11.39 – IL DISCORSO ECCLESIOLOGICO 10: IL CREDITORE SPIETATO (Matteo 18.23-35)


11.39 – Il discorso ecclesiologico 10, Il creditore spietato (Matteo 18. 23-35)

 

23Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi. 24Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti. 25Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. 26Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: «Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa».27Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito. 28Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: «Restituisci quello che devi!». 29Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: «Abbi pazienza con me e ti restituirò». 30Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito. 31Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. 32Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: «Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. 33Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?». 34Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto. 35Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello».

 

            Si tratta di una parabola che abbiamo già affrontato, citato più volte e che qui cercheremo di inquadrare aggiungendo nuovi elementi per andare oltre la semplicità del racconto che, per come è esposto e soprattutto con la frase conclusiva “Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello”, non ha apparentemente bisogno di commenti.

La prima sottolineatura la possiamo fare sulla parola “re”, che tutti traducono in modo identico forse perché scrivere “uomo re”, o “re uomo” come nel testo originale, disorienterebbe. Gesù quindi, introducendo la parabola, usa “è simile ad un re (umano)”a sottolineare che, per la semplicità dell’esempio che andrà a narrare, tutti sono in grado di comprenderlo.

Ora questo “re”, che in quanto tale decide autonomamente e soprattutto senza che nessuno possa opporsi, leggiamo “volle fare i conti coi suoi servi”, termine che non va inteso in senso generale, ma specifico in quanto chiaramente riferito a persone altolocate, di corte, come ministri o responsabili degli affari regali; qui il riferimento potrebbe essere a schiavi emancipati che, presso i monarchi orientali, venivano spesso elevati a cariche di fiducia e responsabilità, come avvenne con Daniele, costituito “…governatore di tutta la provincia di Babilonia e capo di tutti i saggi di Babilonia”(Daniele 2.48).

Riflettendo su quel “volle”possiamo dire che esprime, a parte la non possibilità di opposizione, repentinità e sorpresa da parte dei “servi”interessati, alcuni di loro preparati a un controllo sul loro operato ed altri no. Se Dio non fosse tale non sarebbe imprevedibile, tanto in benedizione quanto nel giudizio: ricordiamo la manifestazione ai 120 in Atti 2.2 o l’esperienza di Saulo da Tarso quando “…avvenne che, mentre era in viaggio e stava per avvicinarsi a Damasco, all’improvviso lo avvolse una luce dal cielo”(9.3) o ciò che avvenne a Filippi: “D’improvviso venne un terremoto così forte che furono scosse le fondamenta della prigione; subito si aprirono le porte e caddero le catene di tutti”. D’altro canto, abbiamo la realtà degli ultimi tempi, “Quando la gente dirà: «Pace e sicurezza!», allora, d’improvviso la rovina li colpirà, come le doglie di una donna incinta, e non potranno sfuggire”(1 Tessalonicesi 5.3). Pensiamo anche alla pioggia, ai venti e ai torrenti che si abbattono sulla casa costruita sulla sabbia senza che il costruttore non sapesse quando, all’avvertimento “Fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati”(Marco13.36) e ancora Luca 21.34: “State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso all’improvviso”.

A proposito dell’imprevedibilità di Dio va sottolineato che coglierà sempre impreparato chi sarà lontano da Lui, perché chi Lo frequenta può avere in mano gli elementi per capire le Sue dinamiche attraverso le promesse contenute nella Scrittura che contiene gli eventi passati, presenti e futuri. Ricordiamo che il diluvio colse di sorpresa tutti, ma non Noè e la sua famiglia, per non citare le parole di Dio in Genesi 18.19 prima della distruzione di Sodoma: “Terrò nascosto ad Abrahamo ciò che sto per fare?”. Anche gli eventi futuri descritti nell’Apocalisse, che riportano nei dettagli ciò che sta per accadere, sono qualcosa di chiuso per il mondo, ma non per coloro che appartengono a Dio.

Bene, il servo della parabola si trova scoperto: il re “Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti”. È già stato sottolineato che questa era una somma enorme, che qui Gesù consapevolmente pone all’attenzione dei discepoli per dare la misura prima del debito, e poi della grazia ricevuta tramite la sua remissione, entrambi – mi si passi il termine – irreali perché è al di fuori della comprensione umana sia che una persona possa distrarre così tanto senza che nessuno se ne possa accorgere, sia che un re possa lasciar passare impunito un simile affronto.

Quello che Gesù vuole qui mettere in risalto è la condizione di quel dignitario che, senza la remissione di quel debito chiesta con le parole “abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”, non avrebbe mai potuto rifondere l’intera somma coi suoi mezzi. La richiesta di pietà di quell’uomo è apparentemente qualcosa di inutile perché la Legge, tanto di Mosé che umana, stabiliva che il debitore potesse essere venduto come schiavo assieme ai suoi figli. Per il debitore insolvente che cadeva in quella misura, la Legge aveva poi il Giubileo, che ricorreva ogni cinquant’anni, con la quale questi veniva liberato, o l’anno sabatico ogni sette.

Questo “uomo re”, quindi, compie un gesto al di fuori della comprensione umana, rinunciando a rientrare in possesso della somma a lui sottratta o quanto meno ad avere soddisfazione mediante l’incarceramento del colpevole, dell’affronto ricevuto. E qui sta il motivo per cui Gesù parla di “uomo re”: quanto da lui raccontato è comprensibile a tutti, non c’è nessun mistero, ma una verità chiaramente rivelata, quella della pietà provata per una persona che non ne avrebbe avuto alcun diritto perché privo di attenuanti. Quel servitore, infatti, sapeva benissimo sia che avrebbe dovuto avere nei confronti del suo re un comportamento leale, quanto che presto o tardi vi sarebbe stato un momento in cui il suo operato, come quello degli altri, avrebbe subito una verifica. Viene infatti sempre, per un subordinato, il momento della valutazione del proprio lavoro.

La descrizione dell’atteggiamento di quell’uomo, “prostrato, lo supplicava”, indica tutto il suo sentimento: aveva il terrore di perdere tutto e arriva a fare una promessa che sapeva non avrebbe mai potuto mantenere perché quel “tutto”che prometteva di restituire era qualcosa di irrealizzabile. Ma fu perdonato anche se poi, come sappiamo, si comporterà nei confronti di un suo debitore con crudeltà e insensibilità ingiustificabili a fronte del trattamento che aveva ricevuto dal suo signore.

E qui abbiamo molti elementi da considerare, prima di tutto lo stato psicologico del personaggio: aveva sottratto una somma, aveva chiesto pietà e l’aveva ottenuta, ma poi tutto era tornato come prima, rimanendo completamente insensibile di fronte alla grazia ricevuta. A differenza di Dio, che legge nei cuori, quel re aveva agito per compassione, sentimento che porta chi lo prova ad immedesimarsi nella condizione di sofferenza e miseria in cui versa un suo simile. Compatire infatti significa “patire insieme”e quel re, di fronte al suo servo, lasciò la sua posizione di dominus assoluto, cui nulla era vietato, che tutto poteva perché tutto aveva, per immedesimarsi in suo sottoposto e nel sentimento che provava, poiché la paura di perdere ogni cosa – ricordiamo “ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva”– era assolutamente reale e aveva prodotto in lui un profondo sconvolgimento.

Avuto il perdono, però, tutto era tornato come prima, cioè quel servo era rimasto lo stesso di sempre, quindi stesse attitudini, stesso non senso del dovere, stessa insensibilità. Questo ci parla del fatto che quando un essere umano, convinto di peccato e quindi consapevole di avere un debito con Dio impossibile da rifondere se non chiedendo pietà, viene da Lui perdonato, solo il tempo darà dimostrazione del fatto che quanto ricevuto sarà stato compreso e avrà prodotto un cambiamento, trasformandolo in una persona diversa.

Ora il fatto che il servo infedele della parabola non fosse stato minimamente intaccato dall’eccezionalità rappresentata dalla remissione del debito ci porta a considerare che, in realtà, il suo invocare pietà era dettato dal fare di tutto per cercare di tamponare l’emergenza drammatica che si era venuta a creare, ma senza mettere minimamente in discussione la propria persona. Si tratta di un comportamento, un modo di essere comune, identico a tutti coloro che vivono per loro stessi, sempre pronti a individuare i torti, veri o presunti che subiscono, ma altrettanto disponibili a darli. Sono quelli che si impegnano con promesse e non le mantengono. Sono quelli che si rivestono di una giustizia che non hanno, che simulano, pronti a calpestare gli altri, ma a ribellarsi ad ogni minima ingiustizia che viene loro fatta, che chiedono sempre e non danno mai, forti con i deboli e deboli con i forti.

Leggiamo al verso 28 “quel servo trovò uno dei suoi compagni”, quindi un suo pari, ragione in più per cui avrebbe dovuto usare lo stesso comportamento che il re aveva avuto nei suoi confronti: non c’era la distanza tra suddito e sovrano, ma un rapporto paritario. Non solo, ma uno aveva distratto, l’altro aveva chiesto in prestito una somma che, per quanto importante, era assolutamente rifondibile qualora il creditore avesse avuto “pazienza”. E questo ci parla del fatto che, se fra Dio e l’uomo esiste una distanza incolmabile che viene appianata col perdóno, tra uomo e uomo c’è solo uguaglianza perché “tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio”, a meno che Lui stesso intervenga a rimuoverlo.

Vediamo nella parabola che, quando il servitore perdonato si mette ad affliggere il suo pari, ci sono altri pari grado che vanno ad informare il re dell’accaduto: non è difficile collegare questi a quei credenti, compagni di viaggio verso la “casa dalle molte stanze”, che nelle loro preghiere possono chiedere un intervento risolutore di Dio a fronte di comportamenti incompatibili con la funzione rivestita: come Gesù ha insegnato col “Padre nostro”, quando ci si presenta davanti al Signore, non necessariamente esiste solo la lode; anzi, conosciamo quel passo di Apocalisse 6.10 in cui le anime degli immolati per la Parola di Dio e la testimonianza che avevano resto dicono“Fino a quando, Sovrano, tu che sei santo e veritiero, non farai giustizia e non vendicherai il nostro sangue contro gli abitanti della terra?”. Quando un cristiano si accosta al Trono della Grazia, parla col Dio in ascolto che, per quanto sappia già cosa gli verrà detto, valuta ed esamina nel profondo ciò che è nel cuore e “sa di cosa abbiamo bisogno”, testimonia la Sua attenta valutazione di tutto ciò che chiediamo, altrimenti non troveremmo scritto di pregare incessantemente e rendere grazie “in ogni cosa”(1 Tessalonicesi 5.18). “Sa di cosa abbiamo bisogno”a differenza di noi. E ricordiamo che i discepoli parlavano col loro Maestro di tutto, perché tutto dev’essere vagliato secondo lo Spirito e non secondo la carne.

Tornando al re della parabola, leggiamo che “fece chiamare quell’uomo”: già qui abbiamo la previsione di un giudizio, questa volta inappellabile perché è l’uomo coi suoi atti che si condanna da solo e, nel nostro caso, lo fa dimostrando di disprezzare totalmente quanto ricevuto per grazia. La chiamata del re e le conseguenti disposizioni nei confronti di quel servo alludono chiaramente a qualcosa che si verifica dopo la morte, quando tutti si troveranno di fronte a Lui e non sarà possibile fare qualcosa per mutare ciò che si avrà fatto in vita: “Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto”. Se nell’antica Roma il debitore incarcerato era consegnato all’aguzzino per essere costretto al pagamento, in Oriente accadeva spesso che chi si dichiarava insolvente avesse dei tesori nascosti per cui la tortura veniva applicata per costringerlo a dichiarare dov’erano, o per suscitare la compassione degli amici affinché pagassero al suo posto. Sappiamo che, nel caso della parabola, quel “finché”non sarebbe mai arrivato perché “tutto il dovuto”non avrebbe mai potuto essere rifuso.

Su questa dinamica sono illuminanti le parole di 2 Tessalonicesi 1.6-9: “È proprio della giustizia di Dio ricambiare con afflizioni coloro che vi affliggono e a voi, che siete afflitti, dare sollievo insieme a noi, quando si manifesterà il Signore Gesù dal cielo, insieme agli angeli della sua potenza, con fuoco ardente, per punire quelli che non riconoscono Dio e quelli che non obbediscono al vangelo del Signore nostro Gesù. Essi saranno castigati con una rovina eterna, lontano dal volto del Signore e dalla sua gloriosa potenza”.

Arriviamo così al verso finale, che ci conferma quanto il perdono sia fondamentale perché è lì che si misura se ciò che ci è stato dato dal Signore è stato da noi assimilato realmente: “Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello”.Perdonare “di cuore”cioè non formalmente, senza mettendo da parte il ricordo del torto subito per poi farlo emergere al momento opportuno. Il vero perdóno dev’essere lo stesso di Dio, che disse “Io non mi ricorderò dei loro peccati”. Perdonare di cuore implica proprio coinvolgere quella parte di noi che il servo spietato si guardò bene da chiamare in causa, cioè procedere ad un esame di sé con riguardo specifico al vissuto e a quanto ricevuto. Perdonare di cuore significa essere imitatori di Dio, dimostrare di appartenergli, ma va sottolineato che va praticato nel momento in cui l’altro manifesta il proprio rincrescimento esattamente come nei due casi che abbiamo visto, perché quando interviene un’offesa – termine volutamente generico – viene interrotta una comunicazione fra persone che solo il responsabile dell’atto può ripristinare e non certo l’innocente coinvolto. Perché “il di più, viene dal maligno”. Amen.

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11.38 – IL DISCORSO ECCLESIOLOGICO 9: SETTANTA VOLTE SETTE (Matteo18.21,22)

11.38 – Il discorso ecclesiologico 9, settanta volte sette (Matteo 18. 21,22)

 

21Allora Pietro gli si avvicinò e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». 22E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.

 

            Leggendo anche velocemente i versi precedenti notiamo che i discepoli, pur ascoltando con attenzione le parole del loro Maestro, compresero l’importanza del perdóno, ma non quelle della preghiera comunitaria soprattutto riguardo l’ultima frase, “Perché dove due o tre sono riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro”. Infatti Pietro, colpito dal discorso sulla “colpa”commessa da un fratello e sulle iniziative da attuare per regolarla, si chiese se vi fosse un limite a questo, visto che Gesù non lo aveva specificato. Probabilmente l’apostolo aveva presente che il Talmud prescriveva che si dovesse perdonare non più di tre volte, deduzione tratta da Amos 2.4-6 e Giobbe 33.29,30: “Così dice il Signore: «Per tre misfatti di Giuda e per quattro non revocherò il mio decreto di condanna, perché hanno rifiutato la legge del Signore e non ne hanno osservato i precetti, si sono lasciati traviare dagli idoli che i loro padri avevano seguito. Manderò il fuoco a Giuda e divorerà i palazzi di Gerusalemme». Così dice il Signore: «Per tre misfatti d’Israele e per quattro non revocherò il mio decreto di condanna, perché hanno venduto il giusto per denaro e il povero per un paio di sandali, essi che calpestano come la polvere della terra la testa dei poveri, e fanno deviare il cammino dei miseri, e padre e figlio vanno dalla stessa ragazza, profanando così il mio santo nome»”. Qui vediamo che è il quattro a determinare l’irrevocabilità del “decreto di condanna”. Il passo citato di Giobbe poi parla dell’esperienza del giusto: “Egli si rivolgerà agli uomini e dirà: «Avevo peccato e violato la giustizia, ma egli non mi ha ripagato per quello che meritavo, mi ha scampato dal passare per la fossa e la mia vita contempla la luce». Ecco, tutto questo Dio fa due, tre volte per l’uomo, per far ritornare la sua anima dalla fossa e illuminarla con la luce dei viventi”.

Pietro, quindi, conoscendo il significato del numero tre e consapevole dell’importanza del perdóno quale metodo per il mantenimento della vita fraterna, spontaneamente interpreta la quantità di volte in cui una colpa può venire rimessa fino a sette, cifra che allude alla perfezione più del tre: tre è il numero di Dio, quattro è quello dell’uomo e sette è la loro somma dalla quale si deduce facilmente che è lì che si trova la completezza dei due elementi, poiché la creazione è stata fatta in funzione dell’essere umano e per la sua vita, che doveva essere eterna anche sul pianeta creato. L’apostolo aveva allora capito non solo l’importanza del perdóno, ma anche quanto fosse importante, fondamentale esercitarlo non alla luce degli scritti antichi, ma di quel periodo nuovo che sarebbe sfociato nella dispensazione della Grazia che il suo Maestro stava istituendo. Ricordiamo le parole in Luca 17.4, che completano le parole di Matteo in cui il sette è usato per indicare un numero indefinito di volte: “Se il tuo fratello commetterà una colpa, rimproveralo; ma se si pentirà, perdonagli. E se commetterà una colpa sette volte al giorno contro di te e sette volte ritornerà a te dicendo: «Sono pentito», tu gli perdonerai»”. Da notare anche i tre “se”, riferiti ad eventualità che portano colpa e pentimento, e il “ma”a lui connesso che modifica la posizione di chi ha agito male.

Nel racconto di Matteo, invece, è Gesù a intervenire con Pietro, e per riflesso su tutti gli altri. Lo fa rispondendo numericamente escludendo che il perdóno fosse qualcosa di cui tenere la contabilità: “settanta volte sette”dà come risultato 490, cifra non impossibile da annotare, ma il cui significato si comprende da ciò che il 70 e il 7 significano. Spesso accade, in questi scritti, di riflettere sui numeri per cui, essendo un tema trattato basilarmente, possiamo lavorare sul settanta, importante perché prodotto del 7×10, cioè della cifra della perfezione come 3+4 e, per il 10, di ciò che il Signore si aspetta dall’uomo. Ciò raffigurato dai comandamenti in cui, anche lì, abbiamo una cifra importante, essendovene 4 per la relazione con YHWH e 6 tra esseri umani, che diventano così dieci.

Il settanta è un numero non semplice a svilupparsi, perché contiene significati a volte opposti tra loro, implica tanto benedizione quanto un giudizio di Dio, oltre ad altri elementi: abbiamo infatti le parole di assurda rivendicazione di Lamec, figlio di Caino, che ponendosi in una posizione che non aveva dichiarò che “Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamec settanta volte sette”(Genesi 4.24), non “settantasette”come altri traducono. Ricordiamo sempre in proposito che il male è una forza che spinge chi lo commette a non fermarsi e questo si trasmette alla sua discendenza: l’omicida di Abele, accecato non tanto dall’invidia e dall’odio, ma a monte da un Io spropositato, generò un individuo che giungerà addirittura a voler rivaleggiare con Dio sulla terra.

Ricordiamo il settanta come numero di condizione perché il Signore lo moltiplichi, come nel caso della famiglia di Giacobbe che entrò in Egitto con questa quantità di persone che componevano la sua famiglia “tutte le persone della famiglia di Giacobbe che entrarono in Egitto, ammontano a settanta”(Genesi 47.27) e, a sottolineare l’importanza del lutto conseguente alla morte del patriarca, tali furono i giorni in cui lo piansero (50.3).

Ancora, da tenere presente Esodo 15.27 e Numeri 33.9 a proposito dell’oasi di Elim: lì il popolo si ritrovò dopo essere uscito dall’Egitto, quando “Partirono da Mara e giunsero ad Elim; ad Elim c’erano dodici sorgenti di acqua e settanta palme; qui si accamparono”. Qui alcuni intravedono gli apostoli e i settanta(due) discepoli inviati in missione da Gesù, anche se a mio parere con questi numeri vengono ricordati al tempo stesso l’amore e la potenza progettuale di Dio per il Suo popolo, che allora lo doveva rappresentare sulla terra, e quello che si sarebbe costituito un giorno.

Sempre restando negli scritti dell’Antico Patto, ricordiamo la risposta alla preghiera di Mosè quando, non riuscendo più a gestire efficacemente le questioni del popolo lui affidato – ricordiamo le sue parole, “Non posso io da solo portare il peso di tutto questo popolo, è troppo pesante per me”–  ebbe questa risposta: “Radunami settanta uomini tra gli anziani di Israele, conosciuti da te come anziani del popolo e come loro scribi, conducili alla tenda del convegno; vi si presentino con te. Io scenderò e lì parlerò con te; toglierò dello spirito che è su di te e lo porrò su di loro, e porteranno insieme a te il carico del popolo e tu non lo porterai più da solo”. Anche qui vediamo il settanta come premessa perché Dio – e non certo l’uomo – agisca.

Settanta è anche un limite, elemento su cui meditare per mettersi alla ricerca di ciò che è al di là, l’oltre, come in Salmo 90.10: “Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti; e il loro agitarsi è fatica e delusione; passano presto e noi voliamo via”. Guardando a questa cifra, allora, vediamo il limite severo all’esistenza orizzontale, riassunta nella “fatica e delusione”, nel passare “presto”, cosa che accadrebbe anche se gli anni venissero moltiplicati perché l’uomo, quando è incapace di misurare i propri giorni alla luce dello Spirito, di essi non sa che farsene e la prova concreta di ciò la vediamo nel fatto che rifiuta l’idea della morte.

Abbiamo parlato all’inizio del settanta come giudizio, ma in realtà questo termine così immediato si addice a lui solo in parte, comprendendo sì un provvedimento negativo di Dio – ricordiamo le parole di Geremia 25.11 “Tutta questa regione sarà distrutta e desolata e queste genti serviranno il re di Babilonia per settant’anni”–, ma anche il tempo fissato perché il Progetto del Regno si compia, con la gioia o la disperazione degli uomini a seconda di dove avranno scelto di collocarsi, come detto a Daniele dall’Angelo Gabriele in 9.24, “Settanta settimane sono fissate per il tuo popolo e per la tua santa città per mettere fine all’empietà, mettere i sigilli ai peccati, espiare l’iniquità, stabilire una giustizia eterna e suggellare visione e profezia e ungere il Santo dei Santi”.

Questi, in sintesi, sono i versi che mi sento di applicare al numero oggetto di riflessione. In realtà ce ne sono molti di più, ma tutti raggruppabili sotto le categorie base che abbiamo esaminato. “Settanta volte sette”è allora il tutto, il possibile, il finito che non ha un limite perché, sotto questo aspetto, esercitare il perdono equivale a entrare, se vogliamo, in un percorso circolare: “Se perdonerete agli altri le loro colpe– che avranno riconosciuto –, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche voi; ma se non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe”(Matteo 6.14,15). Anche qui, allora, torniamo ad un aspetto del “legare”e “sciogliere”, del “rimettere i peccati”oppure no, azioni che non hanno nulla a che vedere con la permalosità di un individuo che, se presente in lui, necessita di rivedere molti aspetti della sua vita perché, a prescindere dall’età che possa avere, non ha ancora abbandonato quegli elementi che lo caratterizzavano da bambino. Il concetto di Matteo 6, quindi appartenente al sermone di Gesù sul monte, fu da lui specificato in Marco11.25,26: “Quando vi mettete a pregare, se avete qualcosa contro qualcuno, perdonate, perché anche il Padre vostro che è nei cieli perdoni a voi le vostre colpe”dove il “perdonate”significa porsi in attesa che la controparte si penta, pregando per lei, e non conservare astio o sentimenti di offesa nei suoi confronti.

Concludendo, il “settanta volte sette”dato da Nostro Signore in risposta alla domanda di Pietro, ci parla dell’atteggiamento naturale che deve avere il cristiano di fronte alla richiesta di perdóno, che va dato dimenticando l’accaduto, senza conservarlo per recriminazioni successive anche quando chi è stato già perdonato, eventualmente, ricommette lo stesso errore. Ricordiamo la frase in Isaia 43.25 “Io, io cancellerò i tuoi misfatti per amore di me stesso e non ricorderò più i tuoi peccati”.E chi porrà un punto fermo su tutto questo sarà l’apostolo Paolo che, scrivendo ai credenti della Chiesa di Roma, in 12.21, inviterà a provvedere in merito con le parole “Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene”. Amen.

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11.37 – IL DISCORSO ECCLESIOLOGICO 8: CONCORDIA E PRESENZA (Matteo18.18.20)

11.37 – Il discorso ecclesiologico 8, concordia e presenza (Matteo 18. 18-20)

 

18In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo. 19In verità io vi dico ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà. 20Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro.

 

            Riportiamo il verso 18, affrontato nello scorso capitolo, perché strettamente connesso ai due successivi: qui Gesù mostra la Sua Chiesa come un organismo che agisce sotto un’autonomia responsabile, in Sua assenza fisica, fedele ai suoi compiti perché animato dal di Lui timore, termine che, più che alla paura, fa riferimento alla consapevolezza della Persona con la quale si ha a che fare: Gesù non si può ingannare e il fatto che “scruti i nostri pensieri”e dia “la giusta retribuzione”a seconda di come operiamo credo basti. Una Comunità i cui membri hanno cercato e trovato, hanno abbandonato gli elementi del mondo in modo tale che non ne sono più dominati, cui preme una fedeltà reale e non nominale alla Parola di Dio, potrà veramente “legare” e “sciogliere”, ma anche realizzare la promessa del verso successivo, sostenuta dall’Amen di Cristo: “In verità io vi dico ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà”.

Cercando ora di esaminare queste parole possiamo fare la prima sottolineatura, a parte sull’autorevolezza rappresentata dall’ ”amen”, sull’indicazione del luogo, “sulla terra”, qui usata per ricordare tanto la distanza quanto la vicinanza di Dio al Suo popolo nonostante le dimensioni che caratterizzano entrambi, la “terra”e il “cielo”, perché“In un luogo eccelso e santo io dimoro, ma sono anche con gli oppressi e gli umiliati, per ravvivare lo spirito degli umili e rianimare il cuore degli oppressi”(Isaia 57.15). E il ponte tra le due identità, uomo e Dio, è lo Spirito Santo. In un precedente capitolo, riguardo ai differenti luoghi in cui entrambe operano, è stato ricordato il verso “Non essere precipitoso con la bocca e il tuo cuore non si affretti a proferire parole davanti a Dio, perché Dio è in cielo e tu sei sulla terra; perciò siano poche le tue parole”(Ecclesiaste – o Qoèlet – 5.1).

Veniamo ora alla premessa espressa nel verso 19, purtroppo interpretata alla lettera da molti intendendo quel “qualunque cosa”come ciò che è a loro capriccio, riconoscendo a questa espressione un potere quasi magico, ma dimenticandosi che le parole di Gesù, non solo qui, vanno lette in senso spirituale, quello che allora gli Apostoli né i discepoli erano in grado di fare. Non è escluso che loro stessi, ascoltandole, le abbiano interpretate in questo modo, ma furono poi da loro inquadrate correttamente una volta disceso lo Spirito Santo.

Vediamo ora le promesse di Nostro Signore in tal senso, fermo restando che si tratta di un impegno preciso che Lui stesso si assume. Il primo passo è rivolto a tutti gli uomini e donne alla Sua ricerca: “Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve, e chi cerca trova, e a chi bussa sarà aperto”(Matteo 7.7). Si tratta di un appello a non desistere, a chiedere, cercare e bussare, tutte azioni che denotano uno stato di necessità dimostrato da chi lo compie. Soprattutto una volta trovato e che ci è stato aperto, ecco il chiedere come pratica costante, poiché tutto il verso è caratterizzato da una libertà incondizionata in quanto non viene indicato un limite massimo di volte in cui chiedere o bussare. Dio ha un ufficio, o un “negozio” dove comprare “senza denari e senza prezzo”che non è aperto “dalle – alle”, ma sempre.

Promesse importanti le troviamo in (Matteo) 21.22 “…e tutto ciò che chiederete con fede nella preghiera, lo otterrete”e in Giovanni 14.13, stretto parente del verso che stiamo esaminando: “Qualunque cosa chiederete nel mio nome, la farò, perché il Padre sia glorificato nel Figlio. Se mi chiederete qualcosa nel mio nome, io la farò”. Anche qui abbiamo “qualunque cosa”, ma anche “nel mio nome”, precisazione che sostiene la responsabilità che ci assumiamo nella preghiera che in molte assemblee cristiane si usa concludere così quasi come una forma rituale, purtroppo spesso dimenticando che “nel nome di Gesù” è compreso ciò che Lui approva ed è, quindi è riferita al cammino sotto la Sua guida. Infatti così scrive l’apostolo Giovanni nella sua prima lettera: “Se il nostro cuore non ci rimprovera nulla, abbiamo fiducia in Dio, e qualunque cosa chiediamo, la riceviamo da lui perché osserviamo i suoi comandamenti e facciamo quello che gli è gradito”. E qui troviamo delle prime tracce, delle indicazioni viste in quel “se”, che tante volte e non solo qui viene sottovalutato, quando in realtà un “se”nella vita del cristiano c’è sempre ed è quello che fa la differenza in tante circostanze che lo riguardano.

Cominciamo così a mettere a fuoco il significato di quanto promesso da Gesù anche in 5.14,15: “E questa è la fiducia che abbiamo in lui: qualunque cosa gli chiediamo secondo la sua volontà, egli ci ascolta. E se sappiamo che ci ascolta in tutto quello che gli chiediamo, sappiamo di avere già da lui quanto gli abbiamo chiesto”. Credo che qui sia quel “secondo la sua volontà”a determinare la risposta, che certo può valere anche per le nostre esigenze materiali, perché altrimenti la preghiera del “Padre Nostro”non sarebbe stata insegnata. In Giacomo 5.14-18 leggiamo “Chi tra voi è nel dolore, preghi; chi è nella gioia, canti inni di lode. (…) molto potente è la preghiera efficace del giusto”. Prima di pregare, quindi, è necessario un esame, per vedere se possiamo accostarci al Padre considerati come aventi diritto a farlo, secondo la Sua Parola oppure no, e in questo caso porvi rimedio. Giacomo poi passa a descrivere la preghiera del singolo citando un esempio illustre: “Elia era un uomo come noi: pregò intensamente che non piovesse, e non piovve sulla terra per tre anni e sei mesi. Poi, pregò di nuovo e il cielo diede la pioggia e la terra produsse il suo frutto”,anche qui riferita ad un fatto di testimonianza e non perché Elia si servisse di quel miracolo per fini personali.

Mi sono chiesto se, negli scritti del Nuovo Patto, fosse possibile trovare una conferma al verso in esame, vale a dire la promessa dell’esaudimento di una preghiera della Comunità concorde, caratteristica che aveva appunto la prima Chiesa come in Atti 1.14: “Tutti questi– a quel tempo gli undici – erano perseveranti e concordi nella preghiera, insieme ad alcune donne e a Maria, la madre di Gesù, e ai fratelli di lui”. Ebbene, leggiamo 12. 5-12 che riferisce un episodio avvenuto tempo dopo: “Mentre Pietro era in carcere, dalla Chiesa saliva incessantemente a Dio una preghiera per lui. In quella notte, quando Erode stava per farlo comparire davanti al popolo, Pietro, piantonato da due soldati e legato con due catene, stava dormendo, mentre davanti alle porte le sentinelle custodivano il carcere. Ed ecco, gli si presentò un angelo del Signore e una luce sfolgorò nella cella. Egli toccò il fianco di Pietro, lo destò e disse: «Àlzati, in fretta!». E le catene gli caddero dalle mani. L’angelo gli disse: «Mettiti la cintura e légati i sandali». E così fece. L’angelo disse: «Metti il mantello e seguimi!». Pietro uscì e prese a seguirlo, ma non si rendeva conto che era realtà ciò che stava succedendo per opera dell’angelo: credeva invece di avere una visione.Essi oltrepassarono il primo posto di guardia e il secondo e arrivarono alla porta di ferro che conduce in città; la porta si aprì da sé davanti a loro. Uscirono, percorsero una strada e a un tratto l’angelo si allontanò da lui. Pietro allora, rientrato in sé, disse: «Ora so veramente che il Signore ha mandato il suo angelo e mi ha strappato dalla mano di Erode e da tutto ciò che il popolo dei Giudei si attendeva». Dopo aver riflettuto, si recò alla casa di Maria, madre di Giovanni, detto Marco, dove molti erano riuniti e pregavano”.

 

Altra domanda che ci possiamo fare è se esista differenza fra la preghiera del singolo e quella comunitaria, e la risposta va inquadrata in modo direttamente proporzionale al progetto esistente, poiché ciascun credente è testimone dell’aiuto multiforme che riceve da Dio individualmente, ma la Chiesa, quindi tutti i suoi membri, hanno dovere di pregare per il suo sviluppo e perché possano testimoniare in modo efficace, più opportuno, per portare delle anime a Cristo. Ecco perché abbiamo letto recentemente che, dopo la preghiera Comunitaria, tremarono i muri del luogo in cui la Chiesa era ospitata.

Può essere di consolazione sapere che la preghiera ha una funzione temporanea, vale a dire fino a quando saremo presenti su questa terra, come dalle parole che Gesù disse ai Suoi: “Così anche voi, ora, siete nel dolore; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà, e nessuno potrà togliervi la vostra gioia. Quel giorno non mi domanderete più nulla”(Giovanni 16.22,23). E qui Nostro Signore parla tanto di quando si manifesterà a loro dopo la sua risurrezione, quanto dell’incontro finale dei credenti con Lui.

Veniamo così al verso 20 in cui Gesù espone una verità allora in forma embrionale, “dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”, che completa un altro passo, quello relativo alla missione data ai discepoli “Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”(Matteo 28.20.

Gesù è allora con il singolo, sempre, ma la Sua presenza si realizza nella Chiesa composta dai “due o tre”in poi. Sappiamo già della differenza con la Sinagoga, che di persone ne richiedeva almeno dieci, lasciando in tal modo sguarniti quei piccoli centri isolati dove gli israeliti non potevano riunirsi se in numero inferiore a quello prescritto, ma senza realizzare un’assemblea. E sappiamo che la Sinagoga non era un centro culturale, ma quello in cui le persone si riunivano per essere istruite dai Maestri nella Legge, nei Profeti e negli altri libri.

Ebbene, la Chiesa è tale anche con due persone, cui spetta la responsabilità di pregare perché il Signore voglia farla crescere, cosa che certamente avverrà se lo spirito di servizio e la concordia animeranno questo primo nucleo che sarà in grado non di far proseliti, ma di vivere, progredire e soccorrere quelle anime alla ricerca di Dio. Ecco allora che anche Marco 11.24, “Tutto quello che chiedete nella preghiera, abbiate fede di averlo ottenuto e vi accadrà”, alla luce dello sviluppo che abbiamo fatto, implica la consapevolezza di cosa si chiede: la risposta del Padre non potrà mancare proprio perché la Chiesa avrà posto le premesse per la realizzazione dell’esaudimento. Sono convinto che questo, e non altro, rientri nel “qualunque cosa”che verrà ottenuto dal Padre. E che il resto, avendo cercato prima il “Regno di Dio”, verrà dato in aggiunta. Amen.

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11.36 – IL DISCORSO ECCLEIOLOGICO 7: IL RAPPORTO FRATERNO II (Matteo 18.15-18)


11.36 – Il discorso ecclesiologico 7, il rapporto fraterno II (Matteo 18. 15-18)

 

15Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; 16se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni.17Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano. 18In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo.

 

            Prima di affrontare questa seconda parte, che inizia dal verso 16, occorre ricordare che quanto esposto da Nostro Signore è solo in apparenza una procedura da seguire letteralmente perché, se si guardasse solo a quella, faremmo di queste parole un manuale di istruzioni e perderemmo di vista la sostanza, volta al recupero della persona che ha agito in maniera inopportuna nei confronti di un fratello, o sorella, oltre che a fare emergere lo spirito che la anima concretamente. Scopo di quanto descritto è quello di responsabilizzare il soggetto di fronte a un errore che solo la dinamica dell’episodio potrà determinare, ad esempio, come volontario o involontario, giustificato oppure no, come quell’ “adiratevi e non peccate”citato nel capitolo scorso in cui l’ira o lo sfogo in un determinato contesto non è visto come qualcosa di illegittimo, mentre lo è quando avviene in modo incontrollato.

Ricordiamo le parole del verso 11, “se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello”, collegabile a Proverbi 9.7-9 e 15.12: “Chi corregge il beffardo si attira insulti, chi riprende l’empio riceve affronto. Non riprendere il beffardo, per evitare che ti odi; riprendi il saggio, e ti amerà. Istruisci il saggio, e diventerà più saggio che mai; insegna al giusto e accrescerà il tuo sapere”. Spiega il principio il secondo passo, “Il beffardo non ama che altri lo riprenda; egli non va dai saggi”. Anche qui, oltre a venire rimarcato l’abisso che separa chi appartiene all’una o all’altra categorie di persone, abbiamo la possibilità di raccordarci alle parole di Gesù in esame, tese, come detto, a far emergere lo spirito della persona perché, in sostanza, “il saggio”è impossibile che non ascolti un’osservazione obiettiva e ragionata di un fratello, o di questo accompagnato dai “due o tre testimoni”qualora il primo tentativo non raggiunga il risultato sperato.

Le parole “prendi con te una o due persone”è poi un chiaro riferimento a Deuteronomio 19.15: “Un solo testimone non avrà valore contro alcuno, per qualsiasi colpa e per qualsiasi peccato; qualunque peccato uno avrà commesso, il fatto dovrà essere stabilito sulla parola di due o tre testimoni”ed ecco perché, prima di dirlo “alla comunità”, è necessaria la presenza di più persone al confronto con chi ha commesso l’errore. Possiamo osservare che la testimonianza di più persone, all’epoca della Legge, contribuiva a rendere il fatto concreto potendo ogni testimone nella possibilità di riferire particolari e dettagli che magari erano sfuggiti ad un altro; ciò avveniva in modo più o meno concorde, da valutarsi da parte di chi era chiamato a giudicare quanto realmente avvenuto.

Trasportando poi il verso di Deuteronomio alle parole di Gesù, la presenza dei testimoni non ci parla di un processo in atto, cioè del fatto che i “due o tre”svolgano una semplice presenza per poi riferire quanto accaduto, ma di un fatto costruttivo: la loro partecipazione è giustificata dal fatto che il primo tentativo di conciliazione non ha avuto l’esito sperato, ma è richiesta la presenza di persone mature, “abituate a discernere il bene dal male”e pertanto in grado di esprimere pareri e consigli tesi a redimere la questione. I “testimoni”in questione, quindi, non sono chiamati a registrare ogni parola tenendosi in disparte, ma a rendersi conto delle ragioni dell’uno e dell’altro, valutare lo spirito che muove entrambi senza parteggiare per nessuno dei due, chiamati a valutare anche in previsione di quanto verrà poi riferito alla Chiesa. Il fatto che i testimoni siano parte attiva in questa operazione è confermato dal verso 17, e cioè “se disdegna di ascoltarli, dillo alla Chiesa”: “ascoltarli”, non “riceverli”.

Credo sia importante sottolineare che questa procedura è ben lontana da quella prevista per una querela o a un processo per calunnia che si celebra nei nostri tribunali, ma a difesa di quell’equilibrio che, se viene a mancare in una Chiesa o Comunità, la rende inevitabilmente sterile e la porta poco a poco allo spegnimento, come dalle parole di Apocalisse 2.5 in cui leggiamo “Se non ti convertirai, verrò a te e toglierò il tuo candelabro dal suo posto”. Quando infatti una Chiesa è animata da spirito di parte e non da quello Santo, quando il compromesso e il portare avanti posizioni umane non viene combattuto in egual misura da tutti i suoi membri, ecco che arriva il fallimento, l’incapacità di testimoniare e predicare il Vangelo di Gesù Cristo. Ed ecco perché, quando una Chiesa si raduna, è richiesto che ogni suo componente si misuri alla luce di Esodo 23.15, 34.20, Deuteronomio 15.13 e 16.16, tutti riportanti il medesimo concetto – si noti che i versi sono quattro –: ”Non si dovrà comparire davanti a me a mani vuote”, cioè prive di un frutto che siamo chiamati a portare continuamente perché è nell’Assemblea che il Signore è presente secondo la Sua promessa e scruta i cuori per vedere chi si presenta a Lui degnamente.

L’Assemblea cristiana infatti non si concreta né si può realizzare, risolvere in un rito religioso, ma nel contributo spirituale che ciascuno porta, nel desiderio di incontro e sostegno tra fratelli e sorelle che non fanno parte di un ordine o un’associazione più o meno benefica, ma adorano “in spirito e verità”Dio Padre e Gesù Cristo. Purtroppo, molti oggi hanno perso di vista questo principio e così le Chiese poco a poco si spengono a livello non solo di comunione fraterna, ma soprattutto nei confronti della potenza del Vangelo. Ricordiamo quanto si verificò in Atti 4.31: “Quando ebbero terminato la preghiera, il luogo in cui erano radunati tremò e tutti furono ripieni di Spirito Santo e annunziavano la parola di Dio con franchezza”.E sottolineiamo che tale manifestazione avvenne dopo una preghiera molto particolare, in cui si richiedeva l’assistenza perché il Vangelo fosse annunciato: “E ora, Signore, volgi lo sguardo alle loro minacce– Erode, Pilato e Israele – e concedi ai tuoi servi di proclamare con tutta franchezza la tua parola, stendendo la tua mano affinché si compiano guarigioni, segni e prodigi nel nome del tuo santo servo Gesù”. I presenti, cioè, si preoccuparono del recupero di quanti avrebbero creduto grazie al porgere il Vangelo nei modi opportuni per ciascuno e non dei loro problemi personali, come sappiamo fece Salomone quando, guardando alla sua persona e riconoscendosi mancante di sapienza per reggere il governo del suo popolo, la chiese, come più volte ricordato.

Tornando al nostro testo, vediamo la terza ed ultima soluzione nel caso la questione tra i due interessati non possa venire risolta: “Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità, e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano o il pubblicano”. Anche qui la Chiesa, o Comunità, è vista non come un organismo che difende i torti o le ragioni, ma guarda al principio, valuta i pro e i contro in modo spirituale per rimuovere quanto si è venuto a creare nell’interesse non di una norma, ma delle ragioni che hanno portato alla sua istituzione. E la Comunità è qui vista non a livello di insieme completo, ma di quei credenti ancora una volta in grado di esprimere un giudizio maturo e responsabile, come raccomandato più volte nelle lettere di Paolo, già applicato dagli Apostoli nella primitiva Chiesa. Abbiamo parlato di offese, ma teniamo presente che queste comprendono uno spazio molto più ampio di argomenti, come possono essere delle posizioni dottrinali che una persona può assumere, in contrasto a quanto stabilito unitariamente; ricordiamo ad esempio Atti 15.6 quando, a fronte dell’affermazione in base alla quale la circoncisione dovesse essere applicata a chi si convertiva, leggiamo “Allora si riunirono gli apostoli e gli anziani per esaminare questo problema”.

Un verso che fa da “ponte” ed amplia la panoramica della “colpa”circa gli equilibri che la Chiesa è chiamata a difendere è da vedersi in Romani 16.17,18 “Vi raccomando poi, fratelli, di guardarvi da coloro che provocano divisioni e ostacoli contro l’insegnamento che avete appreso: tenetevi lontani da loro. Costoro, infatti, non servono Cristo Nostro Signore, ma il proprio ventre e, con belle parole e discorsi affascinanti, ingannano il cuore dei semplici”. “Belle parole e discorsi affascinanti”sono collegati a quei concetti che possono suscitare la curiosità istintiva umana e interpretano, altrettanto umanamente, contenuti spirituali servendo il realtà “il proprio ventre”, espressione che si riferisce a ciò che non ha a che vedere neppure con la semplice intelligenza. Questi ragionamenti, come scritto da Paolo, “ingannano il cuore dei semplici”, cioè di coloro che stanno imparando e sono molto più vulnerabili rispetto a chi ha già effettuato un percorso di fede e confronto con la Parola di Dio.

“Sia per te come il pagano e il pubblicano”è una frase forte, che non necessita di un gran commento, poiché sappiamo che per gli ebrei tanto l’uno che l’altro erano persone ritenute impure e con le quali nessuno aveva a che fare.

È invece meritevole di attenzione l’ultimo verso, il 18, perché stabilisce l’autorità data alla Chiesa, guidata dallo Spirito Santo nel “legare”o “sciogliere”, espressione che sta a significare rendere legale o illegale una cosa oltre che porre dei vincoli, aprire o chiudere una posizione dottrinale proprio come, ad esempio, fecero gli apostoli con l’esempio di Atti 15.6 che abbiamo citato, poi risolto ai versi 19 e 20. La Chiesa è allora chiamata a intervenire, come “colonna e sostegno della verità”, in tutte quelle questioni che ogni credente può sempre porre per i problemi più svariati, e dare delle risposte e provvedimenti perché altrimenti non sarebbe tale nel senso che, non agendo, dimostrerebbe di non avere un mandato. E qui si apre un discorso assolutamente vasto, credo impossibile a svilupparsi in poco né in molto spazio. “Legare”o “Sciogliere”è una responsabilità che possono assumersi in pochi, al contrario di quanto spesso avviene perché la vera sottomissione al Signore e allo Spirito è cosa rara e le “chiavi”verranno consegnate a Pietro solo dopo la discesa dello Spirito Santo e una sua provata maturazione, non prima. Ora, vediamo che queste vengono date anche alla Chiesa, ma quanti oggi sono in grado di usarle? Ricordiamo anche Giovanni 20.23, “A coloro cui perdonerete i peccati, saranno perdonati, a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati”che ha stretta attinenza con quanto esaminato e non può essere applicato alla confessione auricolare, ma rientra proprio con quanto fin qui esaminato. E il perdono è una cosa molto seria, che comprende tante situazioni che comportano il pentimento perché questo possa verificarsi perché altrimenti si cadrebbe “…sotto il potere di Satana, di cui non ignoriamo le intenzioni”(2 Corinti 2.11).

Concludendo: quando la Chiesa stabilisce che una persona debba essere considerata “come il pagano o il pubblicano”significa che quella, per le posizioni assunte di fronte a lei e non tanto di fronte a un fratello a seguito di una semplice contesa o torto, non è in possesso di quelle caratteristiche interne che portano inevitabilmente un frutto di amore, pace e fedeltà alla Parola.

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