11.40 – Il discorso ecclesiologico 11, “Chi non è contro di noi, è per noi” (Marco 9.38-41)
38Giovanni gli disse: «Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva». 39Ma Gesù gli disse: «Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: 40chi non è contro di noi è per noi. 41Chiunque infatti vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa».
Con questi versi concludiamo il lungo esame del discorso ecclesiologico di Gesù. Anche se non si può stabilire con certezza chi fosse il personaggio in questione, è doveroso comunque chiederselo e sono state fatte diversi supposizioni in proposito: si è ipotizzato fosse uno dei tanti esorcisti giudei, un discepolo di Giovanni Battista, uno che aveva ascoltato Gesù predicare e aveva deciso di agire in modo indipendente, ma se così fosse quel “nel tuo nome” sarebbe stata una sorta di formula magica che non avrebbe portato ad alcun risultato. Con un margine di probabilità molto più alto, invece, quell’anonimo era una persona che aveva beneficiato di un intervento di Gesù e, dopo un’accurata riflessione su quanto gli era accaduto, aveva deciso di agire esercitando così la sua fede.
Certo sappiamo che Gesù invitò direttamente alcuni uomini a seguirlo – e i dodici, come altri, sono un esempio –, ma che ci furono persone cui parlò diversamente come nel caso dell’indemoniato gadareno di cui è scritto “Mentre entrava nella barca, colui che era stato indemoniato lo supplicava di poter restare con lui. Non glielo permise, ma gli disse: «Va’ nella tua casa, dai tuoi, annuncia loro ciò che il Signore ti ha fatto e la misericordia che ha avuto per te». Egli se ne andò e si mise a proclamare per la Decapoli quello che Gesù aveva fatto per lui e tutti erano meravigliati” (Marco 5.18-20). Possiamo ricordare anche l’episodio di quel discepolo che, prima di seguire il Maestro, non voleva abbandonare il proprio padre prima di seppellirlo: tutti ricordano la prima parte della risposta, indubbiamente forte, “lascia che i morti seppelliscano i loro morti”, ma non la seconda, “Ma tu va’, e annuncia il regno di Dio”.
Ho riportato i primi passi che mi sono venuti alla mente, ma credo bastino per far capire che Gesù volle chiamare i dodici ad essere apostoli, poi accolse un numero imprecisato di discepoli, uomini e donne che lo seguivano spontaneamente partecipando in modo attivo alla Sua predicazione, ma faceva affidamento anche sulla testimonianza di coloro che avevano ricevuto guarigioni da infermità, malattie e schiavitù dall’Avversario. Sappiamo che parte di costoro, una volta guariti, proseguirono la loro vita nell’indifferenza su quanto ricevuto, ma non molti altri e questo ci parla del fatto che, una volta incontrato Gesù lungo la via percorsa, anche oggi, per chi ha beneficiato del Suo intervento in salvezza la vita non può essere più la stessa e, nel modo più confacente alla loro posizione spirituale, danno la loro testimonianza ai loro simili.
L’anonimo rimproverato dai dodici – “volevamo impedirglielo” secondo Marco, “glielo abbiamo impedito” secondo Luca – non poteva essere un religioso perché sappiamo la fine che fecero i figli di Sceva (Atti 19.13-16), né un discepolo del Battista che, già decapitato da Erode Antipa, aveva concluso la sua funzione, né uno che aveva sentito parlare di Gesù, ma una persona che con Lui aveva vissuto un’esperienza profonda quale, secondo il mio parere, avrebbe potuto essere solo la liberazione da uno spirito impuro: una schiavitù di quel tipo priva la persona della libertà di pensare, scegliere, agire, gestire la propria dignità che, una volta ritrovata per intervento divino, non può che riconoscere in Gesù il Signore nel senso più ampio del termine. Credo che la reazione interiore di fronte alla liberazione dallo stato di “indemoniato” sia differente rispetto a quella dalla lebbra, o da una paralisi. Anche guardando alle donne che seguivano Gesù, fu Maria di Magdala, liberata da “sette demoni” quindi da una totalità di miseria e degradazione, quella che amò Gesù più di tutte.
L’anonimo cui i discepoli proibirono, o cercarono di proibire, di agire scacciando demoni quindi, dopo la gioia conseguente alla sua liberazione, aveva intrapreso un percorso personale che lo aveva convinto del fatto che la vita nuova ricevuta per grazia sarebbe stata veramente tale dedicandosi all’annuncio del Nome di Colui che lo aveva liberato: abbiamo letto “scacciava i demoni nel tuo nome”, non di altri. “Nome” in cui quella persona credeva totalmente perché aveva direttamente sperimentato per primo i Suoi effetti. E qui va da sé che non si può parlare di Dio senza conoscerlo e quindi essere parte di Lui, ragione per la quale Gesù proibiva agli spiriti impuri di parlare. Chiunque quindi ha davvero beneficiato dell’intervento del Signore, non può tacere secondo il principio in base al quale una luce, se è tale, non può che brillare. E chi rientra in questa categoria di uomini o donne, illumina anche tacendo.
In questo episodio però ci sono anche delle negatività, purtroppo da parte dei discepoli, proprio loro che avrebbero dovuto essere – ma lo sarebbero diventati – la “luce del mondo”: furono colti da un orgoglio corporativo e agirono autonomamente, presumendo di essere le sole autorità, ricordandosi di essere stati inviati due a due a predicare, compiere miracoli e cacciare i demoni. Commentando l’episodio su cui stiamo riflettendo, scrive un fratello: “Eccoci dunque di fronte allo spirito umano che agisce con atteggiamento che già nell’antichità aveva fatto deviare il popolo d’Israele mediante l’elezione di un re, come avevano altri popoli, rinunciando così al governo teocratico a vantaggio di quello monarchico di Saulle”. E il voler essere indipendenti, prendere decisioni d’istinto senza consultarsi o chiedere un confronto col Signore, non può che porci attori di scelte sbagliate. Ciò che i Dodici avrebbero dovuto chiedersi era se quel tale agiva secondo Dio oppure no e non impedirgli di agire a priori.
Questo episodio ci parla di spirito, quello che usava l’anonimo messo a tacere dai dodici, e di carne, quella che i Dodici esercitarono quando avrebbe dovuto essere – secondo logica – il contrario. Questo episodio dovrebbe insegnare molto ai credenti di tutte le Chiese cristiane, sempre convinti di essere nel giusto e migliori degli altri, che la Chiesa è Una – come in effetti è anche se non nel senso inteso da loro – e che le altre siano nell’errore. È importante la disposizione del cuore, non la forma, che viene confusa con il formalismo, stesso errore dei farisei e di qualunque opportunista. Certo che poi la dottrina dev’essere conforme a quella del Vangelo e degli Apostoli.
In questo episodio però, l’errore è proprio in mezzo ai Dodici: Giovanni parla perché Pietro, ancora mortificato dal rimprovero “Vattene da me Satana, perché tu non hai il senso alle cose di Dio, ma degli uomini”, taceva. Solo più avanti chiederà chiarimenti sul perdóno. Nessuno dei Dodici chiese spiegazioni all’annuncio della morte e resurrezione di Gesù, ma vollero ridurre al silenzio un testimone dell’amore di Dio e del Nome del Figlio. Non videro in quella persona un loro simile, ma un oppositore sulla base di un metro umano provando un sentimento di gelosia anche alla luce del fatto che poco prima non erano riusciti a guarire un epilettico, provocando per reazione le parole “O generazione incredula e perversa, fino a quando starò con voi? Fino a quando vi sopporterò?” (Matteo17.17).
C’è poi un episodio particolare, narrato al capitolo 11 del libro dei Numeri: quando Mosé chiese a Dio ai essere aiutato nella gestione del popolo, Egli rispose di radunare settanta uomini tra gli anziani di Israele sui quali avrebbe infuso parte dello Spirito che era su di lui. Leggiamo dal verso 26 che “…erano rimasti due uomini nell’accampamento, uno chiamato Eldad e l’altro Medad. E lo spirito di posò su di loro; erano fra gli iscritti, ma non erano usciti per andare alla tenda. Si misero a profetizzare nell’accampamento. Un giovane corse ad annunciarlo a Mosè. (…). Giosué, figlio di Nun, servitore di Mosè fin dalla sua adolescenza, prese la parola e disse: «Mosè, mio signore, impediscili!». Ma Mosè gli disse: «Sei tu geloso per me? Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore porre su di loro il suo spirito!». E Mosè si ritirò nell’accampamento, insieme con gli anziani di Israele” (26-30). Da notare il numero settanta, in realtà settantadue, come quello dei discepoli che Gesù invierà, episodio che esamineremo presto.
Quanto letto ci conferma, prima ancora della dispensazione della Grazia, che veramente “il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va: così è chiunque è nato dallo spirito” (Giovanni 3.8). Certo i discepoli non conoscevano ancora lo Spirito e, se questo episodio si fosse verificato più avanti, ad ipotesi nel libro degli Atti, avrebbero certamente accolto quella persona in mezzo a loro, tenendo presente che, come scritto ai Corinti, “Nessuno che parli sotto l’azione dello Spirito di Dio può dire «Gesù è anàtema», e nessuno può dire «Gesù è il signore!» se non sotto l’azione dello Spirito Santo” (1 Corinti 12.3). E abbiamo letto che Nostro signore qui dice “Non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me”.
C’è un ultimo problema da affrontare ed è rappresentato dalla frase “Chi non è contro di noi, è per noi”. In realtà i problemi sono due: il primo è rappresentato da come alcuni traducono il parallelo di Luca, come la versione della CEI che sostituisce al “noi” il “voi” affidandosi a manoscritti diversi, ma meno autorevoli. Il “noi” è riportato nel Codice Vaticano oltre che da diversi onciali, datati dal IV al X secolo. Se avesse usato il “voi”, Gesù si sarebbe estraniato dal gruppo, cosa impossibile perché la Chiesa non può essere che profondamente legata a Lui, pena il fallimento della testimonianza.
Il secondo problema è dato dalla apparente contraddizione esistente tra il “chi non è contro di noi, è per noi” e “chi non è con me, è contro di me”, ma è facilmente risolvibile perché si tratta di concetti che si adattano alle situazioni: il non essere “contro” può fare riferimento alla neutralità inteso come disinteresse (e in questo caso la contrarietà è evidente perché allude a un cuore impermeabile), oppure alla condizione di chi si mette da parte nell’attesa di capire e non si esprime. Un esempio in proposito lo abbiamo in Nicodemo, dottore della Legge, fariseo e membro dei Sinedrio, che prima ascolta l’insegnamento di Gesù e poi rimane “nell’ombra” fino a quando interviene timidamente in Sua difesa quando i suoi correligionari vorrebbero farlo arrestare (Giovanni 7.45-51) e infine, con Giuseppe d’Arimatea, depone il Suo corpo nel sepolcro (19.39-42). Altro esempio lo abbiamo con Giuseppe d’Arimatea, membro autorevole del Sinedrio, unico descritto come discepolo di Gesù, ma “di nascosto per timore dei Giudei” (17.38), persona che come la precedente ebbe il coraggio dopo molto tempo di manifestarsi come discepolo.
Ecco allora che ogni essere umano deve chiedersi, se “non è contro”, per quale ragione abbia questa posizione e se non sia il caso di intraprendere quel percorso che, un volta per tutte, lo possa porre nella condizione di “concittadino dei santi e membro della famiglia di Dio”. Amen.
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