12.33 – Il cieco nato VI (Giovanni 9.35-38)
35Gesù seppe che l’avevano cacciato fuori; quando lo trovò, gli disse: «Tu, credi nel Figlio dell’uomo?». 36Egli rispose: «E chi è, Signore, perché io creda in lui?». 37Gli disse Gesù: «Lo hai visto: è colui che parla con te». 38Ed egli disse: «Credo, Signore!». E si prostrò dinanzi a lui. 39Gesù allora disse: «È per un giudizio che io sono venuto in questo mondo, perché coloro che non vedono, vedano e quelli che vedono, diventino ciechi». 40Alcuni dei farisei che erano con lui udirono queste parole e gli dissero: «Siamo ciechi anche noi?». 41Gesù rispose loro: «Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: «Noi vediamo», il vostro peccato rimane».
Secondo un metodo ormai collaudato individuiamo i due verbi che caratterizzano la prima parte del verso 35, “seppe” e “trovò”, che indicano l’onniscienza di Gesù che non si limita all’acquisizione di un dato, ma a reagire positivamente nei confronti della creatura che lo cerca. Possiamo dire che l’uomo da Lui guarito fu provato attraverso tre passaggi: primo, il non opporre resistenza al suo operare quando gli applicò l’impasto di fango sugli occhi; secondo, recarsi alla piscina di Siloe e lavarsi, azione che solo la fede o un forte senso di disponibilità poteva produrre, e infine il terzo, quello più difficile, sostenere l’inchiesta–processo imbastito dal Sinedrio. La condotta dei cieco guarito fu sempre nitida, potremmo dire esemplare, senza lasciarsi influenzare dall’autorevolezza umana dei componenti di quell’organo inquirente e giudicante. Un vile o un codardo avrebbe sicuramente inventato qualcosa pur di non subire le conseguenze del venire “cacciato fuori” da quell’aula: la vita l’aveva infatti recuperata a prescindere, cos’altro avrebbe potuto succedergli? Ricordiamo ad esempio l’episodio in cui furono guariti dieci lebbrosi (Luca 17.11-19), quando solo uno tornò a ringraziare Nostro Signore che disse “Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove, dove sono?”.
A modo suo, il cieco nato aveva difeso tanto Gesù, attribuendo solo a Lui la guarigione, quanto la verità del miracolo: aveva solo detto il vero, abbiamo detto “senza aggiungere né togliere” incurante delle azioni ritorsive del Sinedrio. Possiamo dire che fece tutto ciò che poteva per rendere una testimonianza piena e fedele. Il “seppe” di Nostro Signore implica questo e non il venire a sapere dagli altri che era stato estromesso dalla Congregazione di Israele. Il “sapere” di Gesù va individuato nella frase detta a Mosè in Esodo 3.7, “Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze”.
Il “sapere” di Gesù implica il riconoscere chi gli appartiene fra i tanti come nella parabola delle dieci vergini quando cinque di loro, gridando alla porta chiusa “Signore, Signore, aprici!” si sentirono rispondere “In verità vi dico: non vi conosco” ed è impossibile non citare le lettere alle sette Chiese di Apocalisse, ciascuna delle quali inizia con “conosco”: “le tue opere, la tua fatica e la tua perseveranza” (Efeso), “la tua tribolazione, la tua povertà” (Smirne), “che abiti dove Satana ha il suo trono” (Pergamo), “le tue opere, la carità e la fede, il servizio e la costanza e so che le tue opere sono migliori delle prime” (Tiàtira), “le tue opere, ti si crede vivo, e sei morto” (Sardi), “le tue opere” (Filadelfia), “le tue opere, tu non se né freddo, né caldo” (Laodicea). Notiamo la conoscenza di Gesù non si limita ai fatti, ma soprattutto a ciò che è all’origine delle scelte delle Chiese, quindi le motivazioni più recondite.
Il “sapere di Gesù” quindi è lo stesso, come Lui, “di ieri, di oggi e di sempre” (Ebrei 13.8) attraverso i secoli e i millenni, “sa” e “trova” chiunque provvedendo a lui in salvezza o in giudizio: “Anche se penetrano negli inferi, di là li strapperà la mia mano; se salgono al cielo, di là li tirerò giù; se si nascondono in vetta al Carmelo, di là li scoverò e li prenderò; se si occultano al mio sguardo in fondo al mare, là comanderò al serpente di morderli; se vanno in schiavitù davanti ai loro nemici, là comanderò alla spada di ucciderli” (Amos 9.2-4) per non parlare del monito in Geremia 49.16: “Anche se come l’aquila ponessi in alto il tuo nido, di lassù ti farò precipitare”. Ecco l’ambivalenza del “trovare” di Dio, che nel nostro episodio è di luce, consolazione e libertà.
C’è un altro verbo che caratterizza il nostro passo ed è: “disse”. Gesù, quando parla a un uomo, lo onora sempre indipendentemente dal fatto che accolga o meno ciò che dice e la Sua parola, come in Isaia 55.10,11 non torna indietro a vuoto: “Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia seme al seminatore e pane da mangiare, così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata”. E qui, per l’episodio in esame, la Parola non tornò indietro né per il cieco, né per i farisei perché comunque diede un risultato positivo per uno e negativo per gli altri. E anche nel gruppo di ostili, aveva dato comunque un frutto perché sappiamo che “alcuni dei farisei credevano in lui”.
Inoltre, il “dire” di Gesù porta sempre una nuova realtà, una nuova visione e conoscenza: non ha mai parlato a un uomo senza stravolgerne l’esistenza in bene, quando Lo ha accolto. E qui lo scopo di Nostro Signore è quello di farsi conoscere come rileviamo dalla domanda posta: “Credi nel Figlio dell’uomo?” che il cieco guarito non sapeva chi fosse. Nostro Signore qui intervenne chiedendo una risposta che quell’uomo non sapeva dare ed è un espediente da Lui spesso utilizzato per portare la persona a verità sconosciute e altrimenti irraggiungibili senza il Suo aiuto, per noi oggi dello Spirito Santo. Va rilevato che “Figlio dell’uomo” compare in alcuni codici, mentre più usato è “Figlio di Dio”, quindi Gesù vuole qui rivelarsi nella Sua identità superiore e nel proprio ruolo di Signore e liberatore. Il cieco lo aveva pubblicamente riconosciuto come “Profeta”, ma non bastava, alla luce della conoscenza, perché altrimenti quel termine avrebbe implicato che dopo di lui dovesse arrivarne un altro. Chi gli stava davanti era prima il “Figlio di Dio”, poi il “Figlio dell’uomo”.
La risposta che Gesù ebbe conferma la semplicità, e al tempo stesso la serietà, dell’innominato che non si limita a chiedere chi fosse questo “Figlio di Dio”, ma precisa “…perché io creda in lui?”: era consapevole di non parlare con una persona qualunque, ma con chi lo aveva guarito, avendolo riconosciuto senza alcun dubbio dalla voce. Nel suo buio, prima Lo aveva sentito parlare e, nella luce della vista recuperata, poteva ora osservarne il volto, quello che purtroppo noi non abbiamo visto, ma che vedremo “come il sole quando splende con tutta la sua forza” (Apocalisse 1.13) non più soggetti al nostro corpo di carne sempre pronto a umiliarci.
“E chi è il Figlio di Dio, perché io creda in lui?” rivela che quell’uomo non aspettasse altro che capire chi fosse nei dettagli Colui che lo aveva guarito. “Il Figlio di Dio” era qualcosa di ben superiore al “Profeta” che sapeva lo aveva guarito e per questo vengono chieste delucidazioni per poter “credere in lui”. E sono convinto che qui il “credere” è usato con un significato che va ben oltre al ritenere reale una persona, ma per identificarsi in lei nelle modalità consentite ad una creatura inferiore al creatore. “Lo hai visto, è quello che parla con te”: basta poco per riconoscerlo. Gesù, come Via, Verità e Vita è sempre davanti all’essere umano, solo che non sa riconoscerlo. Siamo da lui circondati, eppure a volte non lo vediamo così come a volte reagiamo con la nostra umanità e non con lo Spirito che ci è stato dato.
Il cieco aveva recuperato la vista e in Gesù vedeva un uomo come lui, ma saputo chi fosse, “il Figlio di Dio”, prontamente rispose “Io credo, Signore” e subito Giovanni aggiunge “e l’adorò”, quindi una testimonianza a parole supportata dall’unico atto in quel momento possibile visto nell’adorazione, cioè nel prostrarsi a terra che il nostro evangelista utilizza sempre e solo per indicare l’adorare. E il nostro episodio si chiude così perché è questo il fine di ogni creatura. L’adorazione del cieco nato fu quindi al tempo stesso punto di arrivo per quanto riguardava la sua esistenza trascorsa, ma punto di partenza per la nuova: cacciato dal Sinedrio, quindi scomunicato, sono convinto che divenne un discepolo attivo di Gesù perché, avendo testimoniato di Lui, non avrebbe potuto avere la stessa forza che avrebbe avuto all’interno del gruppo dei discepoli cui desiderava unirsi (ricordiamo la frase “volete diventare anche voi suoi discepoli?”). L’ignoto cieco fu così guarito e riscattato completamente perché recuperò la vista e la dignità, vale a dire non avrebbe più mendicato, termine quest’ultimo riferito al dipendere da altri non solo per il proprio sostentamento materiale, ma anche moralmente, cercando quella solidarietà e comprensione che gli altri danno solo a parole o, nel migliore dei casi, a modo loro. Il nostro personaggio, quindi, ebbe una vita nuova nel corpo, nella mente e nello spirito.
Veniamo così al termine: Gesù, soprattutto a Gerusalemme, possiamo dire che era ormai diventato un vero e proprio sorvegliato speciale per cui era sempre controllato dai farisei, di persona o tramite loro spie. Ebbene qui pronuncia una frase particolare, “È per un giudizio che sono venuto in questo mondo”: è una frase che potrebbe essere ritenuta in contraddizione con un’altra secondo cui “Dio non ha mandato suo Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui” (Giovanni 3.17), oppure “Voi giudicate secondo la carne, io non giudico nessuno” (8.15): il “giudizio” di cui parla Gesù nel nostro passo, però, si riferisce a quell’automatismo che si genera nel momento in cui una persona si pone di fronte alla Sua parola, diventando un figlio di Dio oppure il suo esatto contrario. Ecco perché “coloro che non vedono”, cioè chi sa di non avere risposte e le cerca, “vedano”, “e coloro che vedono, diventino ciechi”, categoria alla quale appartengono tutti quei personaggi convinti di avere sempre la risposta pronta per ogni cosa, portatori della loro verità, in questo caso religiosa come i farisei e tutti gli oppositori della parola di Dio. Così, come non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire, non c’è peggior cieco di chi non vuol vedere.
Ed ecco, puntuale, l’intervento farisaico, “Siamo ciechi anche noi?”, cioè “Vorresti dire che noi, guide del popolo onorati da tutti, siamo ciechi?”. Sarà l’apostolo Paolo a descrivere, adattata ai tempi della Grazia ormai aperti, la posizione dei Giudei nella sua lettera ai Romani 2.17-24: “Ma se tu ti chiami Giudeo e ti riposi sicuro sulla Legge e metti il tuo vanto in Dio, ne conosci la volontà e, istruito dalla Legge, sai discernere ciò che è meglio, e sei convinto di essere guida dei ciechi, luce di coloro che sono nelle tenebre, educatore degli ignoranti, maestro dei semplici, perché nella Legge possiedi l’espressione della conoscenza e della verità… ebbene, come mai tu, che insegni agli altri, non insegni a te stesso? Tu che predichi di non rubare, rubi? Tu che dici di non commettere adulterio, commetti adulterio? Tu che detesti gli idoli, ne derubi i templi? Tu che ti vanti della Legge, offendi Dio trasgredendo la Legge! Infatti sta scritto: Il nome di Dio è bestemmiato per causa vostra tra le genti”.
Ancora una volta la risposta di Gesù non fu un “sì” o un “no”, ma si fece strumento di considerazione e meditazione: “Se foste ciechi, non aveste alcun peccato” perché non fareste alcun danno. Come il cieco nato ora guarito, sareste prudenti e, spiritualmente parlando, disposti a rivedere le vostre posizioni per venire alla luce. “Ma siccome dite: «Noi vediamo», il vostro peccato rimane”: impossibile infatti cercare la verità se si è già convinti di possederla. Ci si rende assolutamente impermeabili ad essa anche solo essendo convinti che mai la si potrà raggiungere, perché in questo caso non resta che fare dell’ignoranza il proprio credo ed essere ciechi non significa necessariamente vivere nel buio, ma anche usare una luce alternativa a quella della Parola di Dio, per vedere e muoversi nell’oscurità ritenendo che la luce soggettiva sia quella vera. Come fanno in molti anche oggi.
Infine le parole di Gesù sul peccato che “rimane”, cioè non può venire tolto, verranno da Lui ripetute, con diversa estensione, in Giovanni 15.22-25: “Se io non fossi venuto e non avessi parlato loro, non avrebbero alcun peccato, ma ora non hanno scusa per il loro peccato. Chi odia me, odia anche il Padre mio. Se non avessi compiuto in mezzo a loro opere che nessun altro ha compiuto, non avrebbero alcun peccato; ora invece hanno visto e hanno odiato me e il Padre mio. Ma questo perché si compisse la parola che sta scritta nella loro Legge: Mi hanno odiato senza ragione”. Amen.
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