11.39 – Il discorso ecclesiologico 10, Il creditore spietato (Matteo 18. 23-35)
23Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi. 24Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti. 25Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. 26Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: «Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa».27Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito. 28Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: «Restituisci quello che devi!». 29Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: «Abbi pazienza con me e ti restituirò». 30Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito. 31Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. 32Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: «Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. 33Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?». 34Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto. 35Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello».
Si tratta di una parabola che abbiamo già affrontato, citato più volte e che qui cercheremo di inquadrare aggiungendo nuovi elementi per andare oltre la semplicità del racconto che, per come è esposto e soprattutto con la frase conclusiva “Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello”, non ha apparentemente bisogno di commenti.
La prima sottolineatura la possiamo fare sulla parola “re”, che tutti traducono in modo identico forse perché scrivere “uomo re”, o “re uomo” come nel testo originale, disorienterebbe. Gesù quindi, introducendo la parabola, usa “è simile ad un re (umano)”a sottolineare che, per la semplicità dell’esempio che andrà a narrare, tutti sono in grado di comprenderlo.
Ora questo “re”, che in quanto tale decide autonomamente e soprattutto senza che nessuno possa opporsi, leggiamo “volle fare i conti coi suoi servi”, termine che non va inteso in senso generale, ma specifico in quanto chiaramente riferito a persone altolocate, di corte, come ministri o responsabili degli affari regali; qui il riferimento potrebbe essere a schiavi emancipati che, presso i monarchi orientali, venivano spesso elevati a cariche di fiducia e responsabilità, come avvenne con Daniele, costituito “…governatore di tutta la provincia di Babilonia e capo di tutti i saggi di Babilonia”(Daniele 2.48).
Riflettendo su quel “volle”possiamo dire che esprime, a parte la non possibilità di opposizione, repentinità e sorpresa da parte dei “servi”interessati, alcuni di loro preparati a un controllo sul loro operato ed altri no. Se Dio non fosse tale non sarebbe imprevedibile, tanto in benedizione quanto nel giudizio: ricordiamo la manifestazione ai 120 in Atti 2.2 o l’esperienza di Saulo da Tarso quando “…avvenne che, mentre era in viaggio e stava per avvicinarsi a Damasco, all’improvviso lo avvolse una luce dal cielo”(9.3) o ciò che avvenne a Filippi: “D’improvviso venne un terremoto così forte che furono scosse le fondamenta della prigione; subito si aprirono le porte e caddero le catene di tutti”. D’altro canto, abbiamo la realtà degli ultimi tempi, “Quando la gente dirà: «Pace e sicurezza!», allora, d’improvviso la rovina li colpirà, come le doglie di una donna incinta, e non potranno sfuggire”(1 Tessalonicesi 5.3). Pensiamo anche alla pioggia, ai venti e ai torrenti che si abbattono sulla casa costruita sulla sabbia senza che il costruttore non sapesse quando, all’avvertimento “Fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati”(Marco13.36) e ancora Luca 21.34: “State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso all’improvviso”.
A proposito dell’imprevedibilità di Dio va sottolineato che coglierà sempre impreparato chi sarà lontano da Lui, perché chi Lo frequenta può avere in mano gli elementi per capire le Sue dinamiche attraverso le promesse contenute nella Scrittura che contiene gli eventi passati, presenti e futuri. Ricordiamo che il diluvio colse di sorpresa tutti, ma non Noè e la sua famiglia, per non citare le parole di Dio in Genesi 18.19 prima della distruzione di Sodoma: “Terrò nascosto ad Abrahamo ciò che sto per fare?”. Anche gli eventi futuri descritti nell’Apocalisse, che riportano nei dettagli ciò che sta per accadere, sono qualcosa di chiuso per il mondo, ma non per coloro che appartengono a Dio.
Bene, il servo della parabola si trova scoperto: il re “Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti”. È già stato sottolineato che questa era una somma enorme, che qui Gesù consapevolmente pone all’attenzione dei discepoli per dare la misura prima del debito, e poi della grazia ricevuta tramite la sua remissione, entrambi – mi si passi il termine – irreali perché è al di fuori della comprensione umana sia che una persona possa distrarre così tanto senza che nessuno se ne possa accorgere, sia che un re possa lasciar passare impunito un simile affronto.
Quello che Gesù vuole qui mettere in risalto è la condizione di quel dignitario che, senza la remissione di quel debito chiesta con le parole “abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”, non avrebbe mai potuto rifondere l’intera somma coi suoi mezzi. La richiesta di pietà di quell’uomo è apparentemente qualcosa di inutile perché la Legge, tanto di Mosé che umana, stabiliva che il debitore potesse essere venduto come schiavo assieme ai suoi figli. Per il debitore insolvente che cadeva in quella misura, la Legge aveva poi il Giubileo, che ricorreva ogni cinquant’anni, con la quale questi veniva liberato, o l’anno sabatico ogni sette.
Questo “uomo re”, quindi, compie un gesto al di fuori della comprensione umana, rinunciando a rientrare in possesso della somma a lui sottratta o quanto meno ad avere soddisfazione mediante l’incarceramento del colpevole, dell’affronto ricevuto. E qui sta il motivo per cui Gesù parla di “uomo re”: quanto da lui raccontato è comprensibile a tutti, non c’è nessun mistero, ma una verità chiaramente rivelata, quella della pietà provata per una persona che non ne avrebbe avuto alcun diritto perché privo di attenuanti. Quel servitore, infatti, sapeva benissimo sia che avrebbe dovuto avere nei confronti del suo re un comportamento leale, quanto che presto o tardi vi sarebbe stato un momento in cui il suo operato, come quello degli altri, avrebbe subito una verifica. Viene infatti sempre, per un subordinato, il momento della valutazione del proprio lavoro.
La descrizione dell’atteggiamento di quell’uomo, “prostrato, lo supplicava”, indica tutto il suo sentimento: aveva il terrore di perdere tutto e arriva a fare una promessa che sapeva non avrebbe mai potuto mantenere perché quel “tutto”che prometteva di restituire era qualcosa di irrealizzabile. Ma fu perdonato anche se poi, come sappiamo, si comporterà nei confronti di un suo debitore con crudeltà e insensibilità ingiustificabili a fronte del trattamento che aveva ricevuto dal suo signore.
E qui abbiamo molti elementi da considerare, prima di tutto lo stato psicologico del personaggio: aveva sottratto una somma, aveva chiesto pietà e l’aveva ottenuta, ma poi tutto era tornato come prima, rimanendo completamente insensibile di fronte alla grazia ricevuta. A differenza di Dio, che legge nei cuori, quel re aveva agito per compassione, sentimento che porta chi lo prova ad immedesimarsi nella condizione di sofferenza e miseria in cui versa un suo simile. Compatire infatti significa “patire insieme”e quel re, di fronte al suo servo, lasciò la sua posizione di dominus assoluto, cui nulla era vietato, che tutto poteva perché tutto aveva, per immedesimarsi in suo sottoposto e nel sentimento che provava, poiché la paura di perdere ogni cosa – ricordiamo “ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva”– era assolutamente reale e aveva prodotto in lui un profondo sconvolgimento.
Avuto il perdono, però, tutto era tornato come prima, cioè quel servo era rimasto lo stesso di sempre, quindi stesse attitudini, stesso non senso del dovere, stessa insensibilità. Questo ci parla del fatto che quando un essere umano, convinto di peccato e quindi consapevole di avere un debito con Dio impossibile da rifondere se non chiedendo pietà, viene da Lui perdonato, solo il tempo darà dimostrazione del fatto che quanto ricevuto sarà stato compreso e avrà prodotto un cambiamento, trasformandolo in una persona diversa.
Ora il fatto che il servo infedele della parabola non fosse stato minimamente intaccato dall’eccezionalità rappresentata dalla remissione del debito ci porta a considerare che, in realtà, il suo invocare pietà era dettato dal fare di tutto per cercare di tamponare l’emergenza drammatica che si era venuta a creare, ma senza mettere minimamente in discussione la propria persona. Si tratta di un comportamento, un modo di essere comune, identico a tutti coloro che vivono per loro stessi, sempre pronti a individuare i torti, veri o presunti che subiscono, ma altrettanto disponibili a darli. Sono quelli che si impegnano con promesse e non le mantengono. Sono quelli che si rivestono di una giustizia che non hanno, che simulano, pronti a calpestare gli altri, ma a ribellarsi ad ogni minima ingiustizia che viene loro fatta, che chiedono sempre e non danno mai, forti con i deboli e deboli con i forti.
Leggiamo al verso 28 “quel servo trovò uno dei suoi compagni”, quindi un suo pari, ragione in più per cui avrebbe dovuto usare lo stesso comportamento che il re aveva avuto nei suoi confronti: non c’era la distanza tra suddito e sovrano, ma un rapporto paritario. Non solo, ma uno aveva distratto, l’altro aveva chiesto in prestito una somma che, per quanto importante, era assolutamente rifondibile qualora il creditore avesse avuto “pazienza”. E questo ci parla del fatto che, se fra Dio e l’uomo esiste una distanza incolmabile che viene appianata col perdóno, tra uomo e uomo c’è solo uguaglianza perché “tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio”, a meno che Lui stesso intervenga a rimuoverlo.
Vediamo nella parabola che, quando il servitore perdonato si mette ad affliggere il suo pari, ci sono altri pari grado che vanno ad informare il re dell’accaduto: non è difficile collegare questi a quei credenti, compagni di viaggio verso la “casa dalle molte stanze”, che nelle loro preghiere possono chiedere un intervento risolutore di Dio a fronte di comportamenti incompatibili con la funzione rivestita: come Gesù ha insegnato col “Padre nostro”, quando ci si presenta davanti al Signore, non necessariamente esiste solo la lode; anzi, conosciamo quel passo di Apocalisse 6.10 in cui le anime degli immolati per la Parola di Dio e la testimonianza che avevano resto dicono“Fino a quando, Sovrano, tu che sei santo e veritiero, non farai giustizia e non vendicherai il nostro sangue contro gli abitanti della terra?”. Quando un cristiano si accosta al Trono della Grazia, parla col Dio in ascolto che, per quanto sappia già cosa gli verrà detto, valuta ed esamina nel profondo ciò che è nel cuore e “sa di cosa abbiamo bisogno”, testimonia la Sua attenta valutazione di tutto ciò che chiediamo, altrimenti non troveremmo scritto di pregare incessantemente e rendere grazie “in ogni cosa”(1 Tessalonicesi 5.18). “Sa di cosa abbiamo bisogno”a differenza di noi. E ricordiamo che i discepoli parlavano col loro Maestro di tutto, perché tutto dev’essere vagliato secondo lo Spirito e non secondo la carne.
Tornando al re della parabola, leggiamo che “fece chiamare quell’uomo”: già qui abbiamo la previsione di un giudizio, questa volta inappellabile perché è l’uomo coi suoi atti che si condanna da solo e, nel nostro caso, lo fa dimostrando di disprezzare totalmente quanto ricevuto per grazia. La chiamata del re e le conseguenti disposizioni nei confronti di quel servo alludono chiaramente a qualcosa che si verifica dopo la morte, quando tutti si troveranno di fronte a Lui e non sarà possibile fare qualcosa per mutare ciò che si avrà fatto in vita: “Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto”. Se nell’antica Roma il debitore incarcerato era consegnato all’aguzzino per essere costretto al pagamento, in Oriente accadeva spesso che chi si dichiarava insolvente avesse dei tesori nascosti per cui la tortura veniva applicata per costringerlo a dichiarare dov’erano, o per suscitare la compassione degli amici affinché pagassero al suo posto. Sappiamo che, nel caso della parabola, quel “finché”non sarebbe mai arrivato perché “tutto il dovuto”non avrebbe mai potuto essere rifuso.
Su questa dinamica sono illuminanti le parole di 2 Tessalonicesi 1.6-9: “È proprio della giustizia di Dio ricambiare con afflizioni coloro che vi affliggono e a voi, che siete afflitti, dare sollievo insieme a noi, quando si manifesterà il Signore Gesù dal cielo, insieme agli angeli della sua potenza, con fuoco ardente, per punire quelli che non riconoscono Dio e quelli che non obbediscono al vangelo del Signore nostro Gesù. Essi saranno castigati con una rovina eterna, lontano dal volto del Signore e dalla sua gloriosa potenza”.
Arriviamo così al verso finale, che ci conferma quanto il perdono sia fondamentale perché è lì che si misura se ciò che ci è stato dato dal Signore è stato da noi assimilato realmente: “Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello”.Perdonare “di cuore”cioè non formalmente, senza mettendo da parte il ricordo del torto subito per poi farlo emergere al momento opportuno. Il vero perdóno dev’essere lo stesso di Dio, che disse “Io non mi ricorderò dei loro peccati”. Perdonare di cuore implica proprio coinvolgere quella parte di noi che il servo spietato si guardò bene da chiamare in causa, cioè procedere ad un esame di sé con riguardo specifico al vissuto e a quanto ricevuto. Perdonare di cuore significa essere imitatori di Dio, dimostrare di appartenergli, ma va sottolineato che va praticato nel momento in cui l’altro manifesta il proprio rincrescimento esattamente come nei due casi che abbiamo visto, perché quando interviene un’offesa – termine volutamente generico – viene interrotta una comunicazione fra persone che solo il responsabile dell’atto può ripristinare e non certo l’innocente coinvolto. Perché “il di più, viene dal maligno”. Amen.
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