11.30 – IL DISCORSO ECCLESIOLOGICO 1: I BAMBINI E GLI SCANDALI (Matteo 18.1-7)

11.30 – Il discorso Ecclesiologico 1: i bambini e gli scandali (Matteo 18.1-7)

 

1 In quel momento i discepoli si avvicinarono a Gesù dicendo: «Chi dunque è più grande nel regno dei cieli?». 2Allora chiamò a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro 3e disse: «In verità io vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. 4Perciò chiunque si farà piccolo come questo bambino, costui è il più grande nel regno dei cieli. 5E chi accoglierà un solo bambino come questo nel mio nome, accoglie me.6Chi invece scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, gli conviene che gli venga appesa al collo una macina da mulino e sia gettato nel profondo del mare. 7Guai al mondo per gli scandali! È inevitabile che vengano scandali, ma guai all’uomo a causa del quale viene lo scandalo!

 

            Per ragioni di spazio e per non appesantire queste letture che credo non facili, non è stato detto che la questione su chi fra i discepoli fosse il maggiore provocò un insegnamento molto più articolato di Gesù, rivolto strettamente a loro, noto come “discorso Ecclesiologico” che affronteremo in più parti. Prima di iniziare la prima di questo discorso, non possiamo ignorare la differenza fra il racconto di Marco, che abbiamo affrontato nel capitolo precedente, “Per la strada avevano discusso su chi di loro fosse il più grande”, e la narrazione di Matteo, che riporta un’apparente, analoga domanda a tal punto che verrebbe da chiedersi quali furono davvero le parole pronunciate da entrambe le parti. In realtà Gesù non disse una sola cosa, ma tante che ciascun evangelista riporta a seconda dell’accento che intende dare al discorso.

Marco, allora, riferendociallo scorso capitolo, riporta la prima risposta alla questione che i discepoli non osarono porre al loro Maestro, cioè chi tra loro fosse il più grande, mentre Matteo la inquadra secondo un contesto più ampio, “Chi dunque è più grande nel regno dei cieli?”: notiamo che viene omessa la parte che più riguardava i dodici da vicino, “di noi”, ma viene estesa anche al futuro, o se vogliamo al “non tempo” dell’eternità. “Regno dei cieli”come realtà presente, ma anche definita con la sua struttura eterna, con l’avvento dei “Nuovi cieli e nuova terra”. E qui la risposta di Gesù si rifà a quel particolare riferito alla nuova nascita nel senso pratico, quello di convertirsi e diventare come i bambini.

Nei versi che abbiamo letto il discorso verte su tre argomenti che nessuno può interpolare: la conversione coi suoi effetti, la mutazione della persona ad essa conseguente, gli scandali. Stupisce soprattutto la nuova descrizione della conversione, perché se Giovanni Battista la predicava come mezzo per andare verso Cristo, “ravvedetevi, perché il regno dei cieli è vicino”, quello che voleva dire Gesù sarà spiegato proprio da Pietro nel tempio: “Convertitevi dunque e cambiate vita, perché siano cancellati i vostri peccati e così possano giungere i tempi della consolazione da parte del Signore ed egli mandi colui che vi aveva destinato come Cristo, cioè Gesù”(Atti 3.19). La cancellazione dei peccati implica un rapporto nuovo con Dio, che prima si teneva lontano dal peccatore. Poiché il popolo, tramite i suoi capi, aveva già crocifisso Nostro Signore, questi non sarebbe stato potuto essere mandato se non con una rivoluzione interiore e non eclatante come si credeva: “vi mandi”nel senso che sarebbe stato inviato a ciascuno individualmente e non collettivamente, come popolo eletto. Scopo della conversione, allora, è quella di ricevere l’Unico Autore della salvezza, con lo Spirito Santo promesso.

Ricordiamo che, quando Nicodemo incontrò Gesù per la prima volta, riteneva il tornare bambino, il “rinascere”una cosa inconcepibile: vedeva infatti l’uomo come il risultato di un processo di crescita, in peso, statura e coscienza, ma dimenticava l’atteggiamento, l’essenza, le caratteristiche del bambino rapportate a Dio Padre. Davide, nonostante fosse uomo di guerra, re vittorioso, ma purtroppo anche adultero e omicida (perdonato) così parla in Salmo 131.1,2:“Signore, non si esalta il mio cuore né i miei occhi guardano verso l’alto; non vado cercando cose grandi né meraviglie più alte di me – come fanno tutti gli uomini che appartengono a questo mondo –. Io invece– cioè in opposizione alla corrente, al contrario degli altri che la seguono – resto quieto e sereno: come un bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è in me l’anima mia”. L’anima, il suo essere, in contrasto al suo aspetto di uomo di guerra e re d’Israele.

Non può sfuggire il fatto che siamo chiamati ad essere bambini solo di fronte a Dio, e non ai nostri simili che altrimenti ne approfitterebbero e ci sfrutterebbero, per quanto sappiamo che “i figli di questo mondo sono più avveduti di quelli della luce”;questo si verificherà, potenzialmente, sempre. Quello dell’essere o diventare bambini è un aspetto molto importante che verrà approfondito tanto da Pietro quanto da Paolo che mettono in guardia i credenti perché non lo impieghino unilateralmente: “Fratelli, non comportatevi da bambini nei giudizi– che richiedono maturità e la consapevolezza di trovarsi in un “terreno minato” –. Quanto a malizia, siate bambini, ma quanto a giudizi, comportatevi da uomini maturi”(1 Corinti 14.20). Pietro, poi, scrive “Come bambini appena nati, desiderate avidamente il genuino latte spirituale, grazie al quale voi possiate crescere verso la salvezza, se davvero avete gustato che buono è il Signore”(1 Pietro 2.2,3). Bambini da un lato, uomini dall’altro. E come un bambino si trova al sicuro e tranquillo nella propria casa coi propri genitori, così dovrebbe essere per il credente la Chiesa, sua nuova famiglia, cosa che purtroppo non sempre avviene; qui entriamo nel discorso degli scandali, cioè in quei sassi posti perché gli altri possano inciampare. E penso a certi pastori, anziani o sacerdoti che con il loro comportamento allontanano le anime anziché recuperarle e parlare amorevolmente con loro.

Ancora una volta è d’obbligo il confronto con il Dio Vivente: “Poiché così parla l’Alto e l’Eccelso, che ha una sede eterna e il cui nome è santo: «In un luogo eccelso e santo io dimoro, ma sono anche con gli oppressi e gli umiliati, per ravvivare lo spirito degli umili e rianimare il cuore degli oppressi. Poiché io non voglio contendere sempre né per sempre essere adirato; altrimenti davanti a me verrebbe meno lo spirito e il soffio vitale che ho creato”(Isaia 57.15,16).

Capiamo? Qui c’è la descrizione dell’irraggiungibilità di YHWH, “Alto”ed “Eccelso”che abita in un luogo dalle stesse caratteristiche, precluse all’uomo, che però è coi bambini visti nella figura degli “oppressi e umiliati”perché così sono, come abbiamo visto quando abbiamo parlato del bambino come essere privo di diritti. Se Dio fosse sempre adirato con la sua creatura “verrebbe meno lo spirito e il soffio vitale che ho creato”, cioè vi sarebbe un altro diluvio, per quanto con forme diverse, come sarà con la Grande Tribolazione e la fine del tempo che non vivremo.

E possiamo affermare che fino a quando l’uomo resterà sempre quello che è, penserà sempre alle cose basse e ad esse si dedicherà perché non potrà farne a meno, si porrà sempre come oppositore di Dio, precludendogli ogni intervento. Invece “Umiliatevi davanti al Signore, ed egli vi esalterà”(Giacomo 4.10) e, dopo questa esperienza personale, l’essere umano, una volta saputo che il proprio nome era scritto nel libro della vita e che farà parte della Chiesa, troverà ragione e scopo quanto scrive Pietro nella sua prima lettera, 5. 5,6: “Rivestitevi tutti di umiltà gli uni verso gli altri, perché Dio resiste ai superbi, ma dà grazia agli umili. Umiliatevi dunque sotto la potente mano di Dio, affinché vi esalti al tempo opportuno, riversando su di lui ogni vostra preoccupazione, perché egli ha cura di voi”. E l’umiliazione consiste nel confessare al Signore la propria bassezza, rinunciare a qualsiasi pretesa e affidarsi a Lui.

Solo il diretto interessato (e naturalmente Dio che vaglia, premia o riprende) può sapere se veramente si sarà fatto piccolo e notiamo che l’apostolo Pietro parla di “rivestirsi di umiltà”, quella vera che, essendo un vestito, può essere simulato, indossato da chi bambino non è; ecco perché si parla di individui “che vengono voi in veste di pecore, ma dentro sono lupi rapaci”. Lupi che sbranano, ma anche pongono ostacoli nel cammino di fede anziché correggerlo e indirizzarlo correttamente. Qui viene chiamato il discernimento degli spiriti, che vanno provati “per vedere se sono da Dio”, e soprattutto l’indossare quell’armatura di cui abbiamo già parlato in un precedente capitolo, che abbiamo visto proteggere tutti gli organi vitali, reperibile in Efesi 6. Un’armatura che chiaramente un bambino non indossa, ma un uomo chiamato al combattimento certamente sì: “Indossate l’armatura di Dio per poter resistere alle insidie del diavolo”(Efesi 6.11). Il “bambino”non è in antitesi all’uomo maturo, ma ci parla dell’innocenza e dell’essere indifeso che trova nel Signore l’unico riparo e conforto possibile. Il “bambino”è anche quello che è appena “nato di nuovo”, che ha bisogno di un sostegno particolare da parte di chi gli ha presentato il Vangelo: portare infatti un’anima a Cristo implica un esempio e soprattutto  una guida dottrinale e spirituale che non può essere lasciata al caso, per cui “scandalo”non è solo ciò che incanala verso pratiche estranee al cristianesimo, il più delle volte importate dall’ambiente pagano, ma anche quella promiscuità che fa leva sulla carne, incompatibile con lo Spirito.

Abbiamo parlato dei “lupi rapaci”, ma guardando alle parole sugli scandali che riporta Luca troviamo un particolare importante e cioè in 17.1,2 Gesù dice “…è meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare, piuttosto che scandalizzare uno di questi piccoli. State attenti a voi stessi!”. L’ultima frase, la messa in guardia di Gesù, riguarda anche i discepoli ed è pronunciata proprio in vista del ruolo che avrebbero avuto, quello di pascere il gregge, compito impossibile a farsi senza una dedizione che nella Chiesa è reciproca. Ricordo, quando fui battezzato, che mi si avvicinò un fratello che mi disse “Adesso io sono responsabile di te, e tu sei responsabile di me”, a sottolineare che anch’io avevo una funzione da adempiere perché il mio comportamento, per quanto elementare, poteva edificare quanto distruggere, rallegrare spiritualmente quanto contristare. Ero chiamato alla maturità che avrei conseguito negli anni, ad un cammino, ad una crescita che si realizzasse attraverso il confronto con la Parola di Dio, ma anche con i fratelli.

La frase di Gesù “State attenti a voi stessi!”implica il procedere attraverso passi ponderati, come ad esempio il caso di quei credenti in Roma che, consapevoli di non peccare, mangiavano liberamente qualunque cibo, quando c’erano altri che si scandalizzavano di questo. Paolo scrive allora “Se per il cibo il tuo fratello resta turbato, tu non ti comporti secondo carità. Non mandare in rovina per il tuo cibo colui per il quale Cristo è morto!”(14.13-15).

Ancora, in 1 Corinti 8.9-13: “Non sarà certo un alimento ad avvicinarci a Dio: se non ne mangiamo, non veniamo a mancare di qualcosa e se ne mangiamo, non abbiamo un vantaggio. Badate però che questa vostra libertà non divenga occasione di caduta per i deboli. Se uno infatti vede te, che hai la conoscenza, stare a tavola in un tempio di idoli, la coscienza di quest’uomo debole non sarà forse spinta a mangiare le carni sacrificate agli idoli? Ed ecco, per la tua conoscenza, va in rovina il debole, un fratello per il quale Cristo è morto! Peccando così contro i fratelli e ferendo la loro coscienza debole, voi peccate contro Cristo. Per questo, se un cibo scandalizza il mio fratello, non mangerò più carne, per non dare scandalo al mio fratello”.

Entriamo qui allora in un ambito particolare, vale a dire ciò che è alla radice dell’animo di chi è in grado di discernere – seguendo l’esempio citato da Paolo – che il mangiare delle carni sacrificate a idoli pagani non è più un peccato, ma nel momento in cui questo è di intoppo per gli altri, allora questo gesto diventa dannoso perché ostacolo per un credente debole, “un fratello per il quale Cristo è morto”. Si tratta di un tema da trattare con attenzione, perché qui non si parla di fratelli pettegoli, chiusi e rigidi sempre pronti a giudicare, ma di persone la cui coscienza viene turbata realmente e nel profondo a fronte di argomenti di importanza del tutto secondaria, come dalle parole “se non ne mangiamo, non veniamo a mancare di qualcosa e se ne mangiamo, non ne abbiamo alcun vantaggio”.

Diverso fu il caso di quanto Pietro fu rimproverato dai Giudei con le parole “Sei entrato in casa di uomini non circoncisi e hai mangiato insieme con loro!”(Atti 11.2), evidentemente riferendosi a quanto avvenuto in casa del centurione Cornelio; quei Giudei, ascoltate le sue precisazioni, è scritto che “si calmarono e cominciarono a glorificare Dio dicendo: «Dunque anche ai pagani Dio ha concesso che si convertano perché abbiano la vita!»”(v.18).

L’avviso “State attenti a voi stessi”viene formulato da Gesù proprio perché spesso è la struttura del nostro essere umano che può portarci ad azioni avventate, come fu per Pietro che, lasciando agire il suo essere umano, ebbe per un certo periodo un comportamento poco corretto nella Chiesa: “Quando Cefa venne ad Antiochia, mi opposi a lui a viso aperto perché aveva torto. Infatti, prima che giungessero alcuni da parte di Giacomo, egli prendeva cibo insieme ai pagani; ma, dopo la loro venuta, cominciò ad evitarli e a tenersi in disparte, per timore dei circoncisi. E anche gli altri Giudei lo imitarono nella simulazione, tanto che pure Barnaba si lasciò attrarre nella loro ipocrisia. A quando vidi che non si comportavano rettamente secondo la verità del Vangelo, dissi a Cefa in presenza di tutti: «Se tu, che sei Giudeo, vivi come i pagani e non alla maniera dei Giudei, come puoi costringere i pagani a vivere alla maniera dei Giudei?”(Atti 2,11-14).

L’attenzione verso noi stessi è primo vero metodo se intendiamo prima progredire e poi essere d’aiuto per portare il Vangelo al nostro prossimo. Siamo chiamati a curarci, sempre, ed in questo vediamo l’impegno nel togliere la trave dal nostro occhio, le domande su cosa abbiamo fatto di giusto o sbagliato nel giorno che Dio ci ha mandato, i frutti portati, siano essi rappresentati dal trenta, sessanta o cento. Amen.

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11.29 – IL SECONDO ANNUNCIO DELLA PASSIONE (Marco 9.30-37)

11.29 – Il secondo annuncio della passione e chi sia il più grande (Marco 9. 30-37)

 

30Partiti di là, attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. 31Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà». 32Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo.

33Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?». 34Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande. 35Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti». 36E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: 37«Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato».

 

Esaurite le circostanze relative alla guarigione del ragazzo epilettico, tormentato da uno spirito muto e sordo, Gesù rimane solo coi discepoli e inizia un cammino che li porterà nuovamente a Capernaum, ma contrariamente a quanto avvenuto in passato il tempo che rimaneva era poco per cui la Sua attenzione non si sposta più sulla predicazione, che certo continuerà anche se in forme più dirette e individuali, ma sulla formazione dei dodici. Nostro Signore considera quindi concluso il suo operato nei confronti della folla e sceglie di dedicarsi ai Suoi, bisognosi di insegnamenti profondi che dessero i frutti non nell’immediato, ma al momento opportuno. Teniamo presente che tra questi c’era Giuda Iscariotha, che fu sempre testimone, al pari degli altri, dei miracoli e dei discorsi del suo Maestro, restandone impermeabile.

Proprio sotto la necessità della formazione si spiega quel “ma egli non voleva che alcuno lo sapesse”, che questa volta si concreta attraverso un viaggio in incognito. Qui la domanda su come ciò sia stato possibile diventa importante, perché sappiamo che ogni volta che Gesù approdava da qualche parte in barca o attraversava un villaggio veniva puntualmente riconosciuto attirando attorno a sé molta gente. Una prima risposta, la più umanamente ovvia, si riferisce ad una scelta che tutti noi avremmo fatto, cioè percorrere sentieri e strade poco frequentate fino alla destinazione, ma questo non regge perché il gruppo avrebbe dovuto prima o poi entrare in un villaggio per comprare da mangiare e sarebbero stati riconosciuti. La domanda al verso 33, “Di che cosa stavate discutendo per la strada?”, lascia intendere che il cammino dalla regione di Cesarea alla Galilea sia avvenuto per vie normali, non essendo nominati sentieri o mulattiere.

Credo che questa volta Gesù sia intervenuto personalmente perché Lui e i dodici non fossero riconosciuti, come avverrà per i due discepoli incontrati sulla strada tra Gerusalemme ed Emmaus, dove in Luca 24.16 leggiamo che “…i loro occhi erano impediti a riconoscerlo”: il cammino con il Maestro doveva essere caratterizzato dalla calma e dal silenzio e comunque non poteva avere interferenze di sorta. Il verso del nostro episodio, “Insegnava ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà»”, ci fornisce il soggetto principale dell’insegnamento di Gesù, ma non veniva compreso e, a differenza di quanto avvenuto nel caso delle parabole in cui i discepoli non avevano alcuna remora a chiedergli chiarimenti, qui rimasero zitti, non osando domandare spiegazioni.

I motivi di questa ritrosia non stanno solo nel fatto che “non capivano”, ma in tutta una serie di sentimenti e idee che li assalivano ogni qualvolta Gesù parlava della sua morte e resurrezione. Prima di tutto, vediamo la morte: per i dodici, o per meglio dire “gli undici” anche se Giuda era ancora tra loro, era assolutamente inconcepibile che Lui potesse morire. Egli era “Il Cristo, il figlio dell’Iddio vivente”: come avrebbe potuto venire ucciso o “patire molto” dagli altri uomini, Lui, così infinitamente potente e superiore? Ecco una delle ragioni per cui Pietro fu scandalizzato e Gesù altrettanto quando lo rimproverò chiamandolo “Satana” e dicendogli che aveva “il senso non alle cose di Dio, ma a quelle degli uomini”.

Non una confusione minore, poi, era provata riguardo al fatto che il loro Maestro sarebbe risorto, altro punto incomprensibile perché strideva con l’insegnamento che tutti avevano ricevuto fin dall’infanzia, coi Rabbi che insegnavano loro che sì, vi sarebbe stata la resurrezione, ma nell’ultimo giorno e, ad eccezione dei Sadducei, tutta la nazione ebraica riteneva quella dottrina per vera. E si può dire lo stesso valga anche per noi. Teniamo anche presente che di resurrezione i discepoli non solo ne avevano sentito parlare dai testi antichi, ad esempio con quella operata proprio da Elia, ma erano stati loro stessi testimoni di altre, pensiamo alla figlia di Giairo o al figlio della vedova di Nain. Ecco perché era inconcepibile che l’Autore di quelle resurrezioni fosse ucciso per poi – secondo loro –  resuscitare se stesso.

Altro punto grandemente oscuro per gli undici fu la frase esposta al verso 31, quel “Il figlio dell’uomo verrà consegnato nelle mani degli uomini”, frase cui non facciamo molto caso perché sappiamo che così doveva essere, ma per loro proprio quel “consegnato” costituiva motivo di angoscia in quanto il verbo greco impiegato implica la presenza del tradimento, per cui capirono – o sospettarono – che Gesù sarebbe stato consegnato a seguito di un’azione indegna. Quindi in loro si sommarono tutta una serie di dati ai quali ora si aggiungeva anche il tradimento.

Ora i discepoli furono grandemente afflitti perché, come precisa Marco, “non capivano queste parole e avevano timore a interrogarlo”, sapendo di trovarsi di fronte a qualcosa di ben più pesante a sopportarsi rispetto al fallimento con il ragazzo epilettico poc’anzi avvenuto: se le cose stavano veramente così, che ne sarebbe stato di loro? Dove avrebbero potuto andare e soprattutto, citando Pietro, “A chi ce ne andremo noi?”. Queste furono le ragioni che li indussero a non chiedere nulla, spinti da un sentimento e da una serie di pensieri sovrapposti che Gesù conosceva benissimo. E da qui farà anche di tutto perché quanto da lui enunciato fosse almeno capito in futuro: Luca infatti scrive “«Mettetevi bene in mente queste parole: il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini». Essi però non capivano queste parole: restavano per loro così misteriose che non ne coglievano il senso, e avevano timore di interrogarlo su questo argomento” (9. 43-45).

È molto importante sottolineare che gli apostoli, nonostante il loro entusiasmo per seguire il Maestro, il loro impegno, i sacrifici, le rinunce, erano sempre ancora privi della capacità di comprendere che avranno più avanti grazie allo Spirito Santo e che qui l’avvenimento da Lui annunciato è estraneo alla logica quotidiana “spezzando – come scrive un fratello – la trama abituale dell’esperienza costruita in base ai desideri e alle previsioni umane”. Pensiamo: quegli uomini con Gesù si sentivano sicuri, protetti e il fatto che venga annunciato loro che fra non molto ne sarebbero stati privati non può aver che provocato uno sconforto tale da fargli dimenticare quelle parole, talché si misero a discutere su chi fra loro fosse il più grande. Un modo infantile per cacciare il problema? Forse, ma era anche, stante le loro condizioni, l’unico ed ecco perché i due episodi sono collegati fra loro.

Ed ecco anche perché, anche qui, i discepoli tacciono: “«Di che cosa stavate discutendo per la strada?». Ed essi tacevano.” (vv 33,34). Curiosamente, abbiamo a distanza di poco tempo due domande dirette; ricordiamo la prima, quando viene chiesto agli scribi “Di che cosa discutete con loro?”: è Gesù che interviene per correggere, chiarire, ma anche fare emergere quelli che sono i pensieri (o le azioni anche se non è questo il caso) che non Gli vorremmo far sapere. E a quella discussione avevano partecipato tutti, Giuda Iscariotha compreso, che dato il carattere carnale della discussione si sentì coinvolto. La discussione fu certo animata, perché ciascuno di loro avrà portato agli altri il proprio curriculum di esperienze, primi fra tutti Pietro, Giacomo e Giovanni. Ora teniamo ben presente che se Pietro fosse stato destinato ad essere il “capo della Chiesa”, quella sarebbe stata certamente l’occasione giusta per rivelarlo, dando così seguito alla curiosità dei discepoli e risolvendola una volta per tutte.

Ma la risposta di Gesù, alle parole che abbiamo letto, “Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti”, aggiunge un gesto denso di significati, cioè prende un bambino, lo pone in mezzo a loro e lo abbraccia: sulla figura del bambino abbiamo già parlato dicendo che è simbolo dell’innocenza, che ha bisogno dell’adulto che gli insegni e lo guidi, etc.; tutte certo cose vere, ma in questo caso il bambino è la figura dell’ultimo perché ai tempi di Gesù, come in altri più o meno antichi, era un essere privo di diritti. Su questo dovrebbero meditare quelli che affermano “la strage degli innocenti” non essere mai esistita perché Giuseppe Flavio ne sarebbe stato indignato e l’avrebbe certamente citata. Il bambino allora era un essere considerato insignificante, condannato a subire l’autorità paterna che spesso si manifestava con battiture e umiliazioni. Ed ecco perché Nostro Signore lo pone al centro e lo abbraccia. Chissà se, una volta cresciuto, se ne sarebbe ricordato. Chissà se poi, col passare del tempo, avrà fatto delle scelte che lo avranno caratterizzato, qualificato come figlio di Dio. Non lo sappiamo.

Ciò che emerge come dato incrollabile è che la Chiesa non può essere un’organizzazione umana basata sul potere umano. “Voi sapete che i governanti delle nazioni dominano su di esse e i capi le opprimono. Tra voi non sarà così, ma chi vuole diventare grande tra voi, sarà il vostro servitore e chi vuole essere il primo tra voi, sarà vostro schiavo. Come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Matteo 20.25-28).

Gesù quindi prende come esempio un bambino, un essere privo anche di prestigio non potendo ancora caratterizzarsi in bene o in male, dimostrando così di non volere un successore negli uomini né un Vicario; al contrario incarica lo Spirito Santo di tutto questo: “Io pregherò il Padre ed Egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi sempre: lo Spirito di verità che il mondo non può ricevere, perché non lo vede e non lo conosce” (Giovanni 14.23).

E arriviamo così alle ultime parole di Gesù in questo episodio,  “Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome:  ci vuole un bambino, quindi un innocente ultimo, come può essere un uomo appena “nato di nuovo”, ma questo a nulla serve se questo non viene fatto “nel nome di Gesù Cristo” perché la persona che viene aiutata, sollevata, di cui la persona curata deve sapere il motivo per cui questo avviene. Accoglie me – prima identità con Gesù –. E chi accoglie me non accoglie me, ma Colui che mi ha mandato – quindi la reciprocità di Gesù col Padre, che ha parlato agli uomini per mezzo dei profeti e, in questi ultimi giorni, per mezzo della Sua Parola –.

Ecco, credo che un essere umano non possa ricevere onore più grande, tanto nel dare, che nel ricevere. Amen.

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11.28 – IL FANCIULLO EPILETTICO II (Marco 9.20-29)

11.28 – Il fanciullo epilettico, II (Marco 9. 20-29)

 

20E glielo portarono. Alla vista di Gesù, subito lo spirito scosse con convulsioni il ragazzo ed egli, caduto a terra, si rotolava schiumando. 21Gesù interrogò il padre: «Da quanto tempo gli accade questo?». Ed egli rispose: «Dall’infanzia; 22anzi, spesso lo ha buttato anche nel fuoco e nell’acqua per ucciderlo. Ma se tu puoi qualcosa, abbi pietà di noi e aiutaci». 23Gesù gli disse: «Se tu puoi! Tutto è possibile per chi crede». 24Il padre del fanciullo rispose subito ad alta voce: «Credo; aiuta la mia incredulità!». 25Allora Gesù, vedendo accorrere la folla, minacciò lo spirito impuro dicendogli: «Spirito muto e sordo, io ti ordino, esci da lui e non vi rientrare più». 26Gridando e scuotendolo fortemente, uscì. E il fanciullo diventò come morto, sicché molti dicevano: «È morto». 27Ma Gesù lo prese per mano, lo fece alzare ed egli stette in piedi.28Entrato in casa, i suoi discepoli gli domandavano in privato: «Perché noi non siamo riusciti a scacciarlo?». 29Ed egli disse loro: «Questa specie di demòni non si può scacciare in alcun modo, se non con la preghiera».

 

Prima di iniziare l’analisi del testo, vanno ricordate le parole del padre del giovane a Gesù: “Dovunque lo afferri, lo getta a terra ed egli schiuma, digrigna i denti e si irrigidisce”, descrizione dell’epilessia. Il nome “epilessia” deriva dal greco epi-lambano, cioè cogliere di sorpresa. È una malattia caratterizzata da crisi improvvise dovute ad una scarica abnorme del nostro cervello dovute a cause più varie, come predisposizione genetica, lesioni cerebrali, ma un 40% è dovuto anche a predisposizioni costituzionali. La malattia si esprime con varie manifestazioni, a seconda della zona del cervello interessate dalla scarica e questa, una o più, partono autonomamente, non sono prevedibili. In un terzo dei casi le crisi continuano e in questo caso i pazienti sono a rischio di SUDEP, cioè a morte improvvisa, non prevedibile. Molto spesso l’epilessia compare in età giovanile e con lo sviluppo della persona scompare; chi è predisposto ha una fase in cui le crisi si manifestano e poi, in alcuni, la tendenza alla crisi diminuisce spontaneamente non tanto per i farmaci, ma perché l’epilessia si scontra fra la predisposizione e lo sviluppo cerebrale. Ci sono dei pazienti che nonostante la terapia continuano a presentare le crisi che solitamente rientrano sotto controllo nel momento in cui viene usato il farmaco più adatto. Individuato il farmaco giusto, dopo un certo tempo si diminuiscono gradualmente le dosi per verificare se le crisi ritornano o meno; in questo caso, se il paziente sta bene con una dose bassa, significa che la possibilità dell’insorgere di crisi ulteriori diminuiscono.

Questa è l’epilessia moderna, che in comune con quella descritta da Marco e dagli altri ha il “cogliere di sorpresa”, ma qui le “scariche cerebrali” insorgono proprio alla vista di Gesù: coincidenza? Non credo, perché Matteo, Marco e Luca non scrivono autonomamente, ma spinti dallo Spirito Santo che, se quella malattia fosse dovuta alle cause illustrate dalla medicina, avrebbero parlato di un ragazzo infermo, e non epilettico e indemoniato. Non tutti gli epilettici, dunque, sono indemoniati. Alla luce delle conoscenze mediche in merito, sappiamo che quel giovane, senza l’intervento di Gesù, sarebbe morto di SUDEP, cioè per arresto cardiaco causato dall’apnea prolungata per le manifestazioni motorie che impediscono alla persona di respirare.

Quel ragazzo sarebbe morto, ucciso apparentemente dalla malattia, ma in realtà dallo spirito che lo abitava e lo possedeva a suo piacimento, caratterizzandolo anche col mutismo e la sordità. Assistiamo però a un fatto per così dire anomalo, e cioè che Nostro Signore, chiamato dal padre del ragazzo “Maestro”al verso 17 (titolo onorifico solitamente impiegato per gli esorcisti che erano scribi e farisei), a fronte della richiesta “se tu puoi qualcosa, abbi pietà di noi e aiutaci”, non interviene prontamente, ma lascia il giovane in balia dello spirito immondo che, sapendo che stava per essere sconfitto, lo straziava.

Il ragazzo, innominato come il padre, era tormentato fin dall’infanzia, quando la persona è più indifesa e questo ci parla del fatto che l’Avversario e il peccato non hanno pietà di nessuno: da bambino, il demone lo aveva “spesso buttato nel fuoco e nell’acqua per ucciderlo”, due elementi opposti, ma ugualmente letali a significare che non esiste un luogo sicuro per nessuno, a meno che non si eserciti la fede. Acqua e fuoco sono elementi utili perché l’uno riscalda e l’altra disseta ma che, se usati in modo sbagliato, uccidono.

A questo punto avviene qualcosa di molto singolare perché c’è una trasformazione nel cuore di quel padre dopo aver detto “Se tu puoi qualcosa, abbi pietà di noi e aiutaci”. Si tratta di una frase che non può essere in alcun modo paragonata al “Se tu vuoi, puoi guarirmi”espressa dal lebbroso in Matteo 8.1-4: mentre infatti per quest’ultimo c’era la certezza che se Gesù avesse voluto avrebbe risolto la malattia, qui abbiamo “se tu puoi qualcosa”, quasi a dire “le ho provate tutte e adesso sono qui”. Forse quell’uomo metteva Gesù sullo stesso piano di altri che aveva consultato, ma non sapeva fino a che punto arrivasse il suo potere. E quel ragazzo, come scrive Luca, era figlio unico.

È bello vedere che Nostro Signore qui non assume le vesti del pronto soccorritore, ma aspetta ad intervenire perché, nonostante l’urgenza della situazione, era più importante portare quell’uomo alla fede, e infatti gli risponde “Se puoi! Tutto è possibile per chi crede”, a sottolineare che la richiesta, per come gli era stata presentata, non era corretta e che la guarigione dipendeva dalla fede riposta in Lui. E qui abbiamo una confessione particolare, perché la risposta fu ad alta voce in modo che tutti sentissero: “Credo; aiuta la mia incredulità”. In questa versione manca “Signore”, dopo il “Credo”, che ci rivela come il concetto su Gesù fosse cambiato: non è più chiamato “Maestro”, ma “Signore”. In più, con la richiesta di venire aiutato nella sua incredulità, quel padre manifesta tutta la consapevolezza dell’avere poco dentro di sé e la certezza di venire aiutato nel suo credere.

E questo dialogo è stato riportato da Marco proprio per tutti quelli che, guardando dentro di loro, non possono far altro se non ammettere la loro poca fede; è lì, qui, che la porta che Dio può aprire non resta chiusa: se mai siamo noi a temere forse perché abbiamo qualcosa da abbandonare, o perché dubitiamo di saper gestire correttamente quanto ci verrebbe dato. I problemi del vivere la fede sono tanti, a cominciare da noi stessi e infatti quel padre chiede a Gesù di aiutare la “mia”incredulità, cioè tutta quella zavorra che lo tiene attaccato al contingente senza sapere come liberarsene. Allora, accanto alla consapevolezza del potere di guarigione verso il figlio, si aggiunge anche quella della liberazione dal poco credere: la richiesta è quella di arrivare a una fede compiuta nel Signore. E notiamo che Marco scrive che quelle parole furono pronunciate di getto, e sono proprio le reazioni immediate che testimoniano di ciò che alberga nel cuore e nella mente di un uomo.

Al verso 25 leggiamo che Gesù agisce“vedendo accorrere la folla”che evidentemente si stava avvicinando attratta dalle parole di quell’uomo pronunciate ad alta voce. Certo, senza la preghiera di aiuto in campo spirituale, “aiuta la mia incredulità”, non avrebbe fatto nulla. Abbiamo allora l’ordine: “Spirito muto e sordo, io ti ordino, esci da lui e non vi rientrare più”. Sono parole importanti, unitamente alla descrizione di come questo reagì, perché quel giovane non era neppure in grado di parlare e udire. “Esci da lui”è un imperativo riferito al presente, “e non vi rientrare più”rappresenta la garanzia della continuità della guarigione, suggerisce il fatto che quando Dio interviene in una persona è per sempre, come lo stesso accade in tutti coloro che hanno creduto dopo essere stati realmente convinti di peccato, giustizia e giudizio: sanno che, senza l’intervento del Signore che li ha salvati, sarebbero destinati alla morte eterna, al pianto e allo stridore dei denti.

Altro dato importante, ma di cui abbiamo già parlato nell’affrontare l’indemoniato nella Sinagoga di Capernaum, è il modo con cui lo spirito immondo tratta quel ragazzo, cioè “gridando e scuotendolo fortemente, uscì. E il fanciullo diventò come morto, sicché molti dicevano: «È morto»”.Così uno “spirito immondo”tratta una persona prima di lasciarlo definitivamente, come già visto in altri casi, come gli indemoniati gadareni, con la differenza che qui sostenere l’ipotesi della possessione come risultato di una serie di peccati consapevoli non regge, ma è sostenibile quella relativa all’azione di Satana sul territorio, su una condizione della lontananza da Dio dell’umanità che, a quei tempi, doveva constatare la differenza tra gli interventi del Messia promesso e la realtà in cui viveva, oggi apre le porte all’avversario con le sostanze stupefacenti, gli alcoolici e soprattutto i falsi profeti che vorrebbero imporre uno stile di vita a tutti, giovani e vecchi, “piccoli e grandi”.

Tornando al nostro episodio, vediamo che nessuno salvo Gesù ha contatti col ragazzo, questo perché i presenti non osavano avvicinarsi per non incorrere nell’impurità che contraeva chiunque avesse toccato un cadavere. Leggiamo “Ma– perché c’è un “ma” di Dio nella storia di ciascuno – Gesù lo prese per mano, lo fece alzare ed egli stette in piedi”. Tre azioni, le prime due fatte da Lui: prende per mano, una mano che rassicura e promette ogni intervento e guida, lo fa alzare in quanto Signore anche del corpo umano, al che il giovane non può fare a meno che stare in piedi, questa volta senza nessun aiuto, autonomamente. E Luca aggiunge un gesto di una carità e amore unico, cioè “…guarì il fanciullo e lo consegnò a suo padre. E tutti restavano stupiti di fronte alla grandezza di Dio”.

Nostro Signore non si limitò a guarire, ma consegnò personalmente quel ragazzo al proprio padre ed evidentemente i loro sguardi si incrociarono. In pratica, quell’uomo fu esaudito due volte, prima con l’aiuto al soccorso della sua poca fede, poi con la guarigione del figlio.

Sappiamo che poi i nove domandarono a Gesù le ragioni del loro insuccesso, e qui le versioni di Marco e Matteo si completano: il primo pone l’accento sulla preghiera, il secondo sulla poca fede. Ora chiaramente le domande che ci dobbiamo porre sono due, la prima delle quali è se sia necessaria una preghiera specifica per quella possessione, oppure se questa debba rientrare nell’orazione come metodo, chiedendo al Padre la capacità di gestire quell’autorità che come credenti abbiamo o dovremmo avere, poiché se come uomini siamo poca cosa, come cristiani siamo chiamati a gestire lo Spirito e così il discernimento e l’autorità, se abbiamo dei doni.

Matteo, come visto, pone l’accento sulla poca fede dei discepoli: “In verità io vi dico: se avrete fede pari a un granello di senape, direte a questo monte– l’Hermon – «Spostati da qui a là», ed esso si sposterà, e nulla vi sarà impossibile”(17.20). Possiamo concludere chiedendoci, alla luce di queste parole, quale sia la nostra fede e quanto preghiamo il Padre perché, come uno dei protagonisti del nostro episodio, ci sia dato un aiuto nell’esercitare la fede. Quella poca che abbiamo. Amen.

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11.27 – IL FANCIULLO EPILETTICO, I (Marco 9.14-19)

11.27 – Il fanciullo epilettico, I (Marco 9. 14-19)

 

14E arrivando presso i discepoli, videro attorno a loro molta folla e alcuni scribi che discutevano con loro. 15E subito tutta la folla, al vederlo, fu presa da meraviglia e corse a salutarlo. 16Ed egli li interrogò: «Di che cosa discutete con loro?». 17E dalla folla uno gli rispose: «Maestro, ho portato da te mio figlio, che ha uno spirito muto. 18Dovunque lo afferri, lo getta a terra ed egli schiuma, digrigna i denti e si irrigidisce. Ho detto ai tuoi discepoli di scacciarlo, ma non ci sono riusciti». 19Egli allora disse loro: «O generazione incredula! Fino a quando sarò con voi? Fino a quando dovrò sopportarvi? Portatelo da me». 

 

Ho scelto la narrazione di Marco, rispetto a quella di Matteo e Luca, perché molto più ricca di particolari e connessioni a tal punto di rendere necessaria una suddivisione in due parti. Ricordiamo che quanto avvenne è collocato da Luca il giorno successivo alla trasfigurazione, che infatti fu di notte, e qui possiamo fare la prima nota sulla enorme distanza tra quanto avvenuto poche ore prima, cioè quei momenti spirituali così intensi da mutare l’aspetto di Gesù (“Il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce”), e il ritorno nella sua dimensione di uomo fra gli uomini, con gli scribi che questionavano con gli altri nove discepoli che non erano riusciti a guarire un indemoniato. Cessò allora la sublimità di quegli istanti, in cui per poco tempo Gesù aveva potuto vivere un episodio così estraneo alla vita quotidiana; dopo la trasfigurazione e aver parlato con Mosè ed Elia del passato, presente e futuro raccordato all’eternità, “arrivando presso i discepoli”, viene in un certo senso proiettato violentemente a terra, constatando ancora una volta gli effetti del peccato e della miseria umana.

Ricordiamo che anche il tragitto dal monte a dove si trovava il resto dei Suoi fu caratterizzato dalla sopportazione, perché i Pietro, Giacomo e Giovanni non avevano capito le parole più importanti, “anche il Figlio dell’uomo dovrà soffrire per opera loro”, ma si concentrarono sul perché gli scribi sostenevano “che prima deve venire Elia”. E credo che qui possano essere date due letture, una umana che vede nei dodici delle persone lente a capire – e senza lo Spirito Santo ogni recepimento delle cose di Dio è impossibile – e una spirituale che vede l’Avversario impegnato a distogliere la loro attenzione da ciò che è alto e da approfondire, per ciò che riveste un importanza secondaria: non era così necessario sapere “perché dicono gli scribi che prima deve venire Elia”, ma, a fronte di quanto detto ai discepoli, cosa avrebbe implicato il fatto che il loro Maestro fosse “dato in mano agli uomini e patire molte cose per opera loro”.

Esaminiamo ora i versi 14 e 15: Gesù arriva al luogo dove aveva lasciato gli altri discepoli e trova una situazione particolare, e cioè i nove intenti a discutere con degli scribi, circondati da “molta folla”che, quando Lo vide, “fu presa da meraviglia e corse a salutarlo”. Ora il motivo di quella discussione non ci viene detto chiaramente, ma è facile immaginare che riguardasse il fatto che i discepoli non erano riusciti a scacciare il demonio che affliggeva il giovane epilettico; di qui derivarono tutta una serie di questioni dottrinali che sicuramente quei sapienti avranno eruditamente esposto, soddisfatti di mettere i discepoli in difficoltà per il loro fallimento.

C’è però un particolare sul quale è necessario spostare la nostra attenzione, e cioè che la folla “fu presa da meraviglia”: perché? Cosa poteva esservi di straordinario nel vedere Gesù, che era noto che raramente si separava dai dodici, o nel vederlo arrivare? Non poteva che essere nei paraggi. Evidentemente, come avvenne nel caso di Mosè, gli effetti visibili della trasfigurazione non erano svaniti. Leggiamo in Esodo 34.30 che “Quando Mosè scese dal monte Sinai, le due tavole della Testimonianza si trovavano nelle sue mani mentre egli scendeva dal monte. Non sapeva che la pelle del suo viso era diventata raggiante, perché aveva conversato con lui”. Pensiamo all’esperienza che provò Mosè e possiamo dire che ogni volta che il credente si ritrova a conversare con Dio, a pregare, a interrogare la Scrittura, insomma entrare in un ambito spirituale, fa un’esperienza di consolazione e rivelazioni entrando in uno stato d’animo non definibile a parole. Certo la sua pelle non si trasforma, ma come torna nel mondo normale prova questo senso di enorme distanza tra le due dimensioni, soprattutto quando ha a che fare con i propri simili, quando ritorna alla vita nel mondo naturale.

In proposito possiamo anche sottolineare che se un figlio di Dio resta spesso in comunione con il Padre attraverso lo Spirito, questo sarà inevitabilmente notato dagli altri perché avrà modi e comportamenti che rifletteranno il suo rapporto con Lui. Ecco perché, spesso, i credenti si riconoscono tra loro anche senza necessariamente parlare di Cristo. Nella seconda lettera ai Corinti, Paolo parla della trasformazione operata in chi crede: “E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito nel Signore”(3.18). È una trasformazione lenta, profondamente interna, che viene data a chi cerca ed è disposto ad abbandonare i suoi perni umani perché destinati a crollare in un modo o in un altro. E ricordiamo anche il verso di Salmo 34.5 “Guardate a lui e sarete raggianti, non saranno confusi i vostri occhi”: si parla non di felicità incontenibile, ma dell’irradiazione della luce di Dio, mentre quel “non saranno confusi i vostri occhi”ci parla degli effetti insiti nella rivelazione di Gesù Cristo, che Giovanni descrive in 1.9, “Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo”, certo disposto ad accettarla, altrimenti è e rimarrà per sempre cieco.

La folla dunque corre a salutare Gesù, ma  immediatamente Marco sposta l’attenzione del lettore sulla Sua domanda che, dalla nostra traduzione, non è chiaro a chi fu rivolta, se ai discepoli rimasti ad attenderlo, o agli scribi: “di che cosa discutete con loro?”. Certo Gesù era l’Onnisciente e conosceva tutti i discorsi avvenuti, ma voleva una risposta. Sono convinto che anche noi, se ci fosse rivolta la stessa domanda quando discutiamo col nostro prossimo, a volte ci troveremmo in imbarazzo, ma qui il contesto è differente perché i discepoli diventano timorosi di confessare un fallimento, non essendo riusciti a guarire un epilettico indemoniato. I nove non sanno cosa rispondere e così interviene una terza persona, estranea al gruppo, che afferma “…ho detto ai tuoi discepoli di scacciarlo, ma non ci sono riusciti”(v.18). Per inciso, altre versioni riportano correttamente il testo, cioè “Egli domandò agli scribi: «Di che questionate tra voi?»

In altre parole, quei discepoli avevano certamente vivo in loro il ricordo di quanto avvenuto nell’occasione del loro invio in missione: “Chiamati a sé i suoi dodici discepoli, diede loro potere sugli spiriti impuri per scacciarli e guarire ogni malattia e ogni infermità”(Matteo 10.1). Questo è il preambolo, poiché dopo troviamo scritto l’ordine “Guarite gli infermi, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi, scacciate i demòni”(v.8). Ritennero quindi quel mandato ancora valido e sopravvalutarono le loro forze. Gesù allora, quando tornò dai suoi, dalla folla e anche dagli scribi, si scontrò ancora una volta con l’ignoranza: la pretesa di essere quando non si è, di sapere quando non si sa, dell’aver bisogno senza conoscere di chi o di che cosa, tutti elementi correlati tra loro che caratterizzano l’uomo vecchio, sempre convinto di potere e volere.

 

Essere quando non si è.

L’uomo solitamente, dall’infanzia in poi, cerca di caratterizzarsi in modo tale da avere un ruolo, nella famiglia e poi gradualmente nel contesto sociale in cui fa il suo ingresso; che sia una persona di valore oppure no, assumerà un ruolo di comodo, tanto più marcato quanto più sarà il proprio orgoglio a spingerlo. Combatterà chi è al suo pari e disprezzerà i deboli, non importa se fisicamente, finanziariamente o anche solo persone a lui sottoposte. Non ammetterà critiche o rimproveri ed attribuirà i suoi eventuali insuccessi agli altri. E i discepoli non avevano capito che il mandato ricevuto era temporaneo perché avevano ancora tanto da imparare e, senza lo Spirito Santo non ancora disceso su di loro, non avevano ancora acquisito quel discernimento spirituale atto ad orientarli anche nelle situazioni più oscure.

 

Sapere quando non si sa.

Anche qui, senza lo Spirito di Dio, si costruisce sul nulla, o meglio si lavora sulla sabbia. Le conoscenze acquisite – e qui il riferimento è agli scribi – autorizzavano al pronunciarsi sulle cose inerenti alle Scritture, che però erano da loro interpretate e distorte, come sappiamo, a loro vantaggio o in funzione di una religione. Agli scribi non pareva vero trovarsi di fronte all’insuccesso dei discepoli di Gesù e di attribuirGli il loro fallimento. I discepoli, e con loro oggi i cristiani, erano e sono i suoi rappresentanti per cui, come noi, avrebbero dovuto prestare attenzione a ciò che facevano o dicevano. Per il cristiano l’attenzione va anche rivolta a chi frequenta, a come si pone di fronte agli altri per non avere atteggiamenti contraddittori rispetto alla fede che professa. Se fossero stati accorti, i nove avrebbero dovuto attendere prudentemente il ritorno del Maestro, non essendo ancora compiuta la loro formazione. Più avanti infatti, interrogandolo in proposito, si sentirono rispondere: “Questa specie di demòni non si può scacciare in alcuno modo, se non con la preghiera”, oppure “Per la vostra poca fede”secondo Matteo 17.20. Ricordiamo che, nel caso di questo episodio, erano molti che pretendevano di cacciare gli spiriti impuri, come quegli esorcisti giudei che a volte menzioniamo in Atti 19.13 che si sentirono rispondere “Conosco Gesù e so chi è Paolo, ma voi chi siete?”, e uscirono dallo scontro con l’indemoniato “nudi e feriti”. Anche per quegli esorcisti vale il principio della pretesa di essere quando non si è. Per i discepoli quell’insuccesso  fu sicuramente motivo di vergogna, l’esatto contrario di quanto avvenuto tempo prima, quando “Al loro ritorno, gli apostoli raccontarono a Gesù tutto quello che avevano fatto”(Luca 9.10). Allora, non avevano certo motivo di tacere.

L’aver bisogno senza sapere di chi o di cosa lo vediamo in particolare nella folla, che corre da Gesù per meglio vederlo, stante le caratteristiche avute in quel momento, che lo saluta forse con la parola “Shalom”, ma di circostanza. Una folla che era lì in gran parte per vedere e stupirsi, ma non per credere. Così è l’uomo anche oggi che preferisce, quando raggiunge la consapevolezza delle sue imperfezioni, affidarsi ad attività estranee come lo Yoga o molte altre pratiche anziché andare a bussare a quella porta di cui è promessa l’apertura.

Tornando al nostro testo, vediamo che la domanda “di cosa discutevate con loro?”resta senza risposta. O, meglio, questa la dà il diretto interessato, il padre del ragazzo epilettico: “Maestro, ho portato da te– ecco l’identificazione di Lui coi discepoli e della prudenza che questi avrebbero dovuto esercitare – mio figlio, che ha uno spirito muto. Dovunque lo afferri– quindi in modo imprevedibile senza distinzione per il luogo – , lo getta a terra ed egli schiuma, digrigna i denti e si irrigidisce. Ho detto ai tuoi discepoli di cacciarlo, ma non ci sono riusciti”(vv.17-18). Mi sono chiesto se quel “ma”,che suona con un rimprovero prima di tutto ai nove, fosse rivolto anche a Gesù, che secondo quell’uomo non li aveva formati abbastanza. Ecco l’ignoranza con la quale si scontrò Nostro Signore, che ebbe una reazione particolare, dicendo “O generazione incredula– Matteo aggiunge “e perversa”–; fino a quando starò con voi? Fino a quando dovrò sopportarvi? Portatelo da me”.

Il rimprovero di Gesù qui è universale e non esclude nessuno. Come ha scritto un fratello, «è un rimprovero che, seppure con altri termini, ricorre sovente nei Vangeli per mettere in evidenza che l’uomo, chiunque esso sia, non può avere un comportamento corretto, in parole e in opere, senza la guida dello Spirito Santo. Tutto ciò che gli uomini desiderano compiere al di fuori di tutto ciò che Dio ha predisposto è da Lui considerato “un panno sporco”. E i verbi utilizzati, “stare” e “sopportare” sono indicativi di un tempo che stava per concludersi perché il Suo sacrificio stava per compiersi».

“Portatelo da me”, è un imperativo rivolto a tutti con cui Gesù si pone tanto come riparatore all’errato atteggiamento dei suoi discepoli, quando una promessa di intervento. L’unico possibile, risolutore, vincitore su ogni elemento terreno o negativamente spirituale.

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