12.37 – IL BUON PASTORE II/II (Giovanni 10.14-16)

12.37 – Il buon pastore II/II (Giovanni 10.14-16)  

 

14Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, 15così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. 16E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. 

 

Abbiamo qui la definizione di “buon pastore” che Gesù dà di sé per la seconda volta: dopo essersi qualificato come l’unico, contrapponendosi al “mercenario” che non “dà la vita per le sue pecore”, qui parla dell’identità reciproca che intercorre tra Lui e i suoi animali in un rapporto di uno a uno. Ricordando infatti alcuni versi che abbiamo letto in proposito, le “conosce per nome” (10.3), nome che riassume l’identità della persona, che le ha dato un giorno e le verrà rivelato nella Nuova Creazione: “Darò loro un nome eterno che non sarà mai cancellato” (Isaia 56.5) e Apocalisse 2.17 in cui alla Chiesa di Pergamo è detto “Al vincitore darò della manna nascosta e una pietruzza bianca, sulla quale sta scritto un nome nuovo, che nessuno conosce all’infuori di chi lo riceve”. Il “chiamare per nome” da parte di Gesù, quindi, è la rivelazione del piano che Dio ha per ciascun credente e della conoscenza perfetta che ha di lui, mentre la “pietruzza bianca”, nel mondo antico, era un’attestazione di innocenza, di vittoria nella gare di atletica e di benvenuto per gli ospiti.

Le pecore sono chiamate dal pastore “una per una”, cioè non si tratta di un gregge condotto al pascolo per dovere, ma per amore in cui ciascun animale ha un posto al suo interno che solo lui può occupare e in cui può esprimersi, trovare la ragione della sua esistenza, sostare nel territorio a lui assegnato.

Il riferimento a questi animali lo troviamo anche in Matteo e in Luca in cui Gesù parla del Suo intervento qualora una delle pecore si smarrisca: “Che cosa vi pare? Se un uomo ha cento pecore e una di loro si smarrisce, non lascerà le novantanove sui monti e andrà a cercare quella che si è smarrita? In verità io vi dico: se riesce a trovarla, si rallegrerà per quella più che per le novantanove che non si erano smarrite. Così è la volontà del Padre vostro che è nei cieli, che neanche uno di questi piccoli si perda” (Matteo 18.12-14). Luca, invece, pone l’accento su un aspetto diverso: “Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini, e dice loro: «Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta». Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione” (15.4-7).

Di questi due passi sono da sottolineare i numeri, uno dell’incompletezza (99) e l’altro del compimento (100) per cui è impossibile che il gregge possa essere definito completo, che possa soddisfare le esigenze del pastore se risulta privo anche di un solo capo ed è lo stesso principio che abbiamo trovato nella parabola delle zizzanie, quando proibisce ai suoi servi di estirparle prima della mietitura perché, sradicandole, le radici intrecciate avrebbero coinvolto nello strappo ne piantine di grano.

Gesù poi è il pastore che “dà la vita per le proprie pecore”, punto su cui si incardina tutto il messaggio del Vangelo che altrimenti non sarebbe un “lieto annuncio” perché tutti noi saremmo inchiodati al nostro (o nostri) peccato/i. Se non si fosse concretato il Suo sacrificio, descritto da Isaia 53.6 con le parole “Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada; il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti”, non sarebbe mai cambiato nulla nella nostra vita. E un gregge sperduto non ha nessuna prospettiva né tantomeno possibilità di sopravvivenza, cadendo inevitabilmente vittima degli animali predatori (ricordiamo Davide, che per salvare il suo gregge combatté con un leone e un orso in 1 Samuele 17.34,35: “Ma Davide disse a Saul: «Il tuo servo pascolava il gregge di suo padre e veniva talvolta un leone o un orso a portar via una pecora dal gregge. Allora lo inseguivo, lo abbattevo e strappavo la pecora dalla sua bocca. Se si rivoltava contro di me, l’afferravo per le mascelle, l’abbattevo e lo uccidevo. Il tuo servo ha abbattuto il leone e l’orso”).

Versi significativi a proposito di Gesù che ha dato la propria vita ne abbiamo in Efesi 5.2, “Fatevi dunque imitatori di Dio, quali figli carissimi, e camminate nella carità, nel modo in cui anche Cristo ci ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore”, Tito 2.14, “Egli ha dato se stesso per noi, per riscattarsi da ogni iniquità e formare per sé un popolo puro che gli appartenga, pieno di zelo per le buone opere”. Solo quindi dando “se stesso per noi” avrebbe potuto “formare per sé un popolo puro” che gli appartenga, appunto il gregge.

E 1 Pietro 2.24 ribadisce il concetto: “Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce, perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia”.

 

Nel verso 14 del nostro passo, però, vediamo che il punto centrale è un altro, cioè “…così come il Padre conosce me ed io conosco il Padre”: in pratica, prima Gesù si dichiara come “il buon pastore”, poi parla del Suo rapporto col Padre e poi torna a parlare di sé, “do la vita per me mie pecore”. Abbiamo allora la descrizione della Sua posizione quale Unico Elemento, sulla terra e nei cieli, protagonista della rivelazione del Dio inaccessibile per cui c’è un “IO SONO” che ha creato il mondo, ciò che è in esso cioè dentro, sopra e sotto, e un “Io sono” fatto uomo che lo ha rivelato, Lui e nessun altro. Tutti coloro che sono venuti prima di Lui, hanno dato di Dio una versione limitata al loro tempo, funzionale per un piano che, nonostante la sua grandezza, era comunque limitato e dipendente da eventi successivi per la sua realizzazione; pensiamo ad esempio a Mosè che condusse il popolo fuori dall’Egitto, che diede la Legge, ma che non aprì le porte alla vastità enorme della Grazia come fece invece Gesù Cristo. E – va aggiunto – come solo Lui avrebbe potuto fare.

Ora qui Gesù mette sullo stesso piano la conoscenza che ha del Padre con quella che ha delle sue pecore e quindi si rinnova nella Sua funzione di Mediatore: “Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo” (Matteo 11.27). È quindi Lui tanto chi ha aperto la via al Padre quanto chi lo rivela. La sua funzione mediatrice quindi non si limita al perdóno dei peccati e al rendere compatibile l’uomo con Lui, ma al rivelarlo affinché il credente, prima ancorato alla terra e al peccato, possa conoscere i Suoi misteri. In pratica, per dare una rivelazione piena di Dio, era necessario che Lui stesso si facesse uomo e parlasse come la sua creatura, fatto ben diverso rispetto a quei momenti in cui veniva suscitato un profeta, uomo e quindi imperfetto, che null’altro poteva comunicare se non ciò che Dio gli ordinava di dire agli altri.

Ricordiamo Giovanni 1.18, “Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato”: quindi il Padre è portato al livello della nostra conoscenza nella persona del Figlio che è manifestazione della divinità. Infatti leggiamo “È in lui – Gesù Cristo – che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità, e voi partecipate alla pienezza di lui, che è il capo di ogni principato e di ogni Potenza” (Colossesi 2.9). L’importanza del Figlio di Dio, anche “dell’uomo” perché a lui si è abbassato, è tale per cui “Tutto egli ha messo sotto i suoi piedi e lo ha dato alla Chiesa come capo su tutte le cose: essa è il corpo di lui, la pienezza di colui che è il perfetto compimento di tutte le cose” (Efesi 1.22,23).

 

A questo punto, tornando ai nostri versi, il 15 apre uno sguardo su quei popoli che, non appartenenti a quello di Israele, vivevano esclusi dalla possibilità di conoscere il vero Dio: “E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore”. Qui Gesù tocca un “tasto spiacevole” per gli Ebrei, che rivendicavano la loro esclusiva appartenenza a Dio e di cui abbiamo testimonianza in molti passi: in Lui si realizzano le profezie più velate, come abbiamo letto nel secondo cantico del Servo, “È troppo poco che tu sia mio servo per restaurare le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti d’Israele. Io ti renderò luce delle nazioni, perché porti la salvezza fino all’estremità della terra” (Isaia 49.6). Anche 60.2,3, “Poiché ecco, la tenebra ricopre la terra, nebbia fitta avvolge i popoli; ma su di te risplende il Signore, la sua gloria appare su di te. Cammineranno le genti alla tua luce, i re allo splendore del tuo sorgere”.

 

Gesù però, dando questa panoramica sul proprio ufficio di Pastore, dà anche un’anticipazione di quanto avverrà, perché precisa che le “altre pecore”, che non appartengono al “recinto” di Israele, “Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore”. In tal modo, un altro tassello al grande mosaico che è l’Opera perfetta di Dio per il ricupero dell’uomo caduto, verrà aggiunto.

Non credo vi sia modo migliore e più chiaro per concludere queste riflessioni con la citazione di Efesi 2.11-18: “Perciò – la salvezza per fede – ricordatevi che un tempo voi, pagani nella carne, chiamati – con disprezzo – non circoncisi da quelli che si dicono circoncisi perché resi tali nella carne per mano d’uomo, ricordatevi che in quel tempo eravate senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza di Israele, estranei ai patti della promessa, senza speranza e senza Dio nel mondo. Ora invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate lontani, siete diventati vicini, grazie al sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra pace, colui che di due – popoli, ebrei e gentili – ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva, cioè l’inimicizia, per mezzo della sua carne. Così egli ha abolito la Legge – perché l’ha adempiuta perfettamente –, fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, eliminando in se stesso l’inimicizia. Egli è venuto ad annunciare pace a voi che eravate lontani – in quanto gentili – , e pace a coloro che erano vicini – in quanto popolo di Israele –. Per mezzo di lui infatti possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo spirito”. Amen.

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12.36 – IL BUON PASTORE I/II (Giovanni 10.11-13)

12.36 – Il buon pastore I/II (Giovanni 10.11-13)       

 

11Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. 12Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; 13perché è un mercenario e non gli importa delle pecore. 

 

L’ “io sono” di Gesù è stato affrontato fin qui diverse volte, mai però quando vi aggiunge un complemento oggetto, particolare che nei Sinottici non troviamo. Complessivamente abbiamo nove definizioni, quindi tre per tre, viste nel

 

  1. “pane della vita”;
  2. “pane vivo disceso dal cielo”;
  3. “la luce del mondo”;
  4. “la porta delle pecore”;
  5. “la porta”;
  6. “il buon pastore”;
  7. “la resurrezione e la vita”;
  8. “la via, la verità e la vita”;
  9. “la vera vite”.

 

Ora, guardandole assieme, è facile individuare la perfezione degli interventi a favore di chi ha riposto il Lui la propria fede: abbiamo il nutrire (“pane della vita” e “pane vivo disceso dal cielo”), il guidare senza possibilità di errore (“la luce del mondo”, “il buon pastore”), ricoverare in un luogo sicuro (“la porta” e “la porta delle pecore”) e infine donare liberamente ciò che mai l’uomo avrebbe potuto acquistare coi suoi mezzi, cioè “la resurrezione e la vita” e “la via, la verità e la vita” che tutti cercano, purtroppo molti solo a parole. A tutte queste definizioni si aggiunge “la vera vite” che mantiene vivi i propri tralci destinati a far frutto (o a venire tagliati se non lo producono).

Gesù non è “un” pastore, ma “il” pastore al quale aggiunge l’aggettivo “buono” a sottintendere che non è come gli altri, ma quello ideale e appropriato, nel vero senso del termine, per la pecora. In greco “buono”, tradotto da “kalòs” riassume i significati di “bello, buono, nobile” mentre il suo contrario, “brutto” annovera in realtà anche i termini di “vile, malvagio”. Possiamo affermare che di “buon pastore” non ve ne possono essere altri perché portino come risultato la salvezza dell’uomo. Ricordiamo le sue parole “Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza”.

Gesù è “il” pastore che si occupa dei suoi animali interamente, amandoli a tal punto da dare la propria vita per loro perché non muoiano, cosa che senza il Suo sacrificio sarebbe certamente avvenuta perché con tutta la Sua predicazione, i miracoli e le potenti operazioni avrebbe soltanto dimostrato di essere il profeta più grande mai apparso sulla terra, ma saremmo rimasti assolutamente soli, senza possibilità di aggrapparci a Lui per avere riscatto.

Infatti Isaia scrive “Noi tutti eravamo sperduti come un gregge – senza pastore –, il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti” (53.6), talché “… camminate nella carità, nel modo in cui anche Cristo ci ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di odor soave”.

Il percorso finale di Gesù fu questo: “Egli ha dato se stesso per noi, per riscattarci da ogni iniquità e formare per sé un popolo puro che gli appartenga, pieno di zelo e di opere buone” (Tito 2.14) e, infine, “Egli portò i nostri peccati sul suo corpo sul legno della croce perché, non vivendo per il peccato, vivessimo per la giustizia. Dalle sue piaghe siamo stati guariti”.

Senza il Suo sacrificio Gesù non avrebbe potuto liberare nessuno da un’esistenza che, comunque la si guardi, è fatta di ben poche cose e soprattutto è destinata a finire perché “L’uomo, nato da donna, ha vita breve e piena d’inquietudine; come un fiore spunta e avvizzisce, fugge come l’ombra e mai si ferma” (Giobbe 14.1).

Proviamo a riflettere brevemente su questo verso: l’uomo ha “vita breve e piena d’inquietudine” e di questo purtroppo se ne rende conto quando, giunto avanti negli anni, fa un bilancio della propria esistenza ed è costretto a concludere che tutto il suo vissuto è trascorso quasi senza che se ne accorgesse. L’inquietudine che lo anima continuamente non è costituita solo dallo stress che accumula sul lavoro, per insoddisfazioni e tensioni varie a causa di incomprensioni col proprio simile, ma dalla ricerca di quiete che non riesce a trovare e, quando la raggiunge, è solo per poco tempo. Non riesce ad afferrarla che è già svanita. L’“inquietudine” è così tanto la preoccupazione quanto il tendere a qualcosa senza raggiungerlo, il soddisfare una sete che si ha dentro e si continua ad avvertire, come già detto alla Samaritana.

“Come un fiore spunta e avvizzisce” ci dà la descrizione della nascita, solitamente motivo di gioia perché una nuova vita rallegra chi la vede venire al mondo, ma all’immagine positiva e di bellezza del fiore si contrappone come una condanna l’ “avvizzisce”, processo che se uno vive abbastanza da vederlo è lento, ma inesorabile a tal punto che una persona anziana è costretta a rassegnarsi a vivere il meno peggio possibile, ma non bene come, forse, quando era giovane.

“Fugge come l’ombra e mai si ferma” è la descrizione delle nostre occupazioni, per lavoro o per svago non importa: siamo un’ombra costretta a muoversi seguendo un corpo che non conosce e che resta sempre un mistero. E l’ombra, incorporea, che assume forma solo quando c’è il sole o una fonte luminosa alternativa, non ha volontà né pensiero, sparisce non appena la luce si spegne o addirittura una semplice nuvola oscura il sole.

Quando poi dopo l’avvizzimento viene la morte, si conclude il percorso sulla terra, ma non è tutto così semplice perché il decesso non è solo il cessare del battito cardiaco, ma un punto fermo: non è più possibile tornare indietro, dire ciò che non si è detto o correggerlo, riparare a qualcosa o costruirlo e ciò avviene tanto per chi muore quanto per tutti coloro che resteranno in vita dopo di lui. La morte porta con sé l’irrimediabilità del tutto. Una fine che, come sappiamo, porterà un rendiconto quando ci troveremo dall’altra parte ed ecco perché nella nostra vita sulla terra Gesù è “Il buon pastore” che, al contrario di quello cattivo che citeremo brevemente, conosce le sue pecore “una per una” nel profondo, sa di cos’hanno bisogno, qual è il loro carattere, come prenderle, come usarle, cosa donare loro.

Il gregge è un organismo composto da elementi che non sanno orientarsi e possono cadere vittime di pastori iniqui oppure di altri soggetti, come preannunciò l’apostolo Paolo in Atti 20.29: “Io so che dopo la mia partenza – si trovava a Mileto – verranno tra voi lupi rapaci, che non risparmieranno il gregge; perfino in mezzo a voi sorgeranno alcuni a parlare di cose perverse, per attirare discepoli dietro di sé”, “discepoli”, quindi “pecore” che dipenderanno da loro e non più da Dio.

Ancora Pietro nella sua seconda lettera 2.1-3: “Ci sono stati anche falsi profeti fra il popolo, come pure ci saranno in mezzo a voi falsi maestri – cioè falsi pastori umani che “il buon pastore” ha lasciato a pascere il suo gregge in Sua assenza – i quali introdurranno fazioni che portano alla rovina – perché un regno diviso in due non può sussistere –, molti seguiranno la loro condotta immorale e per colpa loro la via della verità sarà coperta di disprezzo – pensiamo a quanti abbandoni ci sono nella Chiesa per gli scandali e le immoralità che avvengono in essa –. Nella loro cupidigia vi sfrutteranno con parole false, ma per loro la condanna è in atto ormai da tempo e la loro rovina non si fa attendere”.

Non così il vero credente, che ha avuto l’imprinting proprio dal “buon pastore” e che ne riconosce la voce e a Lui si affida e, nonostante tutte le negatività che si esprimono proprio là dove potrebbe trovare riposo; “Tuttavia le solide fondamenta gettate da Dio resistono e portano questo sigillo: Il Signore conosce quelli che sono suoi, e ancora: Si allontani dall’iniquità chiunque invoca il nome del Signore. In una casa grande però non vi sono soltanto vasi d’oro e d’argento, ma anche di legno e di argilla; alcuni per usi nobili, altri per usi spregevoli. Chi si manterrà puro da queste cose, sarà come un vaso nobile, santificato, utile al padrone di casa, pronto per ogni opera buona” (2 Timoteo 2.1-3).

C’è però una realtà e cioè che “il buon pastore”, che “dà la vita per le sue pecore”, svolge una funzione che non conosce fine: “Eravate erranti come pecore, ma ora siete stati ricondotti al pastore e custode delle vostre anime” (1 Pietro 2.25), quindi alla descrizione di questi animali disorientati e senza un dove, “eravate erranti”, ora c’è una situazione di stabilità e pace vista nelle parole “ricondotti”, “pastore e custode” e “vostre anime”. La “pecora di Gesù”, se lo seguirà sempre, non si smarrirà. Quando, perché comunque è dotata di volontà propria, vorrà fare di testa sua potrà perdersi per un tempo più o meno lungo, ma verrà sempre ritrovata. Il “custode” non usa metodi violenti per sottomettere i suoi animali, non li chiude in una prigione, “cammina davanti a loro”, ma non li percuote perché stiano compatte e unite: vuole che decidano, nel loro interesse, di stare con lui condividendone il cammino e il pascolo.

Veniamo ora al “mercenario”, altro personaggio indicativo: si tratta di una persona insensibile, pagata per fare un lavoro quindi non un altro pastore che può amare più o meno quegli animali. Il “mercenario” si muove per interesse, per lui conta solo venire pagato, possibilmente al meglio col minor sforzo; sa che non deve perdere delle pecore perché altrimenti il padrone si rivarrebbe su di lui per cui le cura, ma solo per non rimetterci ed è una figura differente dall’ “estraneo” che abbiamo trovato nei versi precedenti.

Il “mercenario” è figura di persone, ma anche di dottrine e filosofie che non possono che offrire una soluzione temporanea per poi dissolversi e pensiamo a quanti sono convinti di aver trovato la soluzione ai loro problemi praticando Yoga o altre forme di rilassamento e/o meditazione, frequentano circoli mistici o esoterici e, siccome ottengono risultati (temporanei), vi si dedicano con assiduità, ma quando “viene il lupo”? Il “mercenario” fugge perché non è più in grado di aiutare, offrire soluzioni, alternative a quella che è la meccanica della vita che inevitabilmente sfocia nella tribolazione, nel lutto e nella disperazione causata dalla rovina imminente o avvenuta. È la casa costruita sulla sabbia che altro non può fare se non distruggersi.

Il “mercenario, che non è un pastore e al quale le pecore non gli appartengono” si rivela così per quello che è: un palliativo, un individuo non idoneo, incompetente, alternativo di un nulla. Costui “abbandona le pecore e fugge” non perché trova la sua soddisfazione nella rovina del gregge, ma perché pensa a se stesso, si preoccupa di salvarsi a fronte del pericolo e nulla gli importa se degli innocenti muoiono: “è un mercenario e non gli importa delle pecore”, è così e basta, non gli importava prima, né tantomeno quando giunge un predatore che, paradossalmente, gli dà solo una giustificazione per non agire: “le pecore non sono mie, chi me lo fa fare?”.

Credo che ogni cristiano sincero sia scampato e scamperà sempre dal “mercenario” perché con lui incompatibile: “le pecore ascoltano” la voce del pastore e un estraneo non lo seguiranno. E infatti, il verso 14 col quale apriremo il prossimo capitolo, così riporta: “Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me”. Amen.

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12.35 – LA PORTA DELLE PECORE (Giovanni 10.7-10)

12.35 – La porta delle pecore (Giovanni 10.7-10)  

 

7Allora Gesù disse loro di nuovo: «In verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore. 8Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. 9Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo. 10Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza.

 

“La porta delle pecore” è la nuova definizione che Gesù da di sé, oltre a quella di “pastore”: c’è un “recinto” che è quello per il popolo di Dio destinato ad accogliere le pecore condotte da Uno che, oltre a portarle al pascolo, è anche la “porta”, cioè l’unico passaggio possibile per entrare ed essere incluso nel gregge.  Gesù quindi, come “porta”, fa entrare nell’ovile e riconosce solo ciò che è Suo e, se è possibile che alcuni passino con l’inganno in quello terreno, la Chiesa, così non avviene nell’ovile spirituale perché occorre possedere la sola qualità necessaria, quella di essere veri figli di Dio. Ricordiamo Luca 13.25: “Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, voi, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: «Signore, aprici!». Ma egli vi risponderà: «Non so di dove siete»”.

Se la “porta” al verso 2, “chi invece entra dalla porta, è il pastore delle pecore”, sembra solo uno strumento, nel settimo (la porta) abbiamo l’identificazione in Gesù che assolve la duplice funzione protettiva e di filtro. La porta infatti è figura di ciò che divide un ambiente, un territorio e, nel nostro caso, un mondo da un altro, sta a segnalare una proprietà privata.

Ricordiamo alcuni passi significativi in proposito, ad esempio in Genesi 4.6,7 in cui la “porta” viene citata per la prima volta nella Scrittura: “Il Signore disse allora a Caino: «Perché sei irritato e perché è abbattuto il tuo volto? Se agisci bene, non dovresti forse tenerlo alto? Ma, se non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, e tu lo dominerai”. Quindi anche l’uomo ha una porta che può essere aperta o chiusa ed è quella del cuore, più o meno permeabile alla Parola di Dio. Sta alla persona scegliere a chi aprire, perché il nostro cuore e la nostra mente sono paragonate a una casa che è inevitabile sia abitata da qualcuno, in particolare da uno spirito immondo o dallo Spirito Santo, come leggiamo in Matteo 12.43-45: “Quando lo spirito impuro esce dall’uomo – perché scacciato da Gesù – si aggira per luoghi deserti cercando sollievo, ma non ne trova – perché ha bisogno di abitare un corpo –. Allora dice: «Ritornerò nella mia casa, da cui sono uscito». E, venuto, la trova vuota, spazzata e adorna – quindi non abitata da altri –. Allora va, prende con sé altri sette spiriti peggiori di lui, vi entrano e vi prendono dimora; e l’ultima condizione di quell’uomo diventa peggiore della prima”.

Se ci pensiamo, sembra di leggere purtroppo una delle cronache della società di oggi, quando un gruppo di persone approfitta dell’assenza del proprietario di una casa per entrarvi e prendervi dimora. Quando Gesù libera una persona, questa deve accoglierlo, “aprirgli la porta” davvero e non dietro un impulso sentimentale, carnale, “mistico”, perché altrimenti sarà inutile e conoscerà una condizione peggiore di quella di prima. Non credo sia un caso se Caino meditò l’omicidio del fratello proprio dopo aver sentito Iddio parlargli nel modo che abbiamo riportato.

Collegato a cosa implichi per l’uomo aprire la porta è Apocalisse 3.20 “Ecco, io sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce – chiara, riconoscibile, unica – e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me”. Notiamo che si parla di cenare, non di pranzare, per cui chi apre la porta a Nostro Signore lascia fuori il buio della sera, si rinfranca da una giornata di lavoro e a lei segue il riposo. Il pranzo invece è una pausa, un intervallo che, per quanto possa essere piacevole, comporta altre implicazioni. Raramente è intimo come la cena e, se ci pensiamo, possiamo pranzare con chiunque, ma non così è per il pasto serale.

Altro riferimento alla “porta”  lo troviamo in 4.1 con significato totalmente diverso: “Poi vidi: ecco, una porta era aperta nel cielo. La voce, che avevo udito parlarmi prima come una tromba, diceva: «Sali qua, e ti mostrerò le cose che devono accadere in seguito»”. Restando strettamente aderenti al testo, la “porta aperta nel cielo” è l’ingresso riservato a Giovanni perché possa fedelmente riportare ed annunziare “le cose che devono accadere in breve tempo”. Qui “la porta” è uno strumento e un segno della libera volontà del Figlio, “Colui che ha la chiave di Davide: quando egli apre, nessuno chiude e quando chiude nessuno apre”, o “può aprire” secondo un’altra traduzione. Vediamo poi che alla visione della “porta aperta nel cielo” segue un invito che di quell’apertura è la spiegazione: le rivelazioni di Dio non sono mai fine a loro stesse, non avvengono per soddisfare una curiosità personale, ma perché vengano comunicate ad altri, come scrisse l’apostolo Paolo in 2 Timoteo 2.1,2, “Tu dunque, figlio mio, attingi sempre forza nella grazia che è in Cristo Gesù e le cose che hai udito da me in presenza di molti testimoni, trasmettile a persone fidate, le quali siano in grado di ammaestrare a loro volt anche altri”. La “porta”, allora, qui è anche passaggio, testimonianza, verità che si trasmette a chi è in grado di accoglierla.

Abbiamo poi da considerare “le porte”, quelle della Gerusalemme celeste: “La città non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna perché la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello. Le nazioni cammineranno alla sua luce e i re della terra a lei porteranno la loro magnificenza. Le sue porte non si chiuderanno mai durante il giorno, poiché non vi sarà più notte. E porteranno a lei la gloria e l’onore delle nazioni. Non entrerà in essa nulla d’impuro, né chi commette abominio o falsità, ma solo quelli che sono scritti nel libro della vita dell’Agnello” (21.22-27). Finirà quindi il tempo in cui convivere con gli ignoranti e i peccatori, con i contaminati, la difesa estenuante dai loro tentativi di infiltrazione morale e spirituale negativa. Nella Nuova Gerusalemme, a differenza delle città antiche, non ci saranno mendicanti alle sue porte.

Altra citazione delle “porte” è in 22.12-15 e credo non abbia bisogno di commenti: “Ecco, io verrò presto e porterò con me il mio salario, per rendere a ciascuno secondo le sue opere. Io sono l’Alfa e l’Omega, il Primo e l’Ultimo, il principio e la fine. Beati coloro che lavano le loro vesti: avranno parte all’albero della vita e potranno entrare per le porte nella città. Fuori i cani, i fattucchieri, gli immorali, gli omicidi, gli idolatri e chiunque ama e pratica la menzogna!”.

Infine, e forse a qualcuno era già venuto in mente citando le “porte”, abbiamo la promessa di Gesù sulla Chiesa, quando disse a Pietro “su questa pietra – secondo la quale Lui è il Cristo, il Figlio dell’Iddio vivente – edificherò la mia Chiesa e le porte dell’Ade non la potranno vincere” (Matteo 16.28), quelle porte sempre aperte dopo la via larga e spaziosa che porta alla perdizione, alla fine di una strada in discesa.

A questo punto restano da esaminare le altre parole di Gesù, che confermano come Israele sia stato fino ad allora l’ovile di Dio, per quanto fosse necessario intervenire  data la confusione operata dall’Avversario: “Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti”. Certo qui il riferimento non è ai profeti, ma a tutti coloro che hanno avuto la pretesa di trasmettere elementi dottrinali non secondo Dio, come gli scribi e farisei disonesti, cioè la maggior parte, ma anche gli pseudo Messia che ogni tanto sorgevano.

Mosè e i profeti possedevano il mandato per operare secondo i voleri di Dio, ma i Giudei certamente no: la religione, con la sua assenza di verità, porta con sé tutto tranne che veri conduttori spirituali; piuttosto, ha maestri rapaci, superstiziosi, ipocriti e pieni d’orgoglio. La religione, infatti, soddisfa quella parte carnale che vorrebbe godere di spiritualità senza rinunciare alle proprie abitudini. Certo, succede anche nella Chiesa perché altrimenti essa sarebbe un campo senza zizzania. Il “prima di me” sta allora a sottintendere che solo Lui poteva essere il portatore del messaggio perfetto; il resto non era altro che scoria perché, a fronte del fallimento dei pastori che avevano disperso il gregge, “Radunerò io stesso il resto delle mie pecore da tutte le regioni dove le ho lasciate scacciare e le farò tornare ai loro pascoli, saranno feconde e moltiplicheranno” (Geremia 23.3).

Però, anche se era ancora attiva la dispensazione della Legge, “le pecore non li hanno ascoltati”, cioè non hanno aderito ai loro sistemi oppure se ne sono/sarebbero estraniati. Ancora, l’ “ascoltàti” significa non diventare discepoli immedesimandosi in tali persone e qui vediamo anche l’opera di Dio che li preservava, qui descritto con l’istinto della pecora che le impedisce di seguire chi non è il suo pastore. Abbiamo poi “ladri e briganti”, stesse parole dette poco sopra al verso 1, “chi non entra nel recinto delle pecore per la porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante” e, secondo l’aggiornamento qui dato, non c’è altra porta se non Gesù Cristo.

Ora “Se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo” (v.9): il “se”, come abbiamo visto tante volte, è la sola condizione per entrare nell’ovile ed implica l’accettazione del Suo sacrificio visto nella preposizione “attraverso” che implica un passaggio, è un rafforzativo dell’entrare, è per noi un percorso che implica una resa, un abbandono di tutto quello che è di ostacolo, gonfio di inutilità. E qui il rimando alla “porta stretta” e al “cammello” che passa per “la cruna di un ago” è evidente e confluisce nello stesso concetto.

C’è da sottolineare ora “entrerà e uscirà” che potrebbe suggerire il fatto che la pecora, una volta nell’ovile, abbia la libertà di gestire il suo tempo come meglio crede, cosa impossibile perché sappiamo che si tratta di un animale che ha sempre bisogno di essere guidato. Piuttosto “entrare e uscire” è un’espressione usata nella Scrittura per descrivere un corso abituale di vita o il libero uso di una dimora, un entrare e uscire a piacimento come uno fa in casa propria, quindi ha riferimento con la libertà di cui gode il vero cristiano non soggetto a precetti se non quello dell’amore per il suo Signore che porta automaticamente ad uno stile di vita consono alla Scrittura.

La libertà qui descritta non è un vivere anarchico, ma senza la soggezione di quegli elementi del mondo materiale che si manifestavano prima: ora, senza più quel peso, il risultato è “troverà pascolo”, quello vero.

Infine, Gesù si preoccupa di stabilire la differenza fra Lui e gli altri venuti prima, già definiti “ladri e briganti”: “Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita, e l’abbiano in abbondanza” (v.10). Notiamo i tre verbi che contemplano il furto, l’omicidio e la distruzione, tutte caratteristiche piene dell’Avversario che da queste trae il suo nutrimento temporaneo. Il furto equivale al rapimento di cui abbiamo parlato nello scorso studio: il bene una volta appartenuto a una persona non si trova più, ma qui si tratta di un furto a Dio. Lo stesso omicidio poi, privazione della vita tramite la violenza, implica l’assoluta impossibilità di rapporto tra le persone. Nel caso specifico, fu ucciso Abele – primo, inevitabile rimando – e tutti coloro citati da Gesù in Matteo 23.37, “Gerusalemme, Gerusalemme, tu che uccidi i profeti e quelli che sono stati mandati a te, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le sue ali, ma non avete voluto!”. Certo, ne seguiranno da quel momento tanti altri.

“Distruggere” è infine l’ultimo verbo e significa “abbattere, disfare qualcosa in modo da renderlo definitivamente inutilizzabile o da cancellarne perfino al traccia, sterminare, annientare”, quello che Satana voleva fare in Eden e vi riuscì in parte, non tenendo conto che Dio è sì Giudice, ma anche Amore per cui avrebbe recuperato la Sua creatura.

A questi verbi ne contrastano altrettanti: “sono venuto”, cioè mi sono fatto uomo, ho rinunciato a ciò che era mio nell’alto dei cieli per scendere e operare fino al sacrificio estremo. “Perché abbiano la vita”, quella che procede da me, la potenza che rese possibile all’uomo diventare “anima vivente” e che ora lo recupera strappandolo al “presente, malvagio secolo” di buio, freddo e morte. “E l’abbiano in abbondanza”, quindi una vita assolutamente piena in cui nulla manchi, come aveva già capito e sperimentato Davide quando scrisse il Salmo 23 di cui cito il primo verso: “Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla”.

Nelle parole di Gesù, però, si parla della vita spirituale prima impossibile e del fatto che non è venuto sulla terra per salvare nel senso di dare una sorta di tesserino di appartenenza, ma perché questa “vita” sia perfetta, abbondante perché solo così il peccato avrebbe potuto definirsi sconfitto secondo Romani 5.20: “…dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia. Di modo che, come regnò il peccato nella morte, così regni anche la grazia mediante la giustizia per la vita eterna, per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore”. Amen.

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12.34 – IL PASTORE DELLE PECORE (Giovanni 10.1-6)

12.34 – Il pastore delle pecore (Giovanni 10.1-6)   

 

1 «In verità, in verità io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante. 2Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore. 3Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori. 4E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce. 5Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei». 6Gesù disse loro questa similitudine, ma essi non capirono di che cosa parlava loro.

 

Il capitolo decimo si apre con questo discorso di Gesù, l’ultimo a Gerusalemme prima di lasciarla intraprendendo il viaggio missionario che verrà riportato da Luca, portandosi nei dintorni della città e nella regione di Betania. Le parole che abbiamo letto vengono subito dopo la netta distinzione fra “coloro che non vedono” destinati a ricuperare la vista a seguito di un Suo intervento, e “quelli che vedono” affinché “diventino ciechi”.

Tutta la prima parte del capitolo 10, da 1 a 21 che suggerisco di leggere per avere una panoramica dell’intero discorso, è dedicata al tema del pastore contrapposto ad altre figure come il “ladro o un brigante”, “il guardiano”, “un estraneo”, “tutti quelli venuti prima di me”, “il mercenario”, “la porta delle pecore”, “le altre pecore che non provengono da questo recinto”, che andranno analizzate.

Gesù fa questo discorso ai farisei presenti, ma anche difronte ad altri testimoni, quelli che lo seguivano perché attratti dalle Sue parole e soprattutto dalla guarigione poco prima avvenuta del cieco nato. Dobbiamo pensare che quel giorno si verificarono quattro eventi straordinari e cioè prima il miracolo, poi l’inchiesta del Sinedrio che si concluse con la scomunica del guarito dalla Congregazione di Israele e la sua annessione al gruppo dei discepoli, che non lasciarono certo indifferenti coloro che seguivano la “cronaca cittadina”. Difficile pensare che, fra i testimoni di questi fatti, vi fossero dei pettegoli; piuttosto quanto avvenuto non solo quel giorno, ma anche prima – pensiamo al paralitico di Betesda – aveva costretto le persone a interrogarsi con domande importanti, pensiamo a “Come può un peccatore compiere segni di questo genere?”, ai “molti credettero in lui”, a quelli che dicevano “È buono” contrapposti a quelli che sostenevano “No, inganna la gente” o alla frase “Il Cristo, quando verrà, compirà forse segni più grandi di quelli che ha fatto costui?”.

Ecco chi furono le persone, oltre ai farisei, che ascoltarono le parole di questo capitolo che sono precedute da due “In verità”, cioè “Amen”.

Proviamo ad esaminare a questo punto il verso 1, “Chi non entra dal recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro o un brigante”. Il “recinto delle pecore” costituiva il perimetro dell’ovile, costruzione quadrangolare cintata da un muro costituito da pietre in cima al quale si piazzavano dei rami spinosi tanto per impedire alle pecore di uscire, quanto per evitare l’ingresso di animali predatori. In ciascuno dei lati del quadrato vi era una porta che, nel caso di grandi greggi, era veniva aperta o chiusa dall’assistente del pastore, presente anche di notte.

L’ovile è quindi il recinto delimitato con cura e i farisei presenti, con la loro cultura, avrebbero immediatamente dovuto porre mente alle parole di due profeti al riguardo, Geremia 50.6 “Gregge di pecore sperdute era il mio popolo, i loro pastori le avevano sviate, le avevano fatte smarrire per i monti; esse andavano di monte in colle, avevano dimenticato il loro ovile” ed Ezechiele 34.16 che profetizzava l’opera di Nostro Signore come Dio: “Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita, fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte; le pascerò con giustizia”. Qui è facile il raccordo alla parabola del “buon samaritano” che compie le medesime azioni nei confronti di un uomo caduto “nelle mani dei briganti”, figura presente anche qui assieme al “ladro”.

“Ladro e brigante” è una persona dedita professionalmente all’infrazione del comandamento “non ruberai”, ma anche “non ucciderai”. Ricordiamo alcuni passi per questa prima figura: “se un ladro viene sorpreso mentre sta facendo una breccia in un muro e viene colpito e muore, non vi è per lui vendetta di sangue. Ma se il sole si era già alzato su di lui, vi è per lui vendetta di sangue. Il ladro dovrà dare l’indennizzo: se non avrà di che pagare, sarà venduto in compenso dell’oggetto rubato” (Esodo 22.1,2); “Quando un uomo dà in custodia al suo prossimo denaro od oggetti e poi nella casa di costui viene commesso un furto, se si trova il ladro, quest’ultimo restituirà il doppio”; infine Deuteronomio 24.7 dove abbiamo il ladro nella sua massima forza negativa: “Quando si troverà un uomo che abbia rapito qualcuno dei suoi fratelli tra gli Israeliti, l’abbia sfruttato come schiavo o l’abbia venduto, quel ladro sarà messo a morte. Così estirperai il male in mezzo a te”.

Il “brigante”, invece, è per definizione una persona armata che assale la gente in aperta campagna, approfittando del fatto che, in una zona isolata, non è possibile alcuna difesa. Tanto il ladro che il brigante, come nella parabola citata, non hanno nessuna pietà ed esistono solo per la rovina altrui. Eppure, secondo l’opinione di Ben Sira, “Meglio un ladro che un mentitore abituale” (Siracide 20.25), tutte comunque figure riferite all’Avversario e ai suoi angeli, cioè tutti coloro che si rendono suoi strumenti.

“Chi vi sale da un’altra parte”, tornando al testo, lo fa perché spera di passare inosservato agli occhi del portinaio e certo non “entra per la porta”, la più sorvegliata. Certo il “ladro e brigante” non agisce di giorno, confidando nel fatto che proprio di notte sia più facile che il custode dell’ovile possa addormentarsi.

Il “portinaio”, quattro nei grandi recinti cioè uno per varco, è figura della rimozione di qualsiasi ostacolo alla dottrina della salvezza per grazia, totalmente chiusa a coloro che non riconoscono Gesù Cristo ed il fatto che i portinai fossero dislocati ai punti cardinali, questo è indice di custodia e inattaccabilità, inaccessibilità da parte di estranei. Si tratta quindi di un incarico di responsabilità, come per i pastori umani individuabili in Marco 13.32,37: “Quanto però a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo, né il Figlio, eccetto il Padre – perché è lui l’artefice della creazione e del recupero della Sua creatura dopo la caduta –. Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento. È come un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portinaio di vegliare. Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino, fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati. Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!”.

È fondamentale quindi che il compito di “portinaio” venga svolto con fedeltà e rigore perché si tratta di un ufficio conferito direttamente da Dio che ci rimanda ai Cherubini posti a salvaguardia della via di Eden quando leggiamo che “Il Signore Dio lo scacciò dal giardino di Eden perché lavorasse il suolo da cui era stato tratto. Scacciò l’uomo e pose a oriente del giardino di Eden i cherubini e la fiamma della spada guizzante, per custodire la via dell’albero della vita” (Genesi 3.23,24). Eden come territorio fisico perfetto, assoluto e spirituale contrassegnato dalla presenza di Dio esiste quindi ancora, ma in quanto tale è irraggiungibile dall’essere umano avendo la creatura perduto tutte le caratteristiche che aveva nel momento in cui fu formato. La “polvere della terra” col quale era stato plasmato era solo una sorta di “ingrediente base”, ma il suo essere divenuto “anima vivente”, perfetto a tal punto da vedere Dio senza subire la morte, è ormai da tempo un fatto remoto.

I Cherubini sono quindi la figura perfetta del portinaio: svolgono la loro opera incessante così come incessante dev’essere la veglia ricordata da Gesù e conosciamo bene la parabola delle dieci vergini e delle cinque di loro che si addormentarono dando prova di non avere onorato il compito loro affidato: dovevano organizzarsi in modo tale da non rimanere senza olio, oltre a non  addormentarsi.

Tornando al nostro testo, dopo queste prime tre figure, il ladro, il brigante e il portinaio, Nostro Signore dedica a lui il rimanente spazio: “il pastore delle pecore entra dalla porta”, è il padrone del gregge, tutte le sue azioni sono improntate alla chiarezza e alla logica della circostanza; “chiama le pecore per nome”, altro riferimento proprio a Mosè che doveva essere colto da coloro che si avevano detto “Noi siamo discepoli di Mosè”: “Mosè disse al Signore: «Vedi, tu mi ordini: «Fa’ salire questo popolo», ma non mi hai indicato chi manderai con me; eppure hai detto «Ti ho conosciuto per nome, anzi hai trovato grazia ai miei occhi»” (Esodo 33.12).

Chiamare “le pecore per nome”, a parte i riferimenti al gregge naturale perché così avviene in quel contesto, si riferisce alla conoscenza che ha il pastore dei suoi animali, della loro natura e fragilità più volte sottolineata in questi scritti, ma soprattutto ha a che fare con il nostro nome, “scritto nel libro della vita”: il credente è stato infatti chiamato da Gesù “per nome”, quello scritto “fin dalla fondazione del mondo” senza conoscerlo, ed ha risposto.

Il pastore conduce fuori al pascolo le sue pecore che, sentendo la sua voce, sanno di essere al sicuro. Viene chiamato così in causa l’udito spirituale, quello che è al tempo stesso naturale e richiede attenzione, quella necessaria per non fraintenderne il timbro: “Un estraneo non lo seguiranno”. Quindi “le chiama per nome, le conduce fuori” e “va davanti a loro”, azioni che attestano la reciprocità perché le pecore appartengono al pastore come lui al gregge e in quell’ andare “davanti a loro” è un chiaro riferimento a 1 Pietro 2.21 che recita “Cristo patì per noi, lasciandoci un esempio, perché ne seguiamo le orme”.

Poi abbiamo il non seguire “l’estraneo”, cioè chi non parla come lui, ha una voce diversa. Anche se costui le chiamasse, non gli darebbero retta. L’apostolo Paolo, scrivendo ai Galati, li esorta allo stesso udito spirituale e alla cautela di fronte a qualsiasi messaggio, soprattutto quello che simula una verità che è ben lungi da possedere: “Ma se anche noi stessi, oppure un angelo dai cielo vi annunciasse un vangelo diverso da quello che vi abbiamo annunciato, sia anàtema! L’abbiamo già detto e ora lo ripeto: se qualcuno vi annuncia un vangelo diverso da quello che avete ricevuto, sia anàtema!” (1.8,9). Paolo scrive queste parole perché i membri di quella comunità erano rimasti turbati, e alcuni di loro si erano convinti, a fronte della predicazione di alcuni giudei cristiani, che la salvezza richiedeva l’osservanza della Legge di Mosè. Possiamo capire quanto fosse preoccupato perché la Galazia comprendeva quelle città in cui aveva predicato e fondato delle Chiese, come Licaonia, Iconio, Listra, Derba e Antiochia di Pisidia.

Infine abbiamo il verso 6, “Gesù disse loro questa similitudine, ma essi non capirono di che cosa parlava loro”: questi “essi” sono chiaramente i Suoi avversari, che nonostante gli esempi contenuti nei profeti in Ezechiele 34 e Zaccaria 11, per non parlare dei passi in cui il Messia viene presentato come il pastore supremo, non capirono, ancora prigionieri del loro ragionamento che respingeva qualsiasi collegamento spirituale. Non avevano capacità di astrazione e di armonizzare i testi a loro disposizione che era impossibile non avessero studiato. Piuttosto si avveravano le parole di Zaccaria 11.9: “Non sarò più il vostro pastore. Chi vuole morire muoia, chi vuole perire persica, quelle che rimangono si divorino pure fra loro”.

La stessa cosa avviene anche oggi sia per gli eredi dei farisei che per tutti coloro che vorrebbero capire il Vangelo e il messaggio cristiano a patto che venga filtrato, più che dai loro gusti, dalle loro esigenze personali. Ma, se una persona “non è delle mie pecore”, non potranno mai venirne a capo. Amen.

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