12.35 – La porta delle pecore (Giovanni 10.7-10)
7Allora Gesù disse loro di nuovo: «In verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore. 8Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. 9Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo. 10Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza.
“La porta delle pecore” è la nuova definizione che Gesù da di sé, oltre a quella di “pastore”: c’è un “recinto” che è quello per il popolo di Dio destinato ad accogliere le pecore condotte da Uno che, oltre a portarle al pascolo, è anche la “porta”, cioè l’unico passaggio possibile per entrare ed essere incluso nel gregge. Gesù quindi, come “porta”, fa entrare nell’ovile e riconosce solo ciò che è Suo e, se è possibile che alcuni passino con l’inganno in quello terreno, la Chiesa, così non avviene nell’ovile spirituale perché occorre possedere la sola qualità necessaria, quella di essere veri figli di Dio. Ricordiamo Luca 13.25: “Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, voi, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: «Signore, aprici!». Ma egli vi risponderà: «Non so di dove siete»”.
Se la “porta” al verso 2, “chi invece entra dalla porta, è il pastore delle pecore”, sembra solo uno strumento, nel settimo (la porta) abbiamo l’identificazione in Gesù che assolve la duplice funzione protettiva e di filtro. La porta infatti è figura di ciò che divide un ambiente, un territorio e, nel nostro caso, un mondo da un altro, sta a segnalare una proprietà privata.
Ricordiamo alcuni passi significativi in proposito, ad esempio in Genesi 4.6,7 in cui la “porta” viene citata per la prima volta nella Scrittura: “Il Signore disse allora a Caino: «Perché sei irritato e perché è abbattuto il tuo volto? Se agisci bene, non dovresti forse tenerlo alto? Ma, se non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, e tu lo dominerai”. Quindi anche l’uomo ha una porta che può essere aperta o chiusa ed è quella del cuore, più o meno permeabile alla Parola di Dio. Sta alla persona scegliere a chi aprire, perché il nostro cuore e la nostra mente sono paragonate a una casa che è inevitabile sia abitata da qualcuno, in particolare da uno spirito immondo o dallo Spirito Santo, come leggiamo in Matteo 12.43-45: “Quando lo spirito impuro esce dall’uomo – perché scacciato da Gesù – si aggira per luoghi deserti cercando sollievo, ma non ne trova – perché ha bisogno di abitare un corpo –. Allora dice: «Ritornerò nella mia casa, da cui sono uscito». E, venuto, la trova vuota, spazzata e adorna – quindi non abitata da altri –. Allora va, prende con sé altri sette spiriti peggiori di lui, vi entrano e vi prendono dimora; e l’ultima condizione di quell’uomo diventa peggiore della prima”.
Se ci pensiamo, sembra di leggere purtroppo una delle cronache della società di oggi, quando un gruppo di persone approfitta dell’assenza del proprietario di una casa per entrarvi e prendervi dimora. Quando Gesù libera una persona, questa deve accoglierlo, “aprirgli la porta” davvero e non dietro un impulso sentimentale, carnale, “mistico”, perché altrimenti sarà inutile e conoscerà una condizione peggiore di quella di prima. Non credo sia un caso se Caino meditò l’omicidio del fratello proprio dopo aver sentito Iddio parlargli nel modo che abbiamo riportato.
Collegato a cosa implichi per l’uomo aprire la porta è Apocalisse 3.20 “Ecco, io sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce – chiara, riconoscibile, unica – e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me”. Notiamo che si parla di cenare, non di pranzare, per cui chi apre la porta a Nostro Signore lascia fuori il buio della sera, si rinfranca da una giornata di lavoro e a lei segue il riposo. Il pranzo invece è una pausa, un intervallo che, per quanto possa essere piacevole, comporta altre implicazioni. Raramente è intimo come la cena e, se ci pensiamo, possiamo pranzare con chiunque, ma non così è per il pasto serale.
Altro riferimento alla “porta” lo troviamo in 4.1 con significato totalmente diverso: “Poi vidi: ecco, una porta era aperta nel cielo. La voce, che avevo udito parlarmi prima come una tromba, diceva: «Sali qua, e ti mostrerò le cose che devono accadere in seguito»”. Restando strettamente aderenti al testo, la “porta aperta nel cielo” è l’ingresso riservato a Giovanni perché possa fedelmente riportare ed annunziare “le cose che devono accadere in breve tempo”. Qui “la porta” è uno strumento e un segno della libera volontà del Figlio, “Colui che ha la chiave di Davide: quando egli apre, nessuno chiude e quando chiude nessuno apre”, o “può aprire” secondo un’altra traduzione. Vediamo poi che alla visione della “porta aperta nel cielo” segue un invito che di quell’apertura è la spiegazione: le rivelazioni di Dio non sono mai fine a loro stesse, non avvengono per soddisfare una curiosità personale, ma perché vengano comunicate ad altri, come scrisse l’apostolo Paolo in 2 Timoteo 2.1,2, “Tu dunque, figlio mio, attingi sempre forza nella grazia che è in Cristo Gesù e le cose che hai udito da me in presenza di molti testimoni, trasmettile a persone fidate, le quali siano in grado di ammaestrare a loro volt anche altri”. La “porta”, allora, qui è anche passaggio, testimonianza, verità che si trasmette a chi è in grado di accoglierla.
Abbiamo poi da considerare “le porte”, quelle della Gerusalemme celeste: “La città non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna perché la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello. Le nazioni cammineranno alla sua luce e i re della terra a lei porteranno la loro magnificenza. Le sue porte non si chiuderanno mai durante il giorno, poiché non vi sarà più notte. E porteranno a lei la gloria e l’onore delle nazioni. Non entrerà in essa nulla d’impuro, né chi commette abominio o falsità, ma solo quelli che sono scritti nel libro della vita dell’Agnello” (21.22-27). Finirà quindi il tempo in cui convivere con gli ignoranti e i peccatori, con i contaminati, la difesa estenuante dai loro tentativi di infiltrazione morale e spirituale negativa. Nella Nuova Gerusalemme, a differenza delle città antiche, non ci saranno mendicanti alle sue porte.
Altra citazione delle “porte” è in 22.12-15 e credo non abbia bisogno di commenti: “Ecco, io verrò presto e porterò con me il mio salario, per rendere a ciascuno secondo le sue opere. Io sono l’Alfa e l’Omega, il Primo e l’Ultimo, il principio e la fine. Beati coloro che lavano le loro vesti: avranno parte all’albero della vita e potranno entrare per le porte nella città. Fuori i cani, i fattucchieri, gli immorali, gli omicidi, gli idolatri e chiunque ama e pratica la menzogna!”.
Infine, e forse a qualcuno era già venuto in mente citando le “porte”, abbiamo la promessa di Gesù sulla Chiesa, quando disse a Pietro “su questa pietra – secondo la quale Lui è il Cristo, il Figlio dell’Iddio vivente – edificherò la mia Chiesa e le porte dell’Ade non la potranno vincere” (Matteo 16.28), quelle porte sempre aperte dopo la via larga e spaziosa che porta alla perdizione, alla fine di una strada in discesa.
A questo punto restano da esaminare le altre parole di Gesù, che confermano come Israele sia stato fino ad allora l’ovile di Dio, per quanto fosse necessario intervenire data la confusione operata dall’Avversario: “Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti”. Certo qui il riferimento non è ai profeti, ma a tutti coloro che hanno avuto la pretesa di trasmettere elementi dottrinali non secondo Dio, come gli scribi e farisei disonesti, cioè la maggior parte, ma anche gli pseudo Messia che ogni tanto sorgevano.
Mosè e i profeti possedevano il mandato per operare secondo i voleri di Dio, ma i Giudei certamente no: la religione, con la sua assenza di verità, porta con sé tutto tranne che veri conduttori spirituali; piuttosto, ha maestri rapaci, superstiziosi, ipocriti e pieni d’orgoglio. La religione, infatti, soddisfa quella parte carnale che vorrebbe godere di spiritualità senza rinunciare alle proprie abitudini. Certo, succede anche nella Chiesa perché altrimenti essa sarebbe un campo senza zizzania. Il “prima di me” sta allora a sottintendere che solo Lui poteva essere il portatore del messaggio perfetto; il resto non era altro che scoria perché, a fronte del fallimento dei pastori che avevano disperso il gregge, “Radunerò io stesso il resto delle mie pecore da tutte le regioni dove le ho lasciate scacciare e le farò tornare ai loro pascoli, saranno feconde e moltiplicheranno” (Geremia 23.3).
Però, anche se era ancora attiva la dispensazione della Legge, “le pecore non li hanno ascoltati”, cioè non hanno aderito ai loro sistemi oppure se ne sono/sarebbero estraniati. Ancora, l’ “ascoltàti” significa non diventare discepoli immedesimandosi in tali persone e qui vediamo anche l’opera di Dio che li preservava, qui descritto con l’istinto della pecora che le impedisce di seguire chi non è il suo pastore. Abbiamo poi “ladri e briganti”, stesse parole dette poco sopra al verso 1, “chi non entra nel recinto delle pecore per la porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante” e, secondo l’aggiornamento qui dato, non c’è altra porta se non Gesù Cristo.
Ora “Se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo” (v.9): il “se”, come abbiamo visto tante volte, è la sola condizione per entrare nell’ovile ed implica l’accettazione del Suo sacrificio visto nella preposizione “attraverso” che implica un passaggio, è un rafforzativo dell’entrare, è per noi un percorso che implica una resa, un abbandono di tutto quello che è di ostacolo, gonfio di inutilità. E qui il rimando alla “porta stretta” e al “cammello” che passa per “la cruna di un ago” è evidente e confluisce nello stesso concetto.
C’è da sottolineare ora “entrerà e uscirà” che potrebbe suggerire il fatto che la pecora, una volta nell’ovile, abbia la libertà di gestire il suo tempo come meglio crede, cosa impossibile perché sappiamo che si tratta di un animale che ha sempre bisogno di essere guidato. Piuttosto “entrare e uscire” è un’espressione usata nella Scrittura per descrivere un corso abituale di vita o il libero uso di una dimora, un entrare e uscire a piacimento come uno fa in casa propria, quindi ha riferimento con la libertà di cui gode il vero cristiano non soggetto a precetti se non quello dell’amore per il suo Signore che porta automaticamente ad uno stile di vita consono alla Scrittura.
La libertà qui descritta non è un vivere anarchico, ma senza la soggezione di quegli elementi del mondo materiale che si manifestavano prima: ora, senza più quel peso, il risultato è “troverà pascolo”, quello vero.
Infine, Gesù si preoccupa di stabilire la differenza fra Lui e gli altri venuti prima, già definiti “ladri e briganti”: “Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita, e l’abbiano in abbondanza” (v.10). Notiamo i tre verbi che contemplano il furto, l’omicidio e la distruzione, tutte caratteristiche piene dell’Avversario che da queste trae il suo nutrimento temporaneo. Il furto equivale al rapimento di cui abbiamo parlato nello scorso studio: il bene una volta appartenuto a una persona non si trova più, ma qui si tratta di un furto a Dio. Lo stesso omicidio poi, privazione della vita tramite la violenza, implica l’assoluta impossibilità di rapporto tra le persone. Nel caso specifico, fu ucciso Abele – primo, inevitabile rimando – e tutti coloro citati da Gesù in Matteo 23.37, “Gerusalemme, Gerusalemme, tu che uccidi i profeti e quelli che sono stati mandati a te, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le sue ali, ma non avete voluto!”. Certo, ne seguiranno da quel momento tanti altri.
“Distruggere” è infine l’ultimo verbo e significa “abbattere, disfare qualcosa in modo da renderlo definitivamente inutilizzabile o da cancellarne perfino al traccia, sterminare, annientare”, quello che Satana voleva fare in Eden e vi riuscì in parte, non tenendo conto che Dio è sì Giudice, ma anche Amore per cui avrebbe recuperato la Sua creatura.
A questi verbi ne contrastano altrettanti: “sono venuto”, cioè mi sono fatto uomo, ho rinunciato a ciò che era mio nell’alto dei cieli per scendere e operare fino al sacrificio estremo. “Perché abbiano la vita”, quella che procede da me, la potenza che rese possibile all’uomo diventare “anima vivente” e che ora lo recupera strappandolo al “presente, malvagio secolo” di buio, freddo e morte. “E l’abbiano in abbondanza”, quindi una vita assolutamente piena in cui nulla manchi, come aveva già capito e sperimentato Davide quando scrisse il Salmo 23 di cui cito il primo verso: “Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla”.
Nelle parole di Gesù, però, si parla della vita spirituale prima impossibile e del fatto che non è venuto sulla terra per salvare nel senso di dare una sorta di tesserino di appartenenza, ma perché questa “vita” sia perfetta, abbondante perché solo così il peccato avrebbe potuto definirsi sconfitto secondo Romani 5.20: “…dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia. Di modo che, come regnò il peccato nella morte, così regni anche la grazia mediante la giustizia per la vita eterna, per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore”. Amen.
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