strada che “scendeva da Gerusalemme a Gerico” si può ipotizzare che compissero quel tragitto perché avevano terminato il loro servizio al Tempio e rientrassero a casa loro. Gerico, infatti, di sacerdoti e leviti, ne ospitava molti, “diverse migliaia” secondo alcuni commentatori. Ammettendo quindi tale probabile situazione, tanto l’uno che l’altro attesero il passare del sabato, giorno in cui il turno di servizio delle mute cambiava, e quindi si misero in viaggio, in momenti diversi.

Sacerdoti e leviti possiamo dire che costituivano il cardine del giudaismo, senza i quali non poteva essere celebrata alcuna funzione nel Tempio. I primi erano chiamati cohanim, cohen singolare, termine che indica “colui che si leva a favore di un altro, che intercede per la sua causa” (e tale infatti era il loro ruolo, essendo i soli a poter compiere i sacrifici e non solo). I secondi, i leviti, erano addetti all’ausilio dei sacerdoti occupandosi delle opere cosiddette “servili”: preparavano il sacrificio, lavavano gli utensili sacri e cantavano alle funzioni, ma potevano anche svolgere il compito di magistrato e giudice secondo 1 Cronache 23. 3-5.

È proprio il ruolo di queste due categorie che, nella parabola, li condanna perché, conoscendo la Scrittura e avendo un ruolo specifico comandato da Dio, non la misero in pratica quando videro un loro correligionario “mezzo morto” lungo la strada.

Occorre prestare attenzione perché il comportamento da loro adottato non era ammissibile neppure per le bestie. Così infatti prescriveva la Legge: “Quando incontrerai il bue del tuo nemico o il suo asino dispersi, glieli dovrai ricondurre. Quando vedrai l’asino del tuo nemico accasciarsi sotto il carico, non abbandonarlo a se stesso: mettiti con lui a scioglierlo dal carico” (Esodo 23.4,5). Addirittura, in Deuteronomio 22.4, “Se vedi l’asino di tuo fratello o il suo bue caduto lungo la strada, non fingerai di non averli scorti, ma insieme con lui li farai rialzare”. C’è poi la definizione di Dio del digiuno, pratica cui molti si dedicavano religiosamente: “Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo? Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza trascurare i tuoi parenti? Allora la tua luce sorgerà come l’aurora, la tua ferita si rimarginerà presto. Davanti a te camminerà la tua giustizia, la gloria del Signore ti seguirà” (Isaia 58.6-8).

Abbiamo visto, nei versi citati, la compassione dovuta a fronte di un disagio che potremmo definire “fisico”, ma la stessa è compresa anche per quello morale: “A chi è sfinito dal dolore è dovuto l’affetto degli amici, anche se ha abbandonato il timore di Dio” (Giobbe 6.4), per non parlare degli esempi negativi contenuti in Salmo 38.12 e 69.21, “I miei amici e i miei compagni si scostano dalle mie piaghe, i miei vicini stanno a distanza” e “L’insulto ha spezzato il mio cuore e mi sento venir meno. Mi aspettavo consolazione, ma invano. Consolatori, ma non ne ho trovati”. Infine, Proverbi 21.13: “Chi chiude l’orecchio al grido del povero invocherà a sua volta e non otterrà risposta”.

Eppure, del sacerdote e del levita, è scritto che “giunto in quel luogo, vide e passò oltre”, traduzione sbrigativa dall’originale “passò dall’altra parte” quindi entrambi, prima di riprendere il loro cammino, si scostarono, attraversarono la strada volendo stabilire una distanza ancora più acuta di quanto non fosse già, loro in piedi (o a cavalcioni su un asino) e l’altro a terra: perché? Mi sono chiesto se questa indifferenza fosse causata solo da un animo insensibile o ci fosse stato qualche altro motivo e credo che, trattandosi di religiosi, ritenessero di avere già fatto abbastanza per il loro Dio e che soccorrere un uomo ridotto in quelle condizioni dovesse competere ad altri. Questa è l’interpretazione che do.

Aprendo una parentesi, è vero che il testo non dice perché il sacerdote e il levita passassero di là e che avessero terminato il loro ufficio nel Tempio, ma non trovo altro motivo, dubitando che entrambi fossero in gita di piacere. Il “Per caso” con cui inizia il verso 31 non allude infatti a una presenza immotivata, ma alla contemporaneità dell’azione, cioè da una parte l’uomo “mezzo morto” e dall’altra il fatto che sacerdote e levita passarono di là poco dopo l’aggressione.

Quei due, quindi, dopo una settimana a servire il Dio d’Israele, si ritenevano esenti da qualsiasi altro compito nonostante vi fosse la Sua parola scritta che solo apparentemente poteva essere considerata una lista di doveri, ma che in realtà era tesa ad educare i cuori e il cui riassunto, come abbiamo letto, era scritto nelle piccole pergamene che quegli uomini si portavano addosso, “Amerai il Signore Iddio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente”. Però – attenzione – era un amore che, per essere perfetto, si collegava a Levitico 19.18, “Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso”. Si tratta di due capisaldi che non a caso il dottore della Legge che diede origine a questa parabola aveva unito e di cui Gesù stesso ribadirà la necessità in Marco 12.28-31, quando uno scriba gli chiederà “Qual è il primo comandamento di tutti?”.

Ecco allora che il sacerdote e il levita dimostrarono, con la loro indifferenza, di non aver capito proprio nulla: per loro Dio era Colui che esigeva da loro un servizio formale per il popolo e si crogiolavano in questo ritenendo di essere dei buoni israeliti esattamente come oggi ci sono molti che si definiscono “buoni cristiani” perché partecipano alle funzioni religiose e praticano i cosiddetti “sacramenti” senza alcun moto del cuore che li spinga a praticare effettivamente l’amore. Sono coloro che sanno bene che dovrebbero osservare il decalogo, ma sanno di potere infrangerlo perché tanto poi si vanno a confessare, recitano l’ “atto di dolore”, fanno penitenza e poi tutto torna come prima. Sono i cosiddetti “praticanti”, quasi che la “pratica” possa limitarsi all’osservanza di precetti che non possono dare un significato a nulla. Sono quelli che si sentono bene quando prendono posto alle funzioni, ma appena usciti dall’edificio di culto tornano prontamente ai loro egoismi, ai loro calcoli, alle loro miserie. Sono quelli che vedono e passano dalla parte opposta a quella del bisognoso e poi proseguono per la loro strada. Non vogliono fastidi ma soprattutto, come i due personaggi che stiamo esaminando, si ritengono a posto con la loro coscienza e si autoassolvono qualunque cosa accada.

Si tratta chiaramente di soluzioni di comodo che consentono di confezionare un vestito su misura che non è certo quello che il Re della parabola degli invitati alle nozze ha inviato: ricordiamo che “Il re entrò per vedere i commensali e lì scorse uno che non indossava l’abito nuziale – era cioè vestito, ma a modo suo e non come era richiesto per restare lì –. Gli disse: «Amico, come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?». Quello ammutolì. Allora il re ordinò ai servi: «Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti»” (Matteo 22.11-13).

A questo punto entra in scena il samaritano che, a differenza del sacerdote e del levita che “passavano di là”, “era in viaggio”: si trattava forse di un mercante? È un’ipotesi, ma quello che sappiamo di certo è che non era giudeo, ma uno straniero e, soprattutto, appartenente a gente che nei confronti degli ebrei nutriva un profondo risentimento per ragioni che abbiamo già accennato. Ebbene, quello riconobbe la nazionalità dell’uomo ferito e “mezzo morto” dall’abito, ma nulla gli importò perché lo vide, azione comune agli altri due, ma questa volta “ne ebbe compassione”. Tanto fu istintiva la repulsione provata dal sacerdote e dal levita, poi sfociata in indifferenza, tanto il samaritano si immedesimò nelle condizioni di quell’uomo ferito. Poteva non farlo e andarsene, nessuno lo avrebbe visto né giudicato. Agì su una base del tutto volontaria e soprattutto vediamo che tra il vedere ed il reagire non intercorse nessun intervallo temporale.

Per quanto Nostro Signore, con questa parabola, volesse far capire a quell’anonimo dottore della Legge cosa s’intendesse amare il proprio prossimo come se stessi per cui quello è il suo primo significato; non è però difficile scorgere nella descrizione delle azioni del buon samaritano le stesse che ha compiuto Lui nei confronti dell’uomo: prima “ne ebbe compassione”, poi “gli si avvicinò, gli fasciò le ferite versandovi olio e vino”, rimedi efficaci di allora per le ferite quando non interessavano parti vitali: il vino le disinfettava e l’olio ne attutiva il dolore. E quel samaritano, persona previdente, li aveva con sé, oltre le bende, come oggi potrebbe fare chi affronta un’escursione mettendo in conto la possibilità che qualcuno si possa far male. Quell’uomo, poi, sapeva come agire in base alle circostanze.

Anche oggi Gesù è in grado di fasciare, disinfettare e attutire il dolore dell’uomo ferito e privato dal peccato della propria dignità, ridotto all’incapacità di muoversi e chiedere aiuto. Il samaritano non risponde a un grido, ma offre il suo intervento a chi non ha neppure la forza di chiederlo.

Consapevole del fatto che olio, vino e bende non avrebbero risolto il problema, fa poi qualcosa di totalmente contrario al principio della comodità personale: scende dalla sua cavalcatura, vi carica il ferito portandolo “in albergo, e si prese cura di lui”. Questo significava camminare per un certo tempo a suo fianco, sorreggendolo perché non cadesse e tutto questo in una strada assolata e in zona desertica. Ora non è difficile scorgere in queste azioni la rinuncia del Figlio di Dio alla condizione che aveva nei Cieli per scendere e vivere per un certo tempo (trentatré anni circa) in mezzo agli uomini senza lasciare nulla di intentato per salvarli dalla morte. Fece insomma tutto quanto in suo potere, adempiendo ogni cosa vista nella frase “Tutto è compiuto”.

Non pago di tutto il lavoro fatto per quell’uomo, poi, “si prese cura di lui”, presumo per tutta la notte, attento ad ogni segnale di sofferenza. Al contrario di quanti passarono prima di lui, il sacerdote e il levita che ritennero di avere già adempiuto ai loro incarichi di servizio divino, interrompe la sua opera solo quando nella persona da lui soccorsa iniziano ad emergere i primi segnali di guarigione. Quindi, come in tante parabole, “partì” promettendo all’albergatore, in cui possiamo vedere spiritualmente la Chiesa, di ritornare e gli dà il denaro necessario per curare quella persona, promettendo di rimborsare quanto eventualmente avrebbe speso in aggiunta.

Queste sono applicazioni possibili oggi, non certo allora. Dobbiamo sempre tenere presente il fatto che quanto avviene o troviamo scritto ha valenza per chi leggeva e ascoltava allora e per noi possono esserci delle varianti.

La domanda di Gesù a quel punto fu “Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che  caduto nelle mani dei briganti?”. La risposta del dottore della Legge è molto indicativa perché non indica semplicemente “Il samaritano” ma, non volendo neppure nominarlo, dice “Chi ha avuto compassione di lui”: dimostra di aver capito solo parzialmente il senso della parabola perché per lui le persone erano divise in due categorie, gli israeliti e gli altri cosa che, se il samaritano avesse voluto applicare quel metodo di ragionamento, avrebbe causato la morte dell’uomo rapinato e percosso dai malfattori.

Le parole conclusive del dialogo fra Gesù e il dottore della Legge furono “Va’, e anche tu fa’ così”, ancora una volta le uniche che allora potesse dire per risvegliare la coscienza del suo interlocutore. Per noi, invece, valgono le parole dette ai discepoli in Giovanni 1512: “Questo è il mio comandamento – quindi nuovo, che perfeziona i precedenti, il primo senza il quale ogni nostra posizione diventa nulla –: che voi vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi”. E di fronte a quel “come”, tutto si tace. Amen.

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13.02 – IL BUON SAMARITANO II: L’UOMO E I BRIGANTI (Luca 10.25-28)

13.02 – Il buon samaritano: l’uomo e i briganti (Luca 10.25-28)          

 

30Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. 31Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. 32Anche un levita, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. 33Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. 34Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. 35Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: «Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno». 36Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». 37Quello rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ così».

 

Questa parabola, come sappiamo, fu esposta a un dottore della Legge che chiese a Gesù di dargli una definizione di “prossimo”. Il racconto parabolico, che secondo l’uso di quel tempo aveva fine didattico presso i Giudei e tramite il quale Nostro Signore si pone sullo stesso piano dell’interrogante che lo aveva chiamato “Maestro”, viene in realtà esposto per far sì che quel dottore potesse trarre le sue conclusioni e presenta quattro personaggi che cercheremo di analizzare; del primo sappiamo ben poco e viene lasciato volutamente nell’ombra anche se possiamo ipotizzare fosse un israelita che “scendeva da Gerusalemme a Gerico”: quella strada infatti copriva il dislivello di circa un km che intercorreva fra le due città. Si trattava, allora come fino a metà del secolo scorso, di un percorso rischioso perché infestato da bande di criminali che assalivano soprattutto le persone che viaggiavano da sole. Con l’andar del tempo, poi, la criminalità locale si organizzò in modo tale da riuscire ad affrontare e rapinare anche tutti coloro che viaggiassero privi di scorta.

Ebbene al protagonista della parabola “portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto”, cioè nelle condizioni di non poter chiedere aiuto perché quel “mezzo morto”ci descrive uno stato di privazione delle forze necessarie per muoversi, rialzarsi. La vittima dei briganti versava quindi in uno stato di immobilità, senza altra possibilità se non rimanere dov’era poiché, proseguendo nella lettura, leggiamo che chi passò vicino a lui “lo vide”, ma non ci è stata trasmesso alcun dialogo fra loro.

Questa è la lettura più immediata della parabola, cioè di quanto probabilmente avvenuto attenendosi ad essa, ma è facile riconoscere nelle azioni dei briganti, cioè nel portare via tutto, percuotere a sangue e lasciare la persona priva di forze, gli effetti del peccato che, quando lo assale, lascia l’individuo nelle stesse condizioni dal punto di vista spirituale. Ricordiamo anche quanto avvenuto alla guarigione di quel giovane indemoniato operata da Gesù quando i discepoli non riuscirono: ”Lo spirito, gridando e straziandolo fortemente, uscì”(Marco 9.36), fatto avvenuto comunque in altri episodi. Questo perché il peccato e la lontananza da Dio straziano sempre, paralizzano, rendono ciechi e sordi. Tutte le applicazioni possibili su questa prima parte della parabola riguardano proprio questa condizione.

A proposito del nostro personaggio leggiamo “gli portarono via tutto”, traduzione dall’originale “spogliatolo”anche qui come il peccato, e quindi l’Avversario, fece con i nostri progenitori che, da esseri rivestiti dalla grazia e luce di Dio (e soprattutto d’innocenza), si ritrovarono soli nel loro corpo di carne; ricordando il giudizio su Adamo sappiamo che non gli rimase nulla se non una vita a termine: “Con il sudore del tuo volto mangerai il pane, finché non tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere ritornerai”(Genesi 3.19). Se non è rivestito di Dio, l’uomo ha ben poco valore. Ecco allora che la creatura per cui esisteva un progetto di vita attiva, partecipe pienamente dell’eternità, sarebbe stato e tornato polvere, cioè la materia che Dio aveva utilizzato per crearlo, ma priva del Suo splendore. Avrebbe dovuto un giorno restituirgli l’anima, o la vita come altri traducono. Così infatti è detto nella parabola del ricco: “Stolto, questa stessa notte l’anima tua ti sarà richiesta. E le cose che hai accumulato, di chi saranno?”  (Luca 12.13-21).

A proposito dell’episodio in Eden va comunque rilevato che, se Satana riuscì a fare in modo che Adamo ed Eva fossero spogliati e decaduti, Dio comunque procurò loro un vestito idoneo (la pelle d’animale al posto delle foglie di fico intrecciate) e che ai cristiani è detto “Vi siete spogliati dell’uomo vecchio con le sue azioni– e qui dobbiamo verificare se si effettivamente così, visto che sta a noi farlo – e avete rivestito il nuovo– stessa verifica – che si rinnova, per una piena conoscenza, ad immagine del suo Creatore.(…). Rivestitevi dunque, come amati di Dio, santi e diletti, di sentimenti di misericordia, di bontà, di pazienza”(Colossesi 3.10-13).

I briganti, figura dell’Avversario, dei suoi ministri e del peccato, portano “via tutto”il necessario per vivere alla luce di Dio e ancora una volta il parallelo con Adamo ed Eva è inevitabile perché da loro abbiamo naturalmente ereditato la condizione di persone da Lui lontane e saremmo tuttora incapaci di vivere una vita vera se, a un certo punto, non fosse intervenuto Gesù Cristo. Secondo alcuni passi che conosciamo, infatti, Gesù è definito dall’apostolo Paolo come “ultimo Adamo”. Ricordando le parole “Come in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti– quelli che lo avranno accolto – riceveranno la vita”(1 Corinti 15.22), “Il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente, ma l’ultimo Adamo divenne spirito datore di vita”(v.45).

 

I briganti della parabola non si limitarono a spogliare il malcapitato, ma “lo percossero a sangue”, cioè non si accontentarono di rapinarlo tenendolo sotto la minaccia delle armi e non si fermarono in questa azione violenta fino a quando non videro il sangue e constatarono che la persona era rimasta lesionata a tal punto da non potersi più muovere. Possiamo idealmente paragonare la condizione di quel malcapitato, visto che il termine “parabola” significa appunto “paragone”, al gesto di Giobbe che, pur potendo parlare, subì la stessa sorte. Ricordiamo che anche Giobbe, dietro intervento di Satana, perse tutto: figli e figlie, servi e pecore, quindi fu spogliato di ogni cosa. Poi venne la malattia – ecco le percosse –: “Satana si ritirò dalla presenza del Signore e colpì Giobbe con una piaga maligna, dalla pianta dei piedi alla cima del capo. Giobbe prese un coccio per grattarsi e stava seduto in mezzo alla cenere”(2.7,8). E qui probabilmente abbiamo anche il sangue, che esce nel momento in cui si gratta una piaga.

Certo per Giobbe ci fu anche la tortura morale dei tre cosiddetti “amici venuti per consolarlo”che finiranno per affliggerlo con parole indubbiamente buone dal punto di vista morale e religioso, ma non certo spirituali e quindi adatte al suo caso. Di qui la necessità di parlare a chi soffre con parole appropriate, se ne abbiamo. Ricordiamo anche come Giobbe fu trovato da loro: “Alzarono gli occhi da lontano, ma non lo riconobbero. Levarono la loro voce e si misero a piangere. Ognuno si stracciò il mantello e lanciò polvere verso il cielo sul proprio capo. Poi sedettero accanto a lui in terra per sette giorni e sette notti. Nessuno gli rivolgeva una parola, perché vedevano che il suo dolore era molto grande”(2.12,13).

Gli effetti del peccato sono allora quelli appena descritti; possono essere visibili a tutti qualora si manifesti con la malattia del corpo o della mente – che in Eden non vi erano – oppure tramite una vita sregolata, persa ad inseguire il mito della realizzazione personale, in quale campo non importa; se non interviene Gesù a sanare, l’essere umano resta paralizzato, incapace di chiedere aiuto, non necessariamente si accorge di essere stato “spogliato di tutto”e “percosso a sangue”. O, meglio, quando se ne accorgerà sarà troppo tardi.

La terza condizione in cui versa l’anonimo è “mezzo morto”, espressione che nel nostro linguaggio comune viene intesa come “molto stanco, mal messo, sfinito” ma che Gesù, che non parlò mai usando termini esagerati per far meglio presa sui suoi uditori, intende come in stato di incoscienza, cioè con funzioni vitali minime. Essere incoscienti significa non avere consapevolezza della propria esistenza e non essere in grado di interagire con l’ambiente che ci circonda.

Tutto, dal racconto di Nostro Signore, lascia ipotizzare che il personaggio della parabola non fosse in grado di comunicare: non c’è infatti alcuna traccia di dialogo fra il samaritano e il ferito, ma sappiamo che le sue condizioni erano serie a tal punto da richiedere un ricovero nella speranza che guarisse. Effettuando allora un collegamento spirituale, quel “mezzo morto”è la descrizione dello sfinimento finale provocato dalla lontananza da Dio: avendo interrotti i rapporti con Lui, la persona non può vivere autonomamente in una sorta di limbo dove tanto il Signore che l’Avversario sono assenti, ma cadrà inevitabilmente vittima della seconda entità  come direi insegna tutta la Scrittura. Non abbiamo infatti un solo caso in cui un uomo o una donna abbiano vissuto in una condizione di neutralità, poiché “nessuno può servire a due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro”(Matteo 6.24).

“Mezzo morto”è chiaramente la descrizione di uno stato grave, ma in cui è lasciato spazio alla speranza nel senso che non è ancora intervenuta la morte a scrivere la parola “fine” a quell’esistenza. Se l’uomo assalito dai briganti fosse rimasto privo di un intervento teso a curarlo, sarebbe probabilmente deceduto e qui abbiamo i due riferimenti-significati della parabola perché, se nel primo è descritta la carità di un individuo verso il suo “prossimo”, nel secondo abbiamo l’intervento misericordioso del Cristo nei confronti dell’uomo preda dell’Avversario e quindi della lontananza da Dio, come già anticipato. Se prendiamo come appropriato il primo riferimento, abbiamo la descrizione di un’opera intrapresa nei confronti dell’ “altro” di cui non ci viene rivelato il risultato, cioè non sappiamo se quell’uomo guarì oppure no, ma se ci appropriamo del secondo, cioè l’intervento di Gesù, l’insuccesso non è neppure pensabile.

Perché però la persona si possa ristabilire, deve volerlo nel senso che può accettare o rifiutare le cure che gli vengono applicate e il fatto che il samaritano “lo portò in albergo e si prese cura di lui”ci lascia supporre che restò in quel luogo, un caravanserraglio, dedicandosi a lui per tutta la notte fino a quando non ebbe speranza che il suo paziente potesse riprendersi. Infatti leggiamo “Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore”perché si curasse di quell’uomo nell’attesa che ripassasse a pagare le altre, eventuali cure.

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13.01 – IL BUON SAMARITANO, INTRO (Luca 10.25-28)

13.01 – Il buon samaritano, introduzione (Luca 10.25-28)  

 

Con il discorso di Gesù come “buon pastore”si chiude la Sua permanenza a Gerusalemme. Da lì si porterà nei dintorni, con particolare riguardo per il territorio di Betania, poco distante. Affrontiamo così quello che è definito “il libro del grande viaggio”, cioè quell’insieme di episodi che Luca riporta da 9.57 a 13.9. Secondo questa sua narrazione avremmo così l’invio dei 72 discepoli, già trattato, gli episodi di Marta e Maria, oltre all’insegnamento del Padre Nostro.

Dando una brevissima panoramica, dopo circa due mesi di assenza Gesù ritornerà nuovamente a Gerusalemme per la festa della Dedicazione (novembre-dicembre), che ricordava la riconsacrazione del Tempio dopo la profanazione di Antioco IV; qui riprenderemo la lettura del capitolo 10 di Giovanni che temporaneamente abbandoniamo.

Dove avvenne l’esposizione di questa parabola non ci è dato sapere anche se il fatto che Gesù la inzi dicendo “un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico”lasci pensare che si trovasse ancora nei pressi della città. Rimandando l’esame del testo ad un prossimo intervento, occupiamoci delle premesse, cioè del contesto che ne provocò l’esposizione. Leggiamo:

 

25Ed ecco, un dottore della Legge si alzò per metterlo alla prova e chiese: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». 26Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?». 27Costui rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso». 28Gli disse: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai».28Ma quello, volendo giustificarsi, disse: «E chi è il mio prossimo?»

 

Il contesto, stando a Luca, è apparentemente quello in cui Gesù parlò ai discepoli in disparte dicendo “Beati gli occhi che vedono quello che voi vedete. Io vi dico che molti profeti e re hanno voluto vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo udirono”(vv. 23,24). È a questo punto che compare“un dottore della Legge”, anche se quel “Ed ecco”, tradotto da altri con“Allora”, non sta ad indicare necessariamente la sua presenza in quel contesto, ma è un modo che ha l’evangelista di collegare due episodi.

Vediamo ora la figura del “Dottore della Legge”, che apparteneva alla corporazione degli scribi, parte dei quali erano anche farisei. Sappiamo che gli scribi arrivavano a quella carica non prima dei quarant’anni e dopo studi severi e si occupavano della Mikrah, cioè delle Scritture. Sopra di loro c’erano i legali che studiavano la Misnah (ripetizione) che conteneva tutte le leggi relative alla vita spirituale, individuale e sociale del popolo disposte in sessantatré trattati. Infine, i dottori della Legge erano gli espositori della Ghemara, parola che deriva da una radice aramaica che significa “concludere, risolvere” e “apprendere”. Studiavano, commentavano, discutevano e ampliavano la Misnah e le loro conclusioni confluivano nel Talmud.

Ora occorre cercare di capire quali fossero le intenzioni di quell’uomo che “si alzò per metterlo alla prova”: era a lui ostile? Quel “metterlo alla prova”, che altri traducono “tentandolo”, era uno dei molti modi che l’autorità religiosa soleva avere nei Suoi confronti per “avere di che accusarlo”, oppure si voleva provare il sapere di Gesù alla luce delle sue conoscenze? Propendo per la seconda ipotesi perché la risposta di nostro Signore “Hai risposto bene, fa’ questo e vivrai” non contiene alcun rimprovero né una risposta criptica, tesa a realizzare quella situazione espressa altre volte, “perché udendo, non comprendano e, vedendo, non vedano”.

Una circostanza simile a questa è riportata altre due volte, rispettivamente da Matteo e Marco dopo una discussione sorta con i sadducei a proposito del “primo di tutti i comandamenti”: “Allora si avvicinò a lui uno degli scribi che li aveva uditi discutere e, visto come aveva risposto a loro, gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?» Gesù rispose: «Il primo è: Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza. Il secondo è questo: Amerai il tuo prossimo come te stesso. Non c’è altro comandamento più grande di questi». Lo scriba gli disse: «Hai detti bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è l’unico e non vi è altri all’infuori di lui; amarlo con tutto il cuore, con tutta l’intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici». Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, Gesù gli disse: «Non sei lontano dal regno di Dio». E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo”(Marco 12.28-34). Quello scriba non era “lontano dal regno di Dio”; possiamo dire che “una sola cosa”gli mancava, “credere a Colui”che Dio Padre aveva mandato.

Va ora considerato il metodo di Gesù, che risponde alla domanda con un’altra, ribaltando le reciproche posizioni per cui quel dottore della Legge, da interrogante, diventa l’interrogato e colui che viene messo alla prova. La domanda “Che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?”racchiudeva in sé delle applicazioni insormontabili perché la Legge, che trovava il suo punto di espressione più alto nell’amore per Dio e per il prossimo, non riusciva ad applicarla completamente nessuno, per cui chi cercava di adempiere anche quei soli due punti si ritrovava puntualmente sconfitto. Se non si poteva ottenere la vita eterna mediante la Legge, la colpa non era di lei, ma dell’uomo che si ritrovava impotente di fronte ad essa.

L’apostolo Paolo, da fariseo, dà qualche cenno in proposito in Romani 3.20 quando scrive che “In base alle opere della Legge nessun vivente sarà giustificato davanti a Dio, perché per mezzo della Legge si ha la conoscenza del peccato”, quindi non si ha la possibilità di porvi rimedio nonostante i sacrifici e i riti prescritti, quando non interveniva la pena di morte per quelli più gravi. In 8.3 invece leggiamo che “Ciò che era impossibile alla Legge, resa impotente a causa della carne, Dio lo ha reso possibile: mandando il proprio Figlio in una carne simile a quella del peccato e a motivo del peccato, egli ha condannato il peccato nella carne perché la giustizia della Legge fosse compiuta in noi, che camminiamo non secondo la carne, ma secondo lo Spirito”. È quindi il camminare “secondo lo Spirito”che consente la liberazione e la giustizia della Legge “compiuta in noi”: non ci sono tecniche o metodi, ma solo la fede in quel Gesù, che ci ha liberati “dalla legge del peccato e dalla morte”.

In Galati 2.15,16 Paolo chiama poi in causa il suo far parte del popolo eletto: “Noi, che per nascita siamo Giudei e non pagani peccatori, sapendo tuttavia che l’uomo non è giustificato per le opere della Legge ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo, abbiamo creduto anche noi in Cristo Gesù per essere giustificati per la fede in Cristo e non per le opere della Legge, poiché per le opere della Legge non verrà mai giustificato nessuno”. Nessuno, nemmeno l’apostolo stesso, nemmeno Pietro e neppure quel dottore che interroga Gesù nel nostro passo in esame.

A questo punto emerge però un elemento non trascurabile di quel dottore della Legge, e cioè la sue esperienza e capacità di filtrare, arrivare al nocciolo del problema posto: non parla di quante volte bisognava pregare al giorno, di come, se in piedi dondolando come erano soliti fare, quanti pellegrinaggi compiere o di osservare minuziosamente il sabato, ma si confessa implicitamente come persona di fronte alla quale stava l’irraggiungibilità del grande comandamento che chiamava in causa TUTTO: cuore, anima, forza e mente, elementi che racchiudono appunto la totalità del nostro essere senza lasciare posto ad altro, dove nulla di estraneo può avere spazio.

Certo, le parole da lui pronunciate si trovavano scritte su piccoli pezzi di pergamena chiusi nelle filatterie che i Giudei portavano e che dovevano recitare due volte al giorno nelle loro preghiere, ma ciò non toglie che avrebbe potuto rispondere diversamente, chiamando in causa le tradizioni e le regole minuziose della casta cui apparteneva, cosa che fecero e faranno gli oppositori di Gesù.

Chi ci riusciva ad adempiere quel comandamento, che chiamava in causa il prossimo in cui tutto l’amore per l’Iddio di Israele avrebbe dovuto confluire? Certo, ci si poteva auto illudere chiamando in causa quegli stessi meccanismi che fanno sì che delle nullità si credano qualcuno, che le meschinità della persona si trasformino in giustizia come accade a molti, ma il problema restava: i sepolcri, per quanto imbiancati, tali restano e, soprattutto, “all’esterno appaiono belli, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni marciume”(Matteo 23.27).

Il “gran comandamento” coinvolgeva il “cuore”, cioè il luogo in cui risiedono gli affetti e i sentimenti, quindi la nostra sensibilità. L’ “anima”è il nostro carattere, ciò a cui tendiamo per natura, l’attenzione naturale e l’attitudine, la “forza”è la volontà che applichiamo nelle nostre occupazioni e la “mente”è il nostro spirito, la parte più profonda della nostra persona e non per nulla è quella di cui può prendere possesso l’Avversario o un suo delegato. E tutto è, come sappiamo se ci conosciamo, fragile. Di qui l’impossibilità a mettere in pratica “Amerai il Signore tuo Dio con…”, parole che troviamo identiche in Deuteronomio 6.5 cui poi si aggiunge nei versi successivi “Questi precetti che io ti do, ti stiano fissi nel cuore. Li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando ti troverai in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. Te li legherai alla mano come un segno, ti saranno come un pendaglio tra gli occhi e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte”.

A questo punto c’è la risposta di Gesù tesa a far concludere al Suo interrogante quanto fosse impossibile per lui ad arrivare a qualsiasi punto risolutivo: “Hai risposto bene, fa’ questo e vivrai”. Era come chiedere ad una persona di bere da una fonte inesistente nel deserto, o gettare un salvagente a una persona esausta in mare, cioè gli ponte dinnanzi qualcosa di impossibile, praticamente gli dice “se riesci, fallo e ti salverai”. La risposta corretta di quel dottore sarebbe stata “ma non posso!”; invece, confuso per aver ricevuto una risposta così semplice alla sua domanda, chiede una spiegazione su un termine molto semplice,“prossimo”, sull’interpretazione della quale neppure lui poteva avere dei dubbi visto che, per gli ebrei, il “prossimo”era chi era a loro vicino, cioè un altro ebreo.

A questo punto, Gesù espone una parabola chiara, parlando di sé, descrivendo quanto farà nei confronti della persona che accetta il suo aiuto.

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16.38 – PER QUESTO IL PADRE MI AMA (Giovanni 10.14-20)

12.38 – Per questo il Padre mi ama (Giovanni 10.14-20)   

 

17Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. 18Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».19Sorse di nuovo dissenso tra i Giudei per queste parole. 20Molti di loro dicevano: «È indemoniato ed è fuori di sé; perché state ad ascoltarlo?». 21Altri dicevano: «Queste parole non sono di un indemoniato; può forse un demonio aprire gli occhi ai ciechi?».

 

Con i versi 17 e 18 Gesù conclude ed amplia il suo discorso sul “buon pastore”che “dà la propria vita per le pecore”. I verbi su cui riflettere in questi versi sono “dare” (3 volte), “riprendere” (2) e “togliere” (1) che cercheremo di analizzare. All’inizio abbiamo “Per questo il Padre mi ama”che ha riferimento con le condizioni di Gesù uomo che, a differenza di tutti gli altri suoi “simili”, riuscì ad adempiere perfettamente la volontà del Padre fino ad accettare, in ubbidienza libera, di dare la Sua vita per la creatura cui sarebbe altrimenti rimasta incapace di avere un rapporto con Lui. Abbiamo letto e citato più volte il capitolo 53 di Isaia, ma ricordiamo i versi 10 e 12: “Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione, vedrà una discendenza – perché“primogenito di molti fratelli” –, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore. (…) perciò gli darò in premio le moltitudini”.

Abbiamo quindi, nella pericope “Per questo il Padre mi ama”, non la descrizione del motivo per cui Gesù è amato come Figlio (ha infatti vita propria, è “nel seno del Padre”, parte di Lui e Lui stesso), ma per come fu assistito nel Suo corpo di carne arrivando a dare la propria vita, gesto che l’apostolo Paolo commenterà razionalmente con queste parole: “Quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi. Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi”(Romani 5.6-8).

Si noti quanto contrasta il morire “per gli empi”di fronte al “per un giusto”ed ecco perché “la predicazione della croce è pazzia per quelli che periscono, ma per noi, che siamo salvati, è la potenza di Dio”(1 Corinti 10.18). Razionalmente parlando, l’amore per il peccatore, cioè per chi è “professionalmente” contrario a Dio e ai suoi voleri, è qualcosa di assurdo, contrario ad ogni logica.

Per gente quale noi eravamo prima di incontrarLo, non certo “giusti” né “buoni”, nessuno sarebbe stato disposto a morire; eppure Gesù lo fece, donandosi come spiegò ai dodici: “Il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire, e per dare la sua vita come prezzo di riscatto per molti”(Marco 10.45). Da questi elementi sgorga allora l’amore per il Padre nei confronti del Figlio che ha preso forma umana ed è importante non confondere Gesù uomo da quello glorificato, che al pari di Dio non ha nome, ma viene descritto come, salvi l’ “IO SONO”, “simile a un figlio d’uomo”nelle visioni profetiche dell’Antico e del Nuovo Patto.

 

“Dare” è un’azione che nel passo in esame si esplica attraverso tre punti, “do la mia vita”,“la do da me stesso”e “ho il potere di darla”che ci forniscono le credenziali del donatore. Il primo è un annuncio di quello che avverrà da lì a qualche mese, ma i restanti vanno più in profondità perché sottolineano la totale, libera volontà di chi la vita la offre e soprattutto rivelano che nessun altro avrebbe potuto fare così al suo posto.

Con “la do da me stesso”abbiamo l’indicazione del gesto assolutamente volontario che culminerà con la morte e quindi con l’immolazione di Gesù come Agnello, ma non possiamo ignorare il fatto che tutta la vita di Nostro Signore fu un donarsi, un “dare da me stesso”nel privato come nel pubblico, nel constatare i limiti che aveva come uomo in contrapposizione a quelli che non aveva come Dio, nel camminare, nel provare la fame, la sete, la stanchezza, nel sopportare i propri simili facendosi, appunto come abbiamo letto, servo. Credo che quando la perfezione di Dio si scontra con l’imperfezione dell’uomo, solo la carità proveniente direttamente la Lui e una ferrea volontà di salvare abbia potuto provocare il miracolo della sopportazione e dell’amore “fino alla fine”.

L’autore alla lettera agli Ebrei descriverà molto bene l’essenza umana di Gesù quando disse “Tuttavia quel Gesù, che fu fatto di poco inferiore agli angeli, lo vediamo coronato di gloria e di onore a causa della morte che ha sofferto, perché per la grazia di Dio egli provasse la morte a vantaggio di tutti”(2.9), ma quel “di poco inferiore agli angeli”non significa che Nostro Signore fu, nella carne, a un livello intermedio fra l’uomo e Dio Padre, ma essere umano come gli altri. Ecco perché Gesù, quanto al suo essere uomo, era ed è di per sé un miracolo enorme.

Precisazione necessaria: il Salmo 8 citato in Ebrei 2.9 è un ringraziamento al Creatore per aver formato così l’uomo; “Davvero l’hai fatto poco meno di un dio, di gloria e di onore lo hai coronato. Gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi: tutte le greggi e gli armenti e anche le bestie della campagna, gli uccelli del cielo e i pesci del mare, ogni essere che percorre le vie dei mari. O Signore, Signore nostro, quanto è mirabile il tuo nome su tutta la terra!” (vv. 6-10).

Ecco allora che il “la do da me stesso”racchiude tutta la volontarietà da un lato e la meraviglia dall’altro perché, se Gesù fosse stato costretto a fare ciò che ha fatto, nulla avrebbe avuto senso: sono i regni o i governi depravati della terra che si realizzano nell’oppressione, nell’obbligatorietà e nei vincoli, non certo Dio che pone semplicemente davanti all’uomo due vie, quella della benedizione o il suo esatto contrario lasciando a lui la scelta (Deuteronomio 30.15-20).

È importante questa sottolineatura poiché ogni azione che l’uomo compie, tanto sotto costrizione quanto di malavoglia, provoca l’effetto contrario. A volte dimentichiamo che la vita cristiana non può che manifestarsi attraverso un libero e gioioso donarsi senza pensare a un tornaconto personale perché “Tenete a mente che chi semina scarsamente, scarsamente raccoglierà. Ciascuno dia secondo a quanto ha deciso nel suo cuore, non con tristezza né per forza, perché Dio ama chi dona con gioia”(2 Corinti 9. 6,7). Ecco perché Nostro Signore dovette precisare che avrebbe donato spontaneamente la sua vita sotto l’aspetto non solo della morte, pur sapendo le sofferenze che avrebbe comportato.

La terza precisazione sul dono è “Ho il potere di darla”, strettamente connessa alla precedente: come già rilevato, dare la propria vita per qualcuno è un gesto che, pur ammirevole, altro non fa che rimandare la morte del beneficiato a meno che chi sacrifica la propria vita per un altro non abbia “il potere di”farlo, cioè andare oltre, rimediare, farsi garante per sempre. E questo nessun altro uomo avrebbe potuto farlo: sarebbe stato certo considerato positivamente perché “Nessuno ha amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici”(Giovanni 15.13), ma Gesù, che di dare la vita ne aveva “il potere”, lo fa perché solo così avrebbe potuto riscattare la sua creatura, quella con cui in Eden parlava e che nutriva anche lì, per quanto sotto diversa forma, donava di suo, cioè i frutti.

Credo che nessun uomo potesse definirsi più padrone della propria vita di Gesù, Signore di tutto. Eppure la donò liberamente per noi. Eppure non era obbligato a morire, ne aveva solo “il potere”che per definizione implica una scelta. E pensiamo anche a questo: a differenza di noi che abbiamo un appuntamento inevitabile – salvo che Lui non ritorni prima – con la morte, Nostro Signore poteva benissimo non fare quest’incontro, ma morendo dimostrò di condividere in tutto e per tutto, tranne che nel peccato, l’esistenza umana. Fino alla fine.

 

Ed è sul concetto di “potere” che possiamo passare al “riprendere”, “riprenderla di nuovo”, identico in tutti i due casi in cui compare. Chiaramente nessuno può riprendersi la propria vita a meno che non abbia “il potere di darla”nel senso che abbiamo visto poc’anzi. “Dare” e “riprendere”, allora, ci parlano della libertà che Dio ha di disporre della vita e della morte, quest’ultima non soggetta a lui perché conseguenza del peccato, o, come dice la Scrittura, suo “salario”. Tenendo in considerazione il potere di Gesù di deporre la sua vita e di riprenderla si può allora comprendere l’adempimento della promessa, criptica per loro, rivolta ai Giudei, “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere”(Giovanni 2.19) ed è bello considerare che il potere di riprendere la vita che ha donato è in realtà il frutto dell’impossibilità da parte della morte al trattenerlo perché “Ora Dio lo ha risuscitato, liberandolo dai dolori della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere”(Atti 2.24).

Ecco allora perché solo il Cristo può dire “Io sono il primo e l’ultimo, e il vivente. Ero morto, ma ecco sono vivo per i secoli dei secoli, e tengo le chiavi della morte e dell’Ades”(Apocalisse 1. 17,18).

 

Ora resta da esaminare l’ultimo verbo, “togliere”, visto nella pericope “Nessuno me la toglie”che ha connessione, come rilevato più volte, con l’impossibilità che avrebbero avuto gli uomini avversi a Gesù di fargli alcunché se non fosse stato loro permesso. In altri termini, quelli sottostarono alla Sua volontà anche nell’arrestarlo, processarlo, condannarlo e crocifiggerlo. Ricordiamo infatti tutti i tentativi andati a vuoto perché fosse “tolto di mezzo”prima del tempo stabilito tanto a Nazareth quanto a Gerusalemme. “Nessuno me la toglie”nel senso anche di “può togliermela” e molto avrebbero da meditare in proposito coloro che sostengono che Gesù non poteva essere Dio perché Dio non può morire, sofisma farisaico che non tiene conto, perché la rifiuta, della risurrezione dopo tre giorni.

 

Le ultime parole di Gesù nel nostro passo sono “Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio”, ma va sottolineato che la parola “entolé” significa anche “mandato”che pare più appropriata perché nulla lascia supporre, negli scritti dell’Antico e del Nuovo Patto, che il Figlio sia stato costretto a donarsi in sacrificio, senza contare il fatto che, come detto poco prima, l’adesione a Dio sia tutto tranne che frutto di costrizione.

Il “mandato” di Gesù credo piuttosto consistesse nella libertà del dare la vita e di riprenderla con tutto ciò che questo avrebbe comportato: ciò viene ufficializzato nel momento storico della morte e resurrezione, ma in realtà si trattava di qualcosa che Padre, Figlio e Spirito Santo avevano concordato assieme prima ancora di stabilire tutte quelle leggi che governeranno gli equilibri dell’Universo e la vita sulla terra.

Assieme a tutto questo, c’erano anche i nostri nomi secondo Efesi 1.4: “In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci ad essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, secondo il beneplacito della sua volontà”.

Gli ultimi due versi del nostro passo descrivono la reazione dei Giudei che iniziano a dividersi in due fazioni una delle quali, la minoranza, fu in grado di collegare il principio del “buon pastore”e alla vita che sarebbe stata data e ripresa al miracolo del cieco nato: “Queste parole non sono di un indemoniato– constatazione oggettiva, diagnosi alla luce della conoscenza biblica che avevano e di quanto constatavano personalmente –; può forse un demonio aprire gli occhi ai ciechi?”. C’era dunque chi aveva conservato memoria di quel miracolo, avvenuto certo da poco tempo, eppure prontamente, volutamente dimenticato dagli altri che accusarono Gesù di essere “indemoniato e fuori di sé”, la stessa accusa a lui rivolta dai “suoi” parenti, presumiamo madre e fratelli, in Marco 3.21.

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