10.20 – Vi conosco (Giovanni 5.41-47)
41Io non ricevo gloria dagli uomini. 42Ma vi conosco: non avete in voi l’amore di Dio. 43Io sono venuto nel nome del Padre mio e voi non mi accogliete; se un altro venisse nel proprio nome, lo accogliereste. 44E come potete credere, voi che ricevete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene dall’unico Dio? 45Non crediate che sarò io ad accusarvi davanti al Padre; vi è già chi vi accusa: Mosè, nel quale riponete la vostra speranza. 46Se infatti credeste a Mosè, credereste anche a me; perché egli ha scritto di me. 47Ma se non credete ai suoi scritti, come potrete credere alle mie parole?».
L’ultima parte del discorso di Gesù ai Giudei inizia con un’affermazione categorica, “io non ricevo gloria dagli uomini” nel senso che rifiutava quel riconoscimento carnale che più volte proprio loro avevano voluto dargli col volerlo fare re. Paolo, scrivendo ai Tessalonicesi, afferma nella sua seconda lettera “E neppure abbiamo cercato la gloria umana, né da voi, né da altri” (2.6), frase che dovrebbe essere il perno attorno al quale ruota il fine della testimonianza e del servizio cristiano: nel momento in cui esiste un “riconoscimento” umano nel senso stretto del termine abbiamo una deviazione di ruolo e di intenti; l’essere naturale sbaglia sempre e soprattutto fraintende proprio come quelli che, al tempo di Gesù, volevano un Messia terreno, come più volte ricordato. Un fratello amava ricordare che Nostro Signore avrebbe potuto nascere e vivere in una famiglia facoltosa e invece scelse quella di un falegname, non ricco né povero perché altrimenti entrambe le categorie avrebbero potuto rivendicarne l’esclusiva. Fino all’età di circa trent’anni visse in una condizione benestante, conseguita grazie ai doni che i Magi gli portarono e che furono amministrati da Giuseppe e Maria. Nella sua vita pubblica, poi, sappiamo che il suo gruppo contava su una cassa comune tenuta da Giuda, l’uomo di Kerioth.
La gloria umana fu quella che tanto Lui quanto gli apostoli rifiutarono come avvenne, a parte Paolo, anche per Pietro nel suo incontro col centurione romano Cornelio a Cesarea che “stava ad aspettarli coi parenti e gli amici intimi che aveva invitato. Mentre stava per entrare, Cornelio gli andò incontro e si gettò ai suoi piedi per rendergli omaggio. Ma Pietro lo rialzò, dicendo: «Àlzati, anch’io sono un uomo»” (Atti 10.24,26). Un altro episodio con protagonisti Paolo e Barnaba a Listra, dopo la guarigione di un paralitico: “la gente allora, al vedere ciò che Paolo aveva fatto, si mise a gridare, dicendo, in dialetto licaonio,: «Gli dèi sono scesi tra noi in figura umana!» e chiamavano Barnaba «Zeus» e Paolo «Hermes» perché era lui a parlare. Intanto il sacerdote di Zeus, il cui tempio era all’ingresso della città, recando alle porte tori e corone, voleva offrire un sacrificio insieme alla folla. Sentendo ciò gli apostoli Barnaba e Paolo, si strapparono le vesti e si precipitarono tra la folla, gridando: «Uomini, perché fate questo? Anche noi siamo esseri umani, mortali come voi, e vi annunciamo che dovette convertirvi da queste vanità al Dio vivente!»” (Atti 14.11-15).
Abbiamo allora, a parte l’esempio di Gesù che è e sarà sempre il primo, anche quello di chi da Lui dipende per la proclamazione del Vangelo, che non accetterà mai di avere un riconoscimento estraneo alla missione lui affidatagli: quindi, il modo in cui un profeta si comporta, lo qualifica come vero o falso anche nel suo rifiutare o accettare la gloria umana, e qui ognuno di noi può fare le sue considerazioni su come agiscono quanti si comportano così nel mondo cosiddetto cristiano. Dicendo “Io non ricevo gloria dagli uomini”, Gesù afferma che l’unica cosa che gli importava essere – e lo confermò continuamente con azioni e parole – era il servo perfetto cui null’altro interessava se non ottenere la gloria che il Padre gli avrebbe dato. Ricordiamo la frase “Io ti ho glorificato sulla terra, compiendo l’opera che tu mi hai dato da fare” (Giovanni 7.4).
Gesù, al verso 42, prosegue dicendo “Ma vi conosco: non avete in voi l’amore di Dio”: quel “vi conosco”, che ancora una volta si riferisce alla perfetta conoscenza che aveva ed ha del cuore, dell’anima e dello spirito che spinge ogni uomo ad agire, attesta la mancanza dell’amore di Dio in loro, cioè che tutto il loro sapere, acquisito con fatica e uno studio severo, non aveva portato a nulla se non alla sterilità e all’inaridimento in contraddizione con quella frase, “Ama il Signore Iddio con tutto il tuo cuore” scritta sulle loro filatterie, anche quelle uno dei tanti simboli che avrebbero dovuto ricordare la loro dignità e funzione.
La filatteria era un piccolo pezzo di pergamena rinchiuso in un piccolo astuccio che, quando pregavano, tenevano assicurato con una cinghia di pelle alla fronte e al braccio sinistro vicino al cuore con lo scopo di ricordare il dovere di ubbidire ai comandamenti di Dio nella mente e nel cuore. Ebbene, con il passare del tempo si era finito per attribuire – ecco la falsità profonda della religione – a quei pezzi di pergamena il potere di evitare le malattie e scacciare i demoni ed erano divenuti strumento di ipocrisia: “Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente: allargano i loro filattéri e allungano le frange; si compiacciono nei posti d’onore nei banchetti, dei primi posti nelle sinagoghe, dei saluti nelle piazze, come anche di essere chiamati «Rabbi» dalla gente” (Matteo 23.5). Il seguito è ancora più pertinente al nostro caso: “Ma voi non fatevi chiamare «rabbi», perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli” (v.6). A parte tutte le connessioni possibili, credo che queste parole, se raccordate ai nostri tempi, descrivano una realtà desolante, dove ben poco è cambiato rispetto all’ipocrisia denunciata da Nostro Signore. E penso alla distinzione tra “religiosi” e “laici” operata dalla Chiesa di Roma o a quei “Pastori”, operanti soprattutto negli Stati Uniti, che trascinano grandi folle nelle loro predicazioni operando presunti miracoli e che posseggono ingenti patrimoni, avendo fatto della loro retorica un’industria. Ricordo che da bambino, quando frequentavo la mia parrocchia, non riuscivo a capire perché, quando un sacerdote parlasse di un altro, lo definiva “mio confratello” a differenza dei suoi parrocchiani. Gesù invece, nel passo citato, disse “e voi siete tutti fratelli” dove quella congiunzione, “e”, dice sicuramente tutto sulla differenza tra l’orgoglio umano e la realtà dell’essere figli di Dio. E non si tratta di volontà di polemica o di voler sottolineare che alcuni sono migliori di altri, ma solo di constatazione libera.
“Vi conosco”, quindi, è un ricordo di quanto avvenuto a Gerusalemme per la Pasqua all’inizio del suo ministero quando “durante la festa, molti, vedendo i segni che egli compiva, credettero nel suo nome. Ma lui, Gesù, non si fidava di loro, perché conosceva tutti e non aveva bisogno che alcuno desse testimonianza sull’uomo. Egli infatti conosceva quello che c’è nell’uomo” (Giovanni 2.23-25). E non poteva essere diversamente, poiché era stato presente, partecipe e protagonista alla creazione di Adamo.
“Io sono venuto nel nome del Padre mio” quindi sono l’unico a cui dovete dare ascolto, ma purtroppo “se un altro venisse nel proprio nome, lo accogliereste” (v.43), questo perché non avrebbe coinvolto la loro conversione, non avrebbe demolito il concetto di superiorità sugli altri uomini che quegli scribi e farisei avevano di loro stessi. I Giudei avrebbero accolto uno venuto da se stesso, “nel suo nome”, cioè secondo i suoi scopi e idee opposte al Vangelo. Gesù qui esprime il concetto al condizionale, “Se… lo accogliereste”, stante la realtà del momento e per parlare meglio alla coscienza di quei Giudei, ma estese il concetto ai suoi discepoli: “Allora, se qualcuno vi dirà «Ecco, il Cristo è qui», oppure «È di là», non credeteci; perché sorgeranno falsi cristi e falsi profeti e faranno grandi segni e miracoli, così da ingannare, se possibile, anche gli eletti. Ecco, io ve l’ho predetto” (Matteo 24.24). E vediamo che tornano i “segni” e i “miracoli” come strumento di seduzione e distrazione dalla fede di cui abbiamo già dato cenni in precedenti riflessioni. Ecco perché, prima di credere a un “miracolo” o a un “segno” verificato come tale e non come un trucco, occorre procedere con grande cautela e non riceverlo automaticamente come da Dio.
Al verso 44 Gesù afferma che era proprio il fatto che questi cercassero “la gloria gli uni dagli altri” a impedir loro di credere: la visione orizzontale, il bisogno di rispetto della gente e dei loro simili di professione aveva creato un circuito chiuso in cui tutto era a loro misura. Troviamo scritto in Romani 2.29, chiesa formata da Giudei e Pagani convertiti, “…ma Giudeo è colui che lo è interiormente e la circoncisione è quella del cuore, nello spirito, non nella lettera; la sua lode non viene dagli uomini, ma da Dio”.
Proseguendo nella lettura del nostro testo, ora Nostro Signore passa a toccare un argomento molto caro ai Giudei e sul quale erano convinti di basare tutta la loto vita: “Non crediate che sarò io ad accusarvi davanti al Padre; vi è già chi vi accusa: Mosè, nel quale riponete la vostra speranza. Se infatti credeste a Mosè, credereste anche a me, perché egli ha scritto di me. Ma se non credete ai suoi scritti, come potrete credere alle mie parole?”. È un’accusa molto forte, quella di non credere realmente agli scritti di Mosè, quindi alla Torah intera. Scrive l’apostolo ai Romani: “Rendo loro testimonianza – ai Giudei – che hanno lo zelo per Dio, ma non secondo conoscenza. Poiché ignorando – cioè non conoscendo realmente e trascurando – la giustizia di Dio e cercando di stabilire la propria giustizia non si sono sottoposti alla giustizia di Dio perché il fine della legge è Cristo, per la giustificazione di ognuno che crede” (Romani 10.2-4).
Deuteronomio 18.15-18, parole di Dio a Mosè: “Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me. A lui darete ascolto. (…) Io susciterò un profeta in mezzo ai loro fratelli e gli porrò in bocca le mie parole ed egli dirà loro quanto io gli comanderò. Se qualcuno non ascolterà le sue parole, io gliene domanderò conto”. Ma se raccordiamo queste parole a Cristo, “fine della legge”, non pensiamo fare a meno di pensare che è Lui lo scopo finale della promulgazione di essa perché il popolo di Israele potesse comprendere l’importanza di essere liberati da lei attraverso il sacrificio, unico e fatto una volta per sempre, del Figlio. Il “fine della legge”, “il“ e non “la”, trova così in Cristo il punto di arrivo di un percorso inteso al tempo stesso come l’inizio di una vita nuova sia sulla terra, con il cammino della conversione e la guida dello Spirito Santo, sia nel cielo con lui in attesa dei “Nuovi cieli e nuova terra dove dimora stabile la giustizia”.
“Se non credete ai suoi scritti, come potete credere alle mie parole?”: abbiamo il verbo “credere” nella sua unica applicazione possibile, scritturalmente parlando, che ci parla di assimilazione, comprensione, accoglimento, azione, coscienza. Credere significa capitolare nel proprio orgoglio per arrendersi a Dio attraverso quella che definisco “distruzione pacifica di sé”, cioè la conquista della conoscenza di ciò che è davvero importante. Mettere dei paletti alla Parola di Dio, fare dei “distinguo”, arrogarsi il diritto di tenere per sé uno spazio interiore negativo di fronte a Lui che ci ha creato e ha parlato, è quanto di più dannoso che un credente possa fare.
Il risultato della non credenza reale dei Giudei nella Legge di Mosè è così descritto, ancora nella lettera ai Romani: “I gentili, che non cercavano la giustizia, hanno ottenuto la giustizia, quella che però deriva dalla fede, mentre Israele, che cercava la legge della giustizia, non è arrivato a lei. Perché? Perché la cercava non mediante la fede, ma mediante le opere della legge – cioè la religione –; essi infatti hanno urtato nella pietra di inciampo. Come sta scritto: «Ecco, io pongo in Sion una pietra d’inciampo e una roccia di scandalo, ma chiunque crede in lui non sarà svergognato»”. Amen.
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