12.26 – IL RITORNO DEI SETTANTADUE (Luca 10.17-20)

12.26 – Il ritorno dei settantadue (Luca 10.17-20)

             

17I settantadue tornarono pieni di gioia, dicendo: «Signore, anche i demòni si sottomettono a noi nel tuo nome». 18Egli disse loro: «Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore. 19Ecco, io vi ho dato il potere di camminare sopra serpenti e scorpioni e sopra tutta la potenza del nemico: nulla potrà danneggiarvi. 20Non rallegratevi però perché i demòni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli».

 

Ci troviamo di fronte a un episodio impegnativo sia a livello di riflessioni quanto di collocazione temporale. Luca, che ci illustra ciò che avvenne da quando Gesù uscì da Gerusalemme, scrive che “I settantadue tornarono” senza specificare dove e quando. Ora, essendo stati mandati in missione all’atto della Sua partenza dalla Galilea per Gerusalemme, possiamo supporre che fu da loro raggiunto in quella città, ma gli evangelisti non hanno ritenuto opportuno specificare il momento in cui ciò avvenne anche perché non tornarono tutti insieme. Leggendo Giovanni, poiché pare esservi un breve vuoto narrativo tra l’uscita di Gesù dal Tempio e l’incontro con l’uomo cieco dalla nascita – in cui tra l’altro viene posta in risalto la presenza dei discepoli (Giovanni 9.1,2) – , ecco la scelta di inserire qui l’incontro con loro precisando che si tratta di una mia opinione personale che non vuole sminuire quanto ipotizzato da altri nel loro trattare l’argomento.

Il verso 17 contiene diversi momenti degni di sottolineatura, il primo dei quali è “tornarono” che ci parla di fedeltà alle istruzioni ricevute, tra le quali il luogo dell’appuntamento, ma anche del fatto che quei discepoli dimostrarono di non avere alternative a Gesù e il loro ritorno ci rivela che al di fuori del vivere attorno al loro Maestro non avrebbero saputo cosa fare, soprattutto una volta constatati gli effetti del mandato e la differenza col vivere nel mondo. Ricordiamo in proposito quando Pietro disse “Signore, a chi ce ne andremmo noi? Tu solo hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio” (Giovanni 6.68,69).

Tornare. In senso generale, tutti noi lo facciamo: a volte è un’abitudine, a volte è una scelta ma comunque, quando lo si fa, è perché il luogo o la/le persone che raggiungiamo costituiscono per noi un centro più o meno importante. In questo caso però la pericope “Tornarono pieni di gioia” esclude la routine, il semplice acquisito, qualcosa che si fa perché non si hanno alternative e allora ci si adegua allo status quo. E qui la “gioia” dei discepoli, che arrivarono da Gesù poco per volta stante i diversi luoghi da loro raggiunti, era diversa da quella che avrebbe potuto procurarne una umana. La loro “gioia” fu quella di chi constata l’adempimento delle promesse di Dio e di avere adempiuto correttamente le istruzioni ricevute; ricordiamole: “La messe è abbondante, ma pochi sono gli operai! Pregate dunque il signore della messe perché mandi operai nella sua messe! Andate, ecco, vi mando come agnelli in mezzo ai lupi; non portate borsa, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada. In qualunque casa entriate, prima dite: «Pace a questa casa!». Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà a voi. Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché chi lavora ha diritto alla sua ricompensa. Non passate da una casa all’altra. Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà offerto, guarite i malati che vi si trovano e dite loro: «È vicino a voi il regno di Dio». Ma quando entrerete in una città e non vi accoglieranno, uscite sulle sue piazze e dite: «Anche la polvere della vostra città, che si è attaccata ai nostri piedi, noi la scuotiamo contro di voi; sappiate che il regno di Dio è vicino»” (Luca 10.2-11).

Ora è facile supporre che i settantadue si fossero attenuti scrupolosamente a tutto quanto ordinato, compreso il “pregate”, il non distrarsi per nessun motivo raffigurato nel non salutare “nessuno lungo la strada”; la conseguenza di questo loro comportamento andò al di là della guarigione dalle malattie perché “Anche i demòni si sottomettono nel tuo nome”. Quei discepoli erano consci che da soli non avrebbero mai potuto compiere nulla di quanto era stato ordinato loro. Era dunque la “gioia” del riscontro e della liberazione, dell’elevarsi, del servire con successo perché si erano attenuti alle disposizioni del Maestro senza esitazioni o titubanze ed erano stati premiati con un risultato che andava al di là delle loro aspettative, come rileviamo dall’ “anche” del verso in esame. Se raccordiamo questo successo con l’episodio in cui i dodici non erano riusciti a guarire un indemoniato (Luca 9.40), possiamo capire perché questi discepoli fossero nello stato che ci viene descritto.

La risposta di Gesù si articola su tre punti, il primo dei quali è un’altra dichiarazione della Sua presenza nell’eternità, “Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore”, con la quale dà una visione tanto dell’immediatezza del giudizio su questo personaggio, quanto della fine cui è destinato. Leggendo Isaia 14.12-15, infatti, abbiamo la stessa panoramica: “Come sei caduto dal cielo – tua residenza di un tempo –, astro del mattino, figlio dell’aurora? – la dignità che aveva – Come sei stato gettato a terra, signore di popoli? Eppure tu pensavi nel tuo cuore: «Salirò in cielo, sopra le stelle di Dio innalzerò il mio trono, dimorerò sul monte dell’assemblea, nella vera dimora divina. Salirò sulle regioni superiori delle nubi, mi farò uguale all’Altissimo» – ricordiamo le parole “sarete come Dio” dette ad Eva . E invece sei stato precipitato negli inferi – cioè nelle assolute regioni inferiori –, nelle profondità dell’abisso! Quanti ti vedono ti guardano fisso, ti osservano attentamente: «È questo l’individuo che sconvolgeva la terra, che faceva tremare i regni, che riduceva il mondo a un deserto, che ne distruggeva le città – con una morale perversa –  che non apriva le porte del carcere ai suoi prigionieri?» – perché se non interviene il Cristo a liberare è impossibile che Satana rinunci a tenere l’uomo per sé – Tutti i re dei popoli, tutti riposano con onore, ognuno nella sua tomba. Tu, invece, sei stato gettato fuori dal sepolcro, come un virgulto spregevole; sei circondato da uccisi trafitti da spada – l’onta della sconfitta –, deposti sulle pietre della fossa, come una carogna calpestata – cioè contaminata, immonda, e contaminante –. Tu non sarai unito a loro nella sepoltura, perché hai rovinato la tua terra, hai assassinato il tuo popolo”.

Le parole di Gesù si raccordano anche a Ezechiele 12-19 di cui riporto la parte dal 17: “Il tuo cuore si era inorgoglito per la tua bellezza, la tua saggezza si era corrotta a causa del tuo splendore: ti ho gettato a terra e ti ho posto davanti ai re, perché ti vedano. Con la gravità dei tuoi delitti, con la disonestà del tuo commercio hai profanato i tuoi santuari; perciò in mezzo a te ho fatto sprigionare un fuoco per divorarti. Ti ho ridotto in cenere sulla terra, sotto gli occhi di quanti ti guardano. Quanti fra i popoli ti hanno conosciuto, sono rimasti attoniti per te, sei divenuto oggetto di terrore, finito per sempre”.

La valenza della parole di Gesù, come tutte del resto, è anche in questo caso enorme perché ci parla al tempo stesso della rapidità del giudizio sull’Avversario che cadde dall’alto dei cieli intesi come dimora di Dio ed elevazione spirituale infinita non tanto sulla terra quanto a pianeta, ma nei suoi abissi, nell’inferiorità assoluta come abbiamo visto nella scorsa riflessione. Scrive l’apostolo Pietro nella sua seconda lettera: “Dio infatti non risparmiò gli angeli che avevano peccato, ma li precipitò in abissi tenebrosi, tenendoli prigionieri per il giudizio. Ugualmente non risparmiò il mondo antico, ma con altre sette persone salvò Noè, messaggero di giustizia, inondando con il diluvio un mondo di malvagi. Così pure condannò alla distruzione le città di Sodoma e Gomorra, riducendole in cenere, lasciando un segno ammonitore a quelli che sarebbero vissuti senza Dio. Liberò invece Lot, uomo giusto, che era angustiato per la condotta immorale di uomini senza legge. Quel giusto infatti, per quello che vedeva e udiva mentre abitava in mezzo a loro, giorno dopo giorno si tormentava a motivo delle opere malvagie. Il Signore dunque sa liberare dalla prova chi gli è devoto, mentre riserva, per il castigo nel giorno del giudizio, gli iniqui, soprattutto coloro che vanno dietro alla carne con empie passioni e disprezzano il Signore” (4-10).

E sono convinto che nel “giusto Lot” ci possiamo identificare anche noi, testimoni del degrado morale e dell’indottrinamento satanico di questi ultimi tempi che viviamo.

La citazione di questi versi avrebbe potuto limitarsi al quarto, ma riportarli tutti può aiutare nel considerare come l’Avversario e i suoi angeli costituiscono un tutt’uno con l’uomo che li segue esattamente come chi crede è un tutt’uno con Colui che li ha salvati. Infatti: “…ma costoro – gli iniqui –, irragionevoli e istintivi, nati per essere presi e uccisi, bestemmiando quello che ignorano, andranno in perdizione per la loro condotta immorale, subendo il castigo della loro iniquità. (…) Costoro sono come sorgenti senz’acqua e come nuvole agitate dalla tempesta, e a loro è riservata l’oscurità delle tenebre. Con discorsi arroganti e vuoti e mediante sfrenate passioni carnali adescano quelli che da poco si sono allontanati da chi vive nell’errore. Promettono loro libertà, mentre sono essi stessi schiavi della corruzione. L’uomo infatti è schiavo di ciò che lo domina” (vv. 12,13; 17-19).

Oltre a tutti questi versi dei profeti e di Pietro, non possiamo non citare l’atto finale: Satana è stato privato di tutta la sua regalità e dignità, ma se ne è costruita una propria come del resto fa qualunque persona lontana da Dio, ignorando in realtà di rendersi schiavo di chi non lo libererà mai, come abbiamo letto. Satana, “che seduce tutta la terra abitata, fu precipitato sulla terra e con lui anche i suoi angeli” (Apocalisse 12.9), ma soprattutto sarà gettato “nello stagno di fuoco” assieme alla morte, agli inferi” e a chi non risulterà “scritto nel libro della vita” (20.14,15). E sono convinto che anche qui, cadrà “come una folgore”.

Ora, tornando al nostro episodio, Gesù ricorda a tutti coloro che gli appartengono che, ascoltando e servendo Colui che ha visto “Satana cadere dal cielo come una folgore”, non hanno nulla di cui temere: sono dalla parte di chi è più potente di lui e infatti disse “Nulla potrà danneggiarvi”, certo “se rimanete fedeli alla mia parola” e non, come sostengono alcuni, a prescindere. Ricordiamo Giovanni 8.38,39: “Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi”.

Nostro Signore conclude poi il suo intervento esortando i discepoli a vedere il successo della loro missione non come qualcosa di personale o di umano: certo avevano guarito da malattie e possessioni, ma solo in quanto conseguenza della loro fede e, paradossalmente, i loro risultati andavano ridimensionati, ricondotti all’origine del loro essere figli di Dio. I miracoli, infatti, sono la conseguenza dell’essere vicini a Dio, ma possono anche essere prodotti dall’Avversario per “sedurre se possibile anche gli eletti”. Era quindi importante considerare l’origine, la causa e non l’effetto: “rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli”, la vera gioia assoluta. I – presumo tanti – miracoli operati avevano contribuito allo sviluppo del Vangelo da loro annunciato e non era certo poca cosa, ma il motivo della gioia doveva risiedere nel fatto che i nomi di quei discepoli erano scritti nel libro della vita a prescindere dalle loro opere. Se Gesù  non avesse specificato questo, avrebbe lasciato i futuri credenti nella convinzione che solo chi fa miracoli e gira il mondo a predicare sia degno di Lui. La “gioia” che i settantadue provavano, se non correttamente indirizzata, avrebbe potuto col tempo inorgoglirli: i miracoli compiuti, tangibili, incontestabili, saranno infatti usati con parsimonia dagli stessi apostoli nei libro degli Atti e, come tutti quelli dei Vangeli operati da Gesù, rimarranno nella Chiesa a memoria e si diraderanno una volta acquisito il concetto che il vero miracolo è appunto quello del nome scritto nel registro di Dio.

“Molti, ve l’ho già detto più volte e ora con le lacrime agli occhi ve lo ripeto, si comportano da nemici della croce di Cristo. La loro sorte finale sarà la perdizione, il ventre è il loro dio. Si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi e non pensano che alle cose della terra. La nostra cittadinanza infatti è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che egli ha di sottomettere a sé tutte le cose” (Filippesi 3.18-20).

Ecco il vero motivo della gioia, la radice: il nostro nome scritto, il nostro corpo di morte che è stato riscattato in vista della resurrezione e dell’ultima chiamata ad unirci a Lui, ora e quando ritornerà per rapire la Sua Chiesa o in giudizio. Amen.

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