12.16 – MORIRE NEL PROPRIO PECCATO (Giovanni 8. 21-30)

12.16 – Morire nel proprio peccato (Giovanni 8.21-30)

 

21Di nuovo disse loro: «Io vado e voi mi cercherete, ma morirete nel vostro peccato. Dove vado io, voi non potete venire». 22Dicevano allora i Giudei: «Vuole forse uccidersi, dal momento che dice: «Dove vado io, voi non potete venire»?». 23E diceva loro: «Voi siete di quaggiù, io sono di lassù; voi siete di questo mondo, io non sono di questo mondo. 24Vi ho detto che morirete nei vostri peccati; se infatti non credete che Io Sono, morirete nei vostri peccati». 25Gli dissero allora: «Tu, chi sei?». Gesù disse loro: «Proprio ciò che io vi dico. 26Molte cose ho da dire di voi, e da giudicare; ma colui che mi ha mandato è veritiero, e le cose che ho udito da lui, le dico al mondo». 27Non capirono che egli parlava loro del Padre. 28Disse allora Gesù: «Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora conoscerete che Io Sono e che non faccio nulla da me stesso, ma parlo come il Padre mi ha insegnato. 29Colui che mi ha mandato è con me: non mi ha lasciato solo, perché faccio sempre le cose che gli sono gradite». 30A queste sue parole, molti credettero in lui.

 

Ci troviamo di fronte al proseguimento del discorso iniziato a seguito dell’accusa mossa a Gesù dai farisei secondo cui dava testimonianza “di se stesso”, e abbiamo letto che Giovanni specifica al verso 30 “A queste sue parole, molti credettero in lui”, dando prova che “molti”avevano compreso l’urgenza di salvarsi a fronte di un tempo breve ancora loro concesso. A questa scelta, quei “molti”, erano giunti dopo aver compreso che Gesù non dava affatto testimonianza da solo e che non vi era nulla che impedisse loro di credere: bastava l’obiettiva constatazione che mai nessuno aveva parlato come Lui, dando prova di presentare verità come mai prima sentite, che ogni cosa detta trovava riscontro nel Suo modo di vivere ed agire nei confronti dell’uomo perché questi potesse essere spiritualmente guarito, sollevato; in poche parole, avesse un Pastore. La frase del verso 21 può essere considerata da un punto di vista storico, cioè rivolta ai farisei e a tutti coloro che ne condividevano la posizione (i “Giudei”, quindi tutto l’insieme delle autorità religiose), ma anche come qualcosa di lapidario, valida in ogni tempo fino al Suo ritorno. Ognuno di noi, infatti, ha un tempo di vita stabilito, con un termine che non conosce.

“Io vado”è chiaramente riferito alla Sua morte e resurrezione tornando così al Padre, ma è quel “e voi mi cercherete”che ha suscitato in me domande importanti perché mi sono chiesto come fosse possibile, una volta avuta soddisfazione con l’averlo soppresso, che venisse da loro cercato avendone in cambio la morte “nel loro peccato”. È indubbio che vi sia sproporzione fra l’annuncio della Sua dipartita, risolta in due parole a differenza di quando aveva parlato ai discepoli, e quelle impiegate a descrivere il destino dei Giudei, “voi mi cercherete, ma morirete nel vostro peccato”, quindi un riferimento alla sorte che loro stessi avevano scelto. La ricerca cui fa riferimento Nostro Signore non allude a quella dettata dalla fede e dal pentimento, ma quella spinta dalla sola disperazione (come fu per Giuda quando capì che non avrebbe potuto tornare indietro), quando è imminente la rovina personale o collettiva. È facile trovare, storicamente parlando, il senso di queste parole in almeno due avvenimenti che si sarebbero verificati da lì a poco tempo.

Citando un passo della profezia delle settanta settimane di Daniele 9, vediamo la morte di Gesù, “un consacrato sarà soppresso senza colpa in lui”, e la rovina di Gerusalemme nel 70 d.C., “il popolo di un principe che verrà distruggerà la città e il santuario”(v.24), avvenimento terribile che durò dal 66 al 73, anno in cui avvenne la distruzione di Masada, caratterizzata dal suicidio di massa degli Zeloti coi propri figli e mogli. Giuseppe Flavio racconta che il numero complessivo di prigionieri catturati nell’intera guerra fu di 97mila e i morti pari a oltre un milione (1.100.000), numero superiore a qualsiasi altro sterminio prima di allora. L’assedio di Gerusalemme, piena di pellegrini là giunti per la festa degli Azzimi, fece un numero enorme di vittime a causa prima della peste e poi della fame conseguenti all’assedio. Il Tempio, orgoglio e simbolo della religione ebraica, fu distrutto, come da profezia di Gesù “Verranno giorni in cui, di tutto quello che ammirate, non sarà lasciata pietra su pietra che non sia distrutta”(Luca 21.6) che su di lei pianse.

Altro avvenimento certamente angoscioso si verificò una quarantina di anni prima, proprio con la morte del corpo di Gesù, quando “il velo del tempio si squarciò in due da cima a fondo, la terra si scosse, le rocce si spezzarono, i sepolcri si aprirono e molti corpi di santi morti risuscitarono”(Matteo 27.51,52); Matteo e Luca parlano di un’eclissi di sole che provocò “buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio”e che “Anche tutte le folle che erano accorse a questo spettacolo, ripensando a quanto era accaduto, se ne tornarono percuotendosi il petto”(21.44; v.49), gesto che solitamente alludeva al pentimento, ma qui credo esclusivamente formale, frutto del solo spavento di fronte a quanto accaduto perché altrimenti, alla prima riunione della futura Chiesa di Gerusalemme, non vi sarebbero certo state solo 120 persone.

Ecco allora che, a fronte di avvenimenti sui quali l’essere umano non può avere nessun controllo, c’è un “cercare” che è solo animato dal desiderio impossibile di vederli risolti e quindi, sotto questo aspetto che caratterizza sempre l’uomo radicato nella propria carne, non solo c’è un “non trovare”, ma soprattutto la morte “nel proprio peccato”come sola conseguenza di una vita vissuta nel costante di Lui rifiuto.

Ora vorrei citare un passo di Apocalisse, riferito ai tempi dei giudizi di Dio sull’umanità dopo il rapimento della Chiesa: “Il resto degli uomini che non furono uccisi da questi flagelli, non si ravvidero dalle opere delle loro mani; non cessarono di adorare i demòni e gli idoli d’oro, d’argento, di bronzo, di pietra e di legno che non possono né vedere, né udire, né camminare. Non si ravvidero neppure dai loro omicidi, né dalle loro magie, né dalla loro fornicazione, né dai loro furti”(9.21). La stessa cosa, per quanto in piccolo ma che comunque rappresenta un indicatore molto significativo della condizione dei nostri tempi, la si è constata in occasione della pandemia originata dal Covid-19 in cui tutto si è fatto tranne che meditare costruttivamente non solo sulla fragilità della vita umana, ma sul significato ultimo di quanto accaduto e tutti, non appena questo si è ridotto, hanno ripreso a vivere come se niente fosse, salvo poi tornare a spaventarsi alla sua ripresa. Ogni essere umano infatti è costantemente chiamato a riflettere sulla precarietà della propria vita non considerando il tema a livello filosofico, ma per rimediare ad una condizione che altrimenti non può che giungere alla fine del tutto. Siamo in pratica, nel caso di specie, testimoni di un avvenimento che è solo paragonabile in modo infinitamente pallido a quanto è davvero imminente a giudicare dal livello di moralità che abbiamo raggiunto e dall’impegno posto nella distruzione del pianeta e nell’omologazione della moralità comune.

“Non mi troverete, ma morirete nel vostro peccato”nel senso che ogni uomo o donna, se non avrà creduto affidandosi fattivamente al Figlio di Dio, non potrà che morire portandosi dietro il peso, appunto, della propria condizione senza possibilità di presentare appello e dovrà adeguarsi alla sentenza che verrà pronunciata quando sarà costretto, suo malgrado, a presentarsi in giudizio dove Satana, come accusatore, avrà successo perché verrà a mancare proprio Gesù come Avvocato: “Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate; ma se qualcuno ha peccato, abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo giusto. Egli è vittima d’espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo. Da questo sappiamo di averlo conosciuto: se osserviamo i suoi comandamenti. Chi dice: «Lo conosco» e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo e verità non è in lui; ma chi osserva la sua parola, in lui l’amore di Dio è veramente perfetto”(1 Giovanni 2.1-5).

“Morire nel proprio peccato”si verifica quando si persiste nella condizione di morte rifiutando la vita, cosa che nessuno farebbe per il proprio corpo, ma che molti mettono in pratica per la loro anima.

Proseguendo nel testo, abbiamo ancora una prova ulteriore della cecità dei Giudei perché, se prima avevano ipotizzato che Gesù se ne andasse a predicare agli ebrei della dispersione in territorio pagano, qui pensano che stia per suicidarsi, gesto che presso quel popolo era messo allo stesso livello dell’omicidio: qui non trovano risposta, ma una frase che testimonia il profondo baratro che intercorreva tra loro, cioè“Voi siete di quaggiù, io sono di lassù; voi siete di questo mondo, io non sono di questo mondo”. Ecco, qui l’essere“di questo mondo”trova le tenebre come luogo di dimora stabile e rifiuto della luce. “Io sono la luce del mondo”.

“Se non credete che io sono, morirete nei vostri peccati”amplia poi quanto scritto poco prima: occorre credere in Gesù come “Io sono”, quindi come Dio nella sua sostanza di Figlio, Parola fatta carne; viceversa la morte dell’anima sarà l’unica, inutile coperta con la quale “proteggersi” da un freddo irrimediabile visto (anche) nel “pianto e stridore di denti”. Come ha scritto un fratello, “Mediante le parole “Io Sono”, egli si fa conoscere come la sorgente della vita, della luce e della forza, si presenta come la invisibile Maestà di Dio e come ad unire nella sua persona, in virtù dell’essere suo essenziale, il visibile e l’invisibile, il finito e l’infinito”.

 

La domanda “Tu chi sei?”contiene tutto il disprezzo dei Giudei, perché sapevano che era discendente da Davide, ma qui credo che il riferimento sia alle sue umili condizioni di figlio del carpentiere che vogliono contrapporre a quell’ “Io sono”appena pronunciato: Gesù, secondo loro, non meritava di essere ascoltato anche per questo e persistono in questa tesi non capendo “che egli parlava del Padre”(v.21). La frase successiva, “Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora saprete che Io Sono e non faccio nulla da me stesso, ma come mi ha insegnato il Padre, così io parlo. Colui che mi ha mandato è con me e non mi ha lasciato solo, perché io faccio sempre le cose che gli sono gradite”(vv.28,29) generò però una spaccatura in quel gruppo perché “a queste parole, molti credettero in lui”e sappiamo che proprio subito dopo inizierà un altro discorso diretto “a quei Giudei che avevano creduto in lui”(v.31). Si tratta di un riferimento sia alla Sua morte sulla croce, ma ancor di più alla conseguente resurrezione perché in un altro passo dirà “Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me”(12.32) dove quel “tutti”non è indistinto, ma riguarda tutte le Sue pecore che da lì in poi avrebbero creduto.

Infine, quel “saprete che Io Sono”ha riferimento con l’unicità nella resurrezione come insegnò l’apostolo Paolo in Romani 1.1-4: “…per annunziare il Vangelo di Dio che egli aveva promesso riguardo al Figlio suo, nato dalla stirpe di Davide secondo la carne. Costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la resurrezione dai morti, Gesù Cristo, nostro signore”. Sapere che Lui è l’ “Io Sono”costituisce la prima, profonda esperienza di ogni cristiano non di nome, ma di fatto. Sapere che Lui è, inoltre, fu anche dimostrato dagli avvenimenti che si verificarono alla Sua morte di cui abbiamo parlato nel precedente capitolo soprattutto da individuare nello strappo della cortina, che sancì la fine della dispensazione della Legge come condicio sine qua non per il perdóno, per la giustificazione temporanea perché, una volta rimesso, il peccato si presentava puntualmente alla porta con tutta la sua forza distruttiva.

Infatti: “Ora, noi sappiamo che tutto ciò che dice la legge lo dice per quelli che sono sotto la legge, perché sia chiusa ogni bocca e tutto il mondo sia riconosciuto colpevole di fronte a Dio. Infatti in virtù delle opere della legge nessun uomo sarà giustificato davanti a lui, perché per mezzo della legge si ha solo la conoscenza del peccato. Ora invece, indipendentemente dalla legge, si è manifestata la giustizia di Dio, testimoniata dalla legge e dai profeti; giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono. E non c’è distinzione: tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù”(Romani 3.19-24).

Mi viene in mente la diversa disposizione delle due Bibbie, quella Ebraica e quella Cristiana: la prima ha al centro la Legge, quindi i Profeti (anteriori con Giosuè, Giudici, Samuele 1 e 2 e Re 1 e 2, e posteriori con Isaia e tutti gli altri compresi Esdra, Neemia e 1 e 2 Cronache) e gli Scritti (i libri sapienzali), ma la seconda, quella cristiana parte dalla Legge e conduce progressivamente a Cristo mettendo appositamente i profeti per ultimi intendendo la Scrittura non come qualcosa di circolare, dove tutto ruota attorno alla Torah, ma lineare in direzione del Cristo. Credo che, tra i tanti argomenti portati da Gesù qui nel Tempio, vi sia stato anche questo. Amen.

* * * * *

12.15 – CONFUTAZIONI AI FARISEI (Giovanni 8.13-20)

12.15 – Confutazioni ai farisei (Giovanni 8.13-20) 

13Gli dissero allora i farisei: «Tu dai testimonianza di te stesso; la tua testimonianza non è vera». 14Gesù rispose loro: «Anche se io do testimonianza di me stesso, la mia testimonianza è vera, perché so da dove sono venuto e dove vado. Voi invece non sapete da dove vengo o dove vado. 15Voi giudicate secondo la carne; io non giudico nessuno. 16E anche se io giudico, il mio giudizio è vero, perché non sono solo, ma io e il Padre che mi ha mandato. 17E nella vostra Legge sta scritto che la testimonianza di due persone è vera. 18Sono io che do testimonianza di me stesso, e anche il Padre, che mi ha mandato, dà testimonianza di me». 19Gli dissero allora: «Dov’è tuo padre?». Rispose Gesù: «Voi non conoscete né me né il Padre mio; se conosceste me, conoscereste anche il Padre mio». 20Gesù pronunciò queste parole nel luogo del tesoro, mentre insegnava nel tempio. E nessuno lo arrestò, perché non era ancora venuta la sua ora.

In questi versi sono narrate le reazioni dei farisei di fronte alla dichiarazione di Gesù come “luce del mondo”. La frase con cui esordiscono, precedute da “allora”, cioè “a quel punto”, “in conseguenza”, costituisce un’accusa di non credibilità: la Sua testimonianza, non essendo supportata secondo loro da alcuna prova attendibile, non poteva essere accettata. Ricordiamo che già in un’altra occasione, quella della guarigione del paralitico di Betesda, Gesù aveva risposto dicendo “Se fossi io a render testimonianza a me stesso, la mia testimonianza non sarebbe vera; ma c’è un altro che mi rende testimonianza, e so che la testimonianza che egli mi rende è verace”(Giovanni 5.31,32). Subito dopo aggiunse “Io non ricevo testimonianza da un uomo, ma vi dico queste cose perché possiate salvarvi”a significare che ciò che Lo supportava era quanto faceva e diceva. Tutto ciò aveva già posto molti, che in Lui avevano creduto, di salvarsi e sperimentare personalmente e nella maniera più inconfutabile chi fosse. Ancora una volta i farisei, qui come in questo episodio, non lo accusano di bestemmia e falso, ma rilevano che, in mancanza di“due o tre testimoni”, mancavano le prove necessarie per stabilire chi effettivamente Gesù fosse.

La frase con cui Nostro Signore risponde, però, va oltre: se nel passo appena citato aveva chiamato in causa il Padre che rendeva vera la Sua testimonianza perché Lui stesso, tramite i profeti, Lo aveva annunciato, qui, dicendo “Anche se io do testimonianza di me stesso”, parla della Sua funzione di “luce del mondo” specificando di sapere “da dove son venuto e dove vado”a differenza dei suoi oppositori: Gesù parlava di cose che solo Lui sapeva e che gli uomini, per la loro ignoranza, non potevano confermare né negare. In pratica viene chiamato in causa quel ragionamento libero, esente da preconcetti, che aveva costretto le guardie venute ad arrestarlo ad affermare pubblicamente “Mai un uomo ha parlato così”: “Mai”, cioè fra tutte le persone che avevano ascoltato in ambito religioso e di scienza delle Scritture, le Sue parole avevano risvegliato la loro coscienza. Anche il centurione che aveva sovrinteso all’esecuzione della croce fu costretto ad ammettere “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio”(Marco 15.39). Ricordiamo poi la testimonianza data dal Padre stesso al battesimo di Gesù, “Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento”(Matteo 3.17), e alla trasfigurazione a cui viene aggiunto “ascoltatelo”(17.5).

La prima testimonianza, quindi, non fu di Gesù, accusato di darla isolatamente, ma del Padre. Infine, a proposito del riconoscerLo, possiamo pensare alle parole del cieco guarito di fronte a quelle dei farisei: “«Noi sappiamo che a Mosè ha parlato Dio, ma costui non sappiamo di dove sia». Rispose loro quell’uomo: «Proprio questo stupisce: che voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi»”(Giovanni 9.29,30). Poco dopo, siccome quel cieco aveva una visione spirituale ancora imperfetta, fu guarito anche da quella: “Tu credi nel figlio dell’uomo?». Egli rispose: «E chi è, Signore, perché io creda in lui?». Gli disse Gesù: «Lo hai visto: è colui che parla con te». Ed egli disse: «Credo, Signore!». E si prostrò davanti a lui”. (9.35-38).

Ecco allora che possiamo fare una considerazione evidente: per riconoscere Gesù quale Figlio di Dio, o “Figlio dell’uomo”secondo le profezie di Daniele, per il suo essere la “Parola fatta carne”, non è necessaria una cultura particolare, ma arrendersi all’evidenza, all’ascolto del Padre che chiama perché “Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno”(6.44). Perché ciò accada, è necessaria una sensibilità che o si ha per natura, come fu per Natanaele o altri personaggi definiti “giusti”, o emerge a un certo punto della vita, come avvenuto per il ladro sulla croce che, a differenza dell’altro, non insultava Gesù, ma gli disse “Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno”(Luca 23.42). E a proposito in cui un’anima capitola di fronte all’invito del Padre ricordo un mafioso importante, di cui non rammento il nome perché sono passati molti anni, che bussò una notte a una caserma di Carabinieri con una Bibbia in mano, disse nome e cognome al piantone allibito aggiungendo che, alla luce di quanto aveva letto, non riusciva più a sopportare il peso di ciò che aveva fatto ed era giusto che si costituisse.

È scritto “Oggi, se udite la sua voce, non indurite i vostri cuori”, “Oggi”perché la voce di Dio si fa sentire e, se la si ascolta davvero, genera una profonda crisi che può spaventare in quanto, nel momento in cui ciò avviene, si scopre la necessità di rivedere completamente la propria vita intesa come azioni, convinzioni, attitudini da correggere perché incompatibili con la realtà spirituale che viene posta davanti. È nel momento in cui l’uomo indurisce il proprio cuore respingendo la proposta di salvezza che determina la nullità del Vangelo, che sceglie di persistere nel proprio modo di vivere e, quindi continuerà ad agire e giudicare “secondo la carne”.

Dicendo “Voi invece non sapete da dove vengo o dove vado”, Nostro Signore fa riferimento proprio alla condizione di ignoranza, carnale e diabolica, scelta da quelle persone che né allora né dopo si ponevano il problema di comprendere realmente chi fosse, come invece fece Nicodemo, personaggio a mio giudizio sotto certi aspetti fra i più “tormentati” (in senso positivo) del Nuovo Testamento che, a differenza dei suoi correligionari, trovò la forza di schierarsi dalla parte di Gesù. Giuda tradì senza altra possibilità della propria estinzione, Nicodemo seppe ricucire, chiamato da Dio, lo strappo interiore che lo dominava entrando a pieno titolo nella Chiesa di Gerusalemme. L’autore della lettera agli Ebrei riporta il verso dell’ “oggi”per tre volte in 3.8, 3.15 e 4.7; proprio in quest’ultimo illumina il concetto scrivendo “Dio fissa un nuovo giorno, oggi, dicendo mediante Davide, dopo tanto tempo, «Oggi, se udite la sua voce, non indurite i vostri cuori»”. Ecco allora che abbiamo un “se”, riferito al fatto che la voce di Dio è unica e si distingue da quelle false che portano alla perdizione. “Se”chiama in causa l’udito spirituale, quella sordità che caratterizza chiunque si dà al mondo radicandosi come una pianta nella terra: tanto più profonde sono le sue radici, tanto più esiste la difficoltà, se non l’impossibilità, ad essere estirpato da essa per venire trapiantato nei terreno, appunto, dello Spirito e del Perdóno.

“Voi giudicate secondo la carne, io non giudico nessuno”(v. 15) è la descrizione di un’altra caratteristica dell’uomo naturale, schiavo dei propri modelli di vita e convinzioni, pronto a giudicare il prossimo in base al suo metro valutativo corrotto – anche da una religione – che si scontra con il ruolo di Gesù fino al Suo ritorno: Egli non giudica nessuno, come dimostrò con la mancata condanna della donna adultera in quanto venuto “non a giudicare, ma a salvare ciò che era perduto”(Luca 19.10). E qui abbiamo il concetto di salvezza secondo l’uomo e secondo Dio: “Chi cercherà di salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà”(Luca 9.24). Il giudicare cui fa riferimento Gesù in questo passo non allude alla formulazione di un giudizio di valore, ma il sottoporre il prossimo ad una sentenza di assoluzione o condanna, cosa che non fece mai nei suoi tre anni e mezzo circa di ministero: rimproverò, descrisse la condizione spirituale di molti, ma sempre dando loro la possibilità di porvi rimedio. L’uomo, ascoltando Cristo, ha sempre l’opportunità di tornare indietro, modificare la propria posizione, mutare itinerario.

Così leggiamo in Ebrei 2.1-4: “Per questo bisogna che ci dedichiamo con maggiore impegno alle cose che abbiamo ascoltato, per non andare fuori rotta. Se, infatti, la parola trasmessa per mezzo degli angeli si è dimostrata salda, e ogni trasgressione e disubbidienza ha ricevuto la giusta punizione, come potremmo noi scampare se avremo trascurato una salvezza così grande? Essa cominciò ad essere annunciata dal Signore, e fu confermata a noi da coloro che l’avevano ascoltata, mentre Dio ne dava testimonianza con segni e prodigi e miracoli d’ogni genere e doni dello Spirito Santo, distribuiti secondo la sua volontà”. Qui viene ricordata la parola scritta dell’Antico Patto, lasciata oggi a noi come esempio perché paragonassimo l’esperienza di un tempo lontano a quella possibile oggi identificata con le parole “una salvezza così grande”, prima non rivelata. Ed ecco che, perché questa proposta di “salvezza così grande”fosse credibile, fu supportata da “segni, prodigi e miracoli d’ogni genere”oltre che, per chi vive la dispensazione della grazia a tutti gli effetti, con “i doni dello Spirito Santo, distribuiti secondo la sua volontà”.

Gli ultimi versi del nostro passo sono tristi e umilianti al tempo stesso, perché la domanda “Dov’è tuo Padre?”rivela tutta la volontà di persistere nella condizione di cecità di quelle persone, aggravata dal fatto che si consideravano guide illuminate del popolo. La domanda dei farisei è particolare perché non chiedono chi fosse il Padre di Gesù, lasciando intendere forse che avessero bisogno di un chiarimento, ma dove fosse, quindi lo sfidano a produrre una Sua manifestazione, stante il fatto che Dio non lo si poteva vedere. “Dov’è tuo Padre?”contiene quindi tutto il sarcasmo e la presunzione di quella gente, profondamente ancorata alla terra e alla carne. Per questo Gesù aggiunge “Voi non conoscete né me, né il Padre mio; se conosceste me, conoscereste anche il Padre mio”: il Dio d’Israele non sarebbe stato più raggiungibile né con lo studio, né con la preghiera, né con le assemblee nella Sinagoga e soprattutto tramite i riti del Tempio perché le modalità di approccio erano cambiate e ben pochi lo avevano capito e ne gioivano.

Proviamo a paragonare quanto avvenuto in questo passo alle parole di Giovanni nel primo capitolo del suo Vangelo: “Venne fra i suoi e i suoi non l’hanno accolto. A quanti però lo hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio”(vv.11,12): un potere che prima non avevano e che qui viene ancora una volta respinto da persone cui null’altro importava se non mantenere vive tradizioni religiose e costumi privi di qualsiasi legame con Colui che già aveva detto “Voglio misericordia e non sacrificio”. Per loro, era meglio continuare così, ignorando il messaggio di chi “non è il Dio dei morti, ma dei viventi”(Matteo 22.23).

Infine l’ultimo verso della nostra lettura è “E nessuno lo arrestò, perché non era ancora venuta la sua ora”: potrebbe sembrare una ripetizione visto che Giovanni lo aveva ricordato altre volte; in realtà specifica questo a testimoniare che chi è lontano da Dio può desiderare tante cose, persone, cose o fatti, ma è del tutto impotente ad agire. Certo, in questo caso ci troviamo di fronte ad un avvenimento che era stato stabilito, concordato dal Padre e dal Figlio, ma non stava certo agli uomini determinare il quando e il come.

* * * * *

 

12.14 – LA LUCE DEL MONDO III/III (GIOVANNI 8.12)

12.14 – La luce del mondo 3 (Giovanni 8.12)

  

12Di nuovo Gesù parlò loro: «Io sono la luce del mondo: chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita».

 

DEL MONDO

“Mondo” è un termine che racchiude molti significati il più immediato dei quali è l’ambiente in cui l’uomo vive con tutti i suoi equilibri. Senza di lui non si ha “il mondo”, ma “la terra”che di lui costituisce la base, la premessa perché posa realizzarsi ed esistere. Il mondo è stato creato da Dio, è il risultato e l’immagine della Sua sapienza e potenza come emerge da una notevole quantità di passi, tra i quali possiamo citare il cantico di Anna, “Al Signore appartengono i cardini della terra e su di essi egli poggia il mondo”(1Samuele 2.8), Salmo 24.1 e 50.12 in cui viene rivendicata la Sua proprietà, “Del Signore è la terra e quanto contiene: il mondo, con i suoi abitanti”e “Mio è il mondo e quanto contiene”. Da qui vediamo che il “mondo”, come già premesso, è un termine che si riferisce il più delle volte a ciò che di animato popola il pianeta e, secondo la Scrittura, tutto ciò che vediamo in esso è stato formato con la diretta partecipazione del Figlio. Se Giovanni è esplicito in proposito in 1.10 del suo Vangelo, “Era nel mondo e il mondo  stato fatto per mezzo di lui, eppure il mondo non lo ha riconosciuto”, l’Antico Patto lo presenta in forma nascosta: parlando della Sapienza, così scrive Salomone in Proverbi 8.22-31: “il Signore mi ha creato come inizio della sua attività– quindi prima del “Sia la luce!”, nell’eternità che è il contrario del tempo come noi lo misuriamo – prima di ogni sua opera, all’origine. Dall’eternità sono stata formata, fin dal principio, dagli inizi della terra. Quando non esistevano gli abissi, io fui generata; quando non vi erano le sorgenti cariche d’acqua; prima che fossero fissate le basi dei monti, prima delle colline, io fui generata, quando ancora non aveva fatto la terra e i campi né le prime zolle del mondo. Quando egli fissava i cieli, io ero là; quando tracciava un cerchio sull’abisso, quando condensava le nubi in alto, quando fissava le sorgenti sull’abisso, quando stabiliva al mare i suoi limiti, così che le acque non ne oltrepassassero i confini, quando disponeva le fondamenta della terra, io ero con lui come artefice ed ero la sua delizia ogni giorno: giocavo davanti a lui in ogni istante, giocavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo”. Possiamo allora considerare che a Salomone, che scrive nel 980 a.C. circa, come Isaia due secoli dopo, era stato rivelato che la terra aveva la forma di un globo, cosa che Aristotele inizierà ad ipotizzare nel 340 a.C.

Il Signore, che ha “formato la terra con la sua potenza, ha fissato il mondo con la sua sapienza, con la sua intelligenza ha dispiegato i cieli”(Geremia 51.15), ha però dovuto assumere dei provvedimenti precisi una volta che il peccato entrò a stravolgere i meravigliosi equilibri che aveva fissato: una lettura di quanto accaduto, che sposta la responsabilità originale della disubbidienza di Adamo ed Eva al comandamento ricevuto, ce la dà il libro della Sapienza con le parole “…ma per l’invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo e ne fanno esperienza coloro che le appartengono”(2.24) e qui vediamo sia il principale responsabile, l’Avversario, sia che la morte è il fine ultimo di ogni esistenza, e non poteva essere altrimenti visto che la “via, la verità e la vita”per sfuggirle non era stata ancora rivelata. Sarà l’apostolo Paolo, molti secoli dopo, a spiegare che “…a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte, e così in tutti gli uomini si è propagata la morte, poiché tutti hanno peccato”(Romani 5.12). Il mondo, quindi, dall’estromissione da Eden, non fu letteralmente più lo stesso: privato della presenza, assistenza e amore incondizionato di Dio, si trasformò in un deserto di sospetti, fraintendimenti e di buio, per quanto caratterizzato dalle due generazioni di uomini, quella di Set che Lo cercava, e Caino che Lo rifiutava.

Il mondo può essere visto, sotto una certa ottica spirituale, anche come un territorio neutro in cui purtroppo entrambe le tipologie di uomini sono costrette a convivere: “Il campo è il mondo e il seme buono sono i figli del Regno. La zizzania sono i figli del maligno”(Matteo 13.38), ma è soprattutto una fonte di miraggi e di illusioni, come dalla frase a conclusione dell’insegnamento su cosa volesse dire seguire Gesù: “Quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la sua anima? O che cosa potrà dare in cambio della sua anima?”(Matteo 16.26).

L’uomo naturale trova nel mondo l’unica ragione di essere, cioè vivere ed esprimersi seguendo tutto ciò che lo attira e, nella misura in cui questa attitudine è presente, lo acceca rendendolo incapace di riconoscere la luce, come brevemente descritto nei due capitoli precedenti di queste riflessioni.

Definendosi “la luce del mondo”, Gesù non solo si propone, ma avverte che al di fuori di Lui non esiste alcun’altra via di uscita e quindi salvezza, che si concreta con l’illuminazione. Il mondo è un ambito in cui si vive, con le sue ragioni e sollecitudini che saranno sempre a Lui contrarie ed è proprio la Sua Parola a determinare una divisione tra ciò che è santo e gli appartiene e ciò che non lo è: la Parola è rivolta a tutti indistintamente, ma vediamo dalla parabola dei terreni che spesso viene portata via immediatamente, altre volte viene ascoltata, “ma la preoccupazione del mondo e la seduzione della ricchezza soffocano la Parola ed essa non dà frutto”(Matteo 13.22).

Il nostro verso poi è caratterizzato da una profonda promessa e verità, “chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita”, quindi Cristo, “la luce del mondo”è sì paragonabile al sole per rendere agevole comprendere il concetto dell’illuminare, ma i verbi “seguire”, “camminare” e “avere” ci trasportano in un contesto completamente diverso: “seguire” significa non avere né volere alcun altro riferimento al di fuori di Gesù; questo riguarda fondamentalmente il “tendere a” e non una costrizione rituale, religiosa, un “ufficio delle ore” rigidamente costituito per non distrarsi. Se si segue un sistema così strutturato, per il quale peraltro ho estremo rispetto, si corre il rischio di banalizzare la vita cristiana e di renderla un dovere, un qualcosa da adempiere comunque e quindi si può insinuare la finzione, la ricezione di qualcosa che si trasforma in un’abitudine. Di qui può nascere la sterilità della persona che corre il rischio di passare da una prigione a un’altra.

“Seguire”, invece, è caratterizzato da quel continuo confronto col Maestro che si concreta attraverso la preghiera, la lettura della Sua Parola e soprattutto quel voler essere continuamente un tutt’uno con Lui in quanto Suoi fratelli. “Camminare nelle tenebre” sarà allora impossibile in quanto l’appartenenza a Cristo lo esclude, se effettivamente sarà tale. Infatti “Noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio per conoscere ciò che Dio ci ha donato”(1 Corinti 2.12). Credo che, sotto l’aspetto del camminare, ogni cristiano sia chiamato a considerare la misura in cui la Parola di Dio dimora in lui, perché si può sempre professare con le labbra, mentre il cuore è lontano dalla realtà effettiva. Giacomo, “fratello del Signore”scrive “Gente infedele! Non sapete che l’amore per il mondo è nemico di Dio? Chiunque vuole essere amico del mondo, si rende nemico di Dio”(4.4). L’apostolo Giovanni poi andrà oltre: “Non amate il mondo, né le cose del mondo! Se uno ama il mondo, l’amore del Padre non è in lui”(1 Giovanni 2.15). Diventa allora chiaro che l’amare il mondo non è il rifiuto sistematico a qualunque attività che in esso si può sempre fare, ma l’adesione alla sua mentalità, a quella scala di valori e tipi di rapporto sociale che ben conosciamo perché un tempo era tutta cosa nostra.

Ora, però, il credente è caratterizzato dall’ultimo termine usato da Gesù in questo passo, avere “la luce della vita”, quindi qualcosa di estremamente più prezioso di una semplice lampada: avere la “luce della vita”è qualcosa che abbraccia ogni istante dei nostri giorni, che interviene nel momento in cui usiamo la prudenza e ci confrontiamo con Dio presentandogli le nostre richieste di aiuto perché i nostri passi siano illuminati. Non credo che avere “la luce della vita”sia qualcosa di garantito sempre e comunque, che sia gestibile a prescindere perché il tutto è subordinato dal “seguire”: “chi segue me”contiene due individualità precise viste nel discepolo e nel Cristo, nessun altro. E uno dei primi effetti è proprio l’abbandono, certo progressivo ma costante, del mondo che “passa con la sua concupiscenza, ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno”(1 Giovanni 2.17).

Il fatto che Gesù sia “la luce del mondo”per quel poco che abbiamo esaminato, significa che illumina ogni cosa e soprattutto tutti, nessuno escluso, e ciò avviene attraverso il Vangelo scritto e predicato che ciascun essere umano è libero di accogliere o rifiutare: se si sceglie la prima opzione si ha un’importante promessa, “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”(Matteo 28.20); nel caso della seconda, la prima conseguenza è che si aderisce al dio alternativo, quello che è chiamato “il principe di questo mondo”, ma anche, a proposito di chi non crede, di persone cui “il dio di questo mondo ha accecato la mente, perché non vedano lo splendore del glorioso vangelo di Cristo, che è immagine di Dio”(2 Corinti 4.4).

Non si potrebbe concludere questa trilogia su Giovanni 8.12 senza ricordare che, se Nostro Signore è la luce del mondo, lo stesso sono o dovrebbero essere i cristiani: Gesù disse nel sermone sul monte “Voi siete la luce del mondo”e Paolo ribadisce “In mezzo a loro voi risplendete come astri nel mondo”(Filippesi 2.15), quindi ci troviamo ancora nella regione della responsabilità e dell’impossibilità a dividere Cristo dai suoi fratelli. Le tenebre sono allora sinonimo di ignoranza, pericolo e peccato, la luce di conoscenza, sicurezza e santità, qui trasmissibili proprio perché la fonte è Gesù stesso e chi gli appartiene non può che rifletterne la natura vista negli astri, ciascuno fonte di luce maggiore o minore a seconda della sua funzione, ma non per questo classificabile da noi più o meno importante come purtroppo molti sono soliti fare secondo un metodo a mio giudizio discutibile.

Credo a questo punto che, per non aggiungere contenuti e versi già citati in abbondanza, sia giusto fermarci qui anche perché, se letto con attenzione, ci troviamo di fronte a riflessioni che portano con sé molte domande: impossibile non porsele e soprattutto non risolverle come scritto in Romani 12.2. “Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto”. Amen.

* * * * *

 

12.13 – LA LUCE DEL MONDO II/III (Giovanni 8.12)

12.13 – La luce del mondo 2 (Giovanni 8.12)

            12Di nuovo Gesù parlò loro: «Io sono la luce del mondo: chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita».

 LA LUCE

È, come anticipato brevemente nello scorso capitolo, il complemento oggetto. Qui, senza di lui, resterebbe chiara l’identità di Gesù col Padre per l’ “Io sono”, ma non sapremmo nulla sulla Sua funzione, su ciò che gli uomini avrebbero dovuto conoscere di Lui: infatti, che Egli “è”nel senso più puro ed alto del termine era già stato manifestato attraverso i molti miracoli che aveva compiuto e le remissioni dei peccati di cui solo una minima parte è stata riportata. Ecco perché, a un certo punto del Suo ministero, Pietro e gli altri furono in grado di comprendere che Gesù era “Il Cristo”, certo dopo una rivelazione del Padre (Matteo 16.17).

Ora cerchiamo di esaminare, sinteticamente per quanto lo spazio di questo capitolo lo concede, la “Luce”, primo elemento di cui è comandata l’esistenza in Genesi 1.3, “Iddio disse: «Sia la luce!». E la luce fu”. È bello considerare che “Iddio”, preferibile al generico “Dio”perché è un termine racchiude tutte e tre le Sue forme e sostanza, non è detto che creò personalmente, ma che ordinò, come già osservato dal Salmista molto tempo prima di noi: “Egli parlò, e tutto fu creato; comandò, e tutto fu compiuto”(33.9). L’unico essere frutto del Suo progetto diretto, nel senso che intervenne materialmente, fu l’uomo e solo lui: “E Iddio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò”(1.27); come questo creare si manifestò è descritto in 2.7, “…il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente”. Certo il racconto di questo libro è antropocentrico, teso a rivelare la prima verità che dev’essere conosciuta, e cioè che l’Universo fu fatto in funzione dell’uomo, poiché sappiamo che il Creatore riversò in questo sistema la Sua infinita intelligenza e qui possiamo ricordare come esempio Giobbe 38.4 e i suoi riferimenti: “Quando ponevo le fondamenta della terra, tu dov’eri? Dimmelo, se sei tanto intelligente!”. Resta il fatto che l’uomo fu l’unico in cui il Creatore soffiò il Suo Spirito nelle narici.

La luce, tornando a Genesi, fu quella fonte di energia ordinata per prima in quanto senza di lei la vita non avrebbe potuto generarsi, rendendo possibile la creazione nel terzo giorno: “Produca la terra germogli, erbe che producono seme, ciascuna secondo la propria specie, e alberi che fanno ciascuno l frutto con il seme, secondo la propria specie”. Possiamo facilmente comprendere che, poiché la luce fu la prima ad irrompere in un’eternità di buio, è il fenomeno con il quale Dio fece irruzione in un qualcosa di non definibile nei dettagli, ma certo “informe e vuoto”, con “le tenebre che ricoprivano la faccia dell’abisso”. Senza la Sua presenza e un Suo intervento, non possono infatti esistere altro che il buio più profondo e l’immobilità. Se poi prendiamo 1 Giovanni 1.5,“Dio è luce e in lui non vi sono tenebre”, troviamo la vera ragione per cui dovette separarle così come avverrà per le due generazioni, quella di Caino e quella di Seth, che prese il posto di Abele.

La separazione luce – tenebre,  immediatamente raffigurata nell’alternanza tra il giorno e la notte per quanto non caratterizzata dal buio completo, da allora in poi avrà un suo riferimento con la presenza o assenza di Dio in funzione degli uomini, come rileviamo in due episodi nel libro dell’Esodo: pensiamo alla penultima piaga che fu appunto caratterizzata dall’oscurità più totale talché gli Egizi “…non si vedevano più l’un l’altro e per tre giorni nessuno si poté muovere dal suo posto. Ma per tutti gli Israeliti c’era luce là dove abitavano”(10.23). Ricordiamo anche come Dio si caratterizzò nel cammino nel deserto, quando “…il Signore marciava alla loro testa di giorno con una colonna di nube, per guidarli sulla via da percorrere, e di notte con una colonna di fuoco, per far loro luce, così che potessero viaggiare giorno e notte”(13.21). Anche qui, abbiamo la stessa separazione, quella intercorrente fra una collettività guidata e un’altra, ben più numerosa, che operava nell’assenza, che nel libro di Giobbe è laconicamente descritta con le parole “Vi sono quelli che avversano la luce, non conoscono le sue vie, né dimorano nei suoi sentieri”(24.13).

La luce, o le tenebre, valgono tanto per un insieme di persone, ma soprattutto per il singolo che di esse fa un’esperienza diretta trattandosi di un àmbito a volte che si sceglie consapevolmente:“Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l’amaro in dolce e il dolce in amaro”(Isaia 5.20). Il fatto è che, poiché senza luce è impossibile vivere, ogni uomo decide di averne una, come da due passi che prendiamo ad esempio: “Certamente la luce del malvagio si spegnerà e più non brillerà la fiamma del suo focolare”(Giobbe 18.5) e “La lucerna dei malvagi è il peccato”(Proverbi 21.4); eppure, nonostante questo stile di vita, c’è chi sceglie altro: “Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino”(Salmo 119.105) e “Il Signore è mia luce e mia salvezza: di chi avrò timore? Il Signore è difesa della mia vita: di chi avrò paura?”(27.1).

Tralasciando le profezie sulla venuta della luce per il mondo che Matteo ha raccordato nel suo effetto più immediato quando Gesù venne ad abitare a Capernaum (4.12-17), vediamo che l’inizio del Suo ministero è descritto con le parole “Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino”(v.17), le stesse parole con cui Giovanni Battista si presentava agli uomini, però non supportate da miracoli, guarigioni e, soprattutto, remissione dei peccati. Del Battista infatti è detto “Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce”(Giovanni 1.8). Possiamo paragonare allora il ministero che parte da Capernaum all’alba che piano piano anticipa il giorno, dissolvendo le ombre.

“Io sono la luce”, con cui Gesù si qualifica agli uomini dopo più di due anni di ministero, è la dichiarazione aperta di una delle Sue caratteristiche che formano un tutt’uno con il Suo essere Figlio di Dio che l’uomo deve conoscere e non per nulla Giovanni apre il suo Vangelo con “In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce risplende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta”(1.4). E quella “vita”, a sua volte, la connettiamo a quell’ “albero” in Eden che consentiva ad Adamo ed Eva di essere illuminati, con quella vista che contemplava la visione del micro e del macro, la ricezione totale di frequenze che abbiamo perso perché con esse distingueva ogni essere anche spirituale che oggi non vediamo. Quindi, “Luce”e “Io sono”non lasciano dubbi sul fatto che non esiste altra alternativa se non quella di percorrere la propria vita illuminati da Dio attraverso il Cristo perché “Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo”(1.9), certo se la si accoglie. Si può dire che il Vangelo di Giovanni, più degli altri, parla di questo elemento, riportando le parole di Gesù “Io sono venuto nel mondo come luce, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre”(12.46): da qui in poi, questo elemento sarà sempre attribuito a Nostro Signore e al ruolo di rivelare il Padre. Parlando ad Agrippa, l’apostolo Paolo dirà “…ti mando alle nazioni per aprire i loro occhi, perché si convertano dalle tenebre alla luce e dal potere di Satana a Dio, e ottengano il perdono dei peccati e l’eredità, in mezzo a coloro che sono stati santificati per la fede in me” (Atti 26.18).

Ancora, tornando al nostro verso, è da sottolineare l’articolo, “La”e non “Una” davanti a “luce” dalla quale vediamo chiaramente che non ce ne possono essere altre per poter pervenire a quella unica e vera di cui l’essere umano ha veramente bisogno; diversamente, come abbiamo visto brevemente nei pochi passi citati, se ne avrà una falsa, quella che ad esempio possedevano quei farisei che vengono chiamate “guide cieche”. E del resto questa confusione iniziò proprio nel momento in cui i nostri progenitori furono estromessi dal giardino di Eden dopo aver conosciuto certamente il peccato, ma soprattutto la menzogna poiché, una volta introdotti nel mondo corrotto, non si fidarono più l’uno dell’altro e Caino, riproducendo la tecnica dell’Avversario, disse a suo fratello “Andiamo ai campi”.

La menzogna è non solo bugia, ma seduzione, inganno, travisamento, tutto ciò che non è chiaro e, quindi, luce. La scienza umana in proposito, a conferma del fatto che il mondo è nelle tenebre sotto quest’ultimo aspetto, ha accertato che l’uomo acquista la capacità di mentire per il proprio tornaconto dall’età di cinque anni e che gli stessi animali non sono esenti da questa tecnica: lo fanno per sopravvivere, nascondendo il cibo, mimetizzandosi, lanciando falsi allarmi alle altre specie che, fuggendo da un determinato luogo, lasciano loro spazio per nutrirsi di quel cibo di cui altrimenti si sarebbero impossessati. E l’uomo può mentire anche a se stesso, spesso senza accorgersene. Questo esempio per far capire che le “tenebre” hanno un significato che va molto oltre quello della semplice assenza di una fonte luminosa, ma sono riferite ad un buio che ogni essere si porta dentro essendo stata, con il peccato, la luce di Dio preclusa ad ogni creatura che, da allora, può pensare solo alla sua sopravvivenza immediata. Ecco perché è da irresponsabili non accogliere e non rivolgersi a Cristo, unica e vera Luce. E, concludendo, possiamo dedurre che quando Gesù disse “In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come un bambino, non entrerà in esso”(Luca 18.17) e ne prese in braccio uno prendendolo ad esempio, si riferisse proprio all’innocenza che caratterizza i bimbi attorno ai quattro anni.

Tornando all’apostolo Giovanni, che di luce parla fin dal primo capitolo del suo Vangelo, possiamo concludere queste riflessioni con una citazione molto indicativa, illuminante: “Chi crede il lui non è condannato, ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nell’unigenito Figlio di Dio. E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio”(3.18-21). Amen.

* * * * *

 

12.12 – LA LUCE DEL MONDO I/III (Giovanni 8.12)

12.12 – La luce del mondo I/III (Giovanni 8.12)

12Di nuovo Gesù parlò loro: «Io sono la luce del mondo: chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita».

            Sono stato in dubbio se rivolgere tutte le attenzioni a questo solo verso oppure inserire anche quelli che seguono in cui viene descritta la questione sorta coi farisei che, di fronte all’affermazione di Gesù come “Luce del mondo”, cercarono in ogni modo di reagire. Ritengo però che sia meglio occuparci di un solo verso, lasciando ad un prossimo capitolo l’analisi degli altri. C’è però, nel testo integrale che non ho riportato, un particolare degno di nota e cioè che Gesù, nel frattempo, si era spostato dal cortile dei gentili a quello delle donne, la parte più frequentata del tempio dai soli israeliti, vicinissimo al Gazith, o Sala del Sinedrio; Giovanni, infatti, si preoccupa di scrivere al verso 20 “Queste parole Gesù le pronunziò nel luogo del tesoro mentre insegnava nel tempio”, cioè quel posto, appunto nel cortile delle donne, in cui erano murate 18 cassette destinate a raccogliere le offerte (e non solo), come avremo modo di esaminare nell’episodio conosciuto come quello de “il quattrino della vedova”.

Venendo al verso in esame l’osservazione più immediata è possibile sul “Di nuovo”con cui si apre, che si presta a due interpretazioni o, se preferiamo, a due alternative: infatti, ammettendo come proprio di Giovanni l’episodio della donna adultera, si vuole suggerire che Gesù, chiusa la questione precedente, riprese ad insegnare. Rimanendo però nell’ipotesi che sia difficile collocarlo temporalmente,  possiamo fare un raccordo a 7.53, “E tornarono ciascuno a casa sua”: quel “Di nuovo”potrebbe allora venir letto come una ripresa degli insegnamenti di Gesù avvenuta il giorno seguente, in un ambiente differente.

Veniamo ora al nostro verso che possiamo dividere in quattro parti la prima delle quali è composta da tre elementi che vivono di vita propria e presentano una progressione andando via via aggiungendosi: “Io sono”, “Io sono la luce”e “Io sono la luce del mondo”. Ciascuna di essi ha un senso compiuto.

IO SONO

Rappresenta da sempre il modo in cui un individuo pensante e agente dichiara la propria identità, la sua condizione morale, psicologica o lo stato in cui versa. L’uomo la usa per qualificarsi di fronte al proprio simile, a volte mentendo, ma Dio se ne serve sempre per presentarsi e la prima volta che questo avvenne fu con Abrahamo quando, all’età di novantanove anni quindi prima di raggiungere i cento che è la cifra del compimento, si sentì dire “Io sono l’Iddio Onnipotente, cammina davanti a me e sii integro”(Genesi 17.1). “Io sono”, quando è Dio a pronunciarlo, è sinonimo di promessa a meno che non definisca la Sua Identità assoluta e insondabile, “Io solo colui che è”, tradotto anche con “colui che sono”(Esodo 3.14). Come promessa ricordiamo le parole dette a Giacobbe, “Io sono il Dio di Abrahamo, tuo padre; non temere perché io sono con te: ti benedirò e moltiplicherò la tua discendenza a causa di Abrahamo, mio servo”. Più avanti nella storia, si presentò a Mosè usando come credenziali, perché non poteva essere confuso con altri e doveva esservi una linea continua nell’osservanza delle Sue parole, queste parole: “Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abrahamo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe”(Esodo 3.6). Tra l’altro, riguardo al “Colui che è”, al popolo bastava proprio la prima persona del verbo essere per identificarlo: “Così dirai agli israeliti: «L’Io sono mi ha mandato a voi»”. Altre volte le parole furono semplici, “Io sono il Signore”, alle quali viene aggiunto a ricordo “che vi ho fatto uscire dalla terra d’Egitto per essere vostro Dio; siate dunque santi, perché io sono santo”. È quindi impossibile rivolgersi a Lui o accostarsi alla Sua Parola, quindi a Gesù quanto alla Scrittura, senza tenere presente l’onnipotenza, la volontà e il piano che ha per l’uomo che deve a Lui inevitabilmente adeguarsi mettendo da parte ciò che è sconveniente e non caritatevole: “Non maledirai il sordo, né metterai inciampo davanti al cieco, ma temerai il tuo Dio. Io sono il Signore”(Levitico 19.12).

Quando l’ “Io sono” si presenta, pone sempre l’uomo nelle condizioni di temerlo, lo avvisa di camminare rettamente, gli presenta una via che, se vuole avere la Sua benedizione, comporta l’astenersi da determinate azioni quali ad esempio il non farsi idoli per prostrarsi davanti ad essi (Levitico 26.1), non opprimere il prossimo (25.17), non raccogliere gli avanzi della mietitura per lasciarli al forestiero (23.22), osservare i Suoi comandamenti per metterli in pratica (22.31), questo perché “…vi ho fatto uscire dalla terra d’Egitto perché non foste più loro schiavi; ho spezzato il vostro giogo e vi ho fatto uscire a testa alta”(26.13).

Nell’Antico Patto – ma anche nel Nuovo comunque per quanto la Grazia venuta da Gesù Cristo consenta un rapporto diverso, ma non per questo meno responsabile – l’identità di YHWH si presenta con l’assoluto “Sono io che do la morte e faccio vivere; io percuoto e io guarisco, e nessuno può liberare dalla mia mano”(Deuteronomio 32.39).

Ora, fatta questa panoramica molto generale, l’ “Io sono”di Gesù non è diverso, ma complementare, cioè necessario sul piano qualitativo, quantitativo, strutturale, compiuto nel senso che mette in luce ciò che nell’antichità era velato, nascosto. La Sua identità come “Il Cristo, il figlio dell’Iddio vivente”riservata a chi lo aveva ed ha conosciuto, necessitava infatti di ampliamenti: l’uomo non può andare a Lui se non conosce le caratteristiche più importanti della Sua natura, il Suo ruolo, ciò per cui è sceso dai cieli irraggiungibili sulla terra, quindi rendendosi visibile come qualsiasi essere umano, al contrario del Padre. Ad esempio, parlando della resurrezione dei morti ai Sadducei, disse che “Iddio non è il Dio dei morti, ma dei viventi”(Matteo 22.32), di non essere “venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori”rivelando la Sua volontà di salvare ciò che sarebbe inevitabilmente andato perduto ed è bello considerare che, quando si presentò ai discepoli risorto, non disse “io sono”, ma “Coraggio, sono io, non abbiate paura”(Marco 6.50).

Davanti al Sinedrio si presentò in modo inequivocabile: quando il Sommo Sacerdote gli domandò “«Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto?», Gesù rispose «Io lo sono»”(Marco 14.61,62), ma agli altri uomini, quelli non chiusi dal proprio orgoglio che avrebbero potuto accoglierlo o quantomeno farlo dopo un percorso di dubbio e crescita personale, usò altri termini, come ad esempio “Il pane vivo disceso dal cielo”, “Il pane della vita”. Non venuto da se stesso, ma inviato dal Padre, rimarcò la differenza fra Lui e i suoi accusatori, “Voi siete di quaggiù, io sono di lassù; voi siete di questo mondo, io non sono di questo mondo”(Giovanni 8.23), disse di non far nulla da se stesso, di essere venuto perché “coloro che non vedono, vedano, e quelli che vedono, diventino ciechi”(9.39), “non per condannare, ma per salvare il mondo”(12.47) di essere “la porta”(10.9), il “buon pastore”, “la resurrezione e la vita”(11.25), “la via, la verità e la vita”perché, parole dette a Pilato, “Tu lo dici, io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce”(18.37).

È sicuramente da sottolineare che l’identità di Gesù, come abbiamo visto, sotto gli aspetti del Suo “Io sono”è l’apostolo Giovanni a rivelarla esplicitamente più degli altri tre evangelisti e verrà da lui completata nell’ultimo scritto quando Gesù dirà “Io sono l’Alfa e l’Omega, Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente”(Apocalisse 1.8), “Io sono il Primo e l’ultimo, e il Vivente. Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi”(v.17,18).

Anche qui abbiamo dato una panoramica generale e ciascuna delle identità di Gesù andrebbe sviluppata e lo faremo, per quanto non qui, ma nel corso dei vari capitoli di questi scritti; nel caso del nostro verso, all’ “Io sono”segue “la luce”a significare una delle qualità del Dio che, non essendo in Lui “tenebre alcune”non può che avere questa funzione. La “luce”di cui parla Gesù non è qualcosa di generico, ma da identificare nel “sole”sia perché il Suo volto brillò così alla trasfigurazione, sia per la promessa profetizzata da Zaccaria, padre di Giovanni Battista: “Grazie alla tenerezza e misericordia del nostro Dio, ci visiterà un sole che sorge dall’alto, per risplendere su quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra della morte, e dirigere i nostri passi sulla via della pace”(Luca 1.78,79). Sono questi passi che suggeriscono un cammino continuo verso una direzione consapevole e precisa il cui risultato è descritto nella parabola della zizzania: “La mietitura è la fine del mondo e i mietitori sono gli angeli. Come dunque si raccoglie la zizzania e la si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti quelli che commettono iniquità e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. Allora i giusti – cioè i giustificati per fede –splenderanno come il sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchie, ascolti!”(Matteo 13.40-43).

Concludendo, “Io sono”è al tempo stesso un’affermazione lapidaria perché ha come primo riferimento l’identità di Dio con l’eternità nella quale vive e dalla quale proviene nel momento in cui si rivela, ma in questo caso ha bisogno, perché l’uomo comprenda, di un complemento oggetto che, per il verso in esame, è prima “la luce”e poi “del mondo”; e qui Gesù parla a tutti coloro che lo ascoltano, allora come oggi, perché possano determinare la loro condizioni di salvati o di perduti. Amen.

* * * * *