10.19 – Testimonianze (Giovanni 5.33-40)
33Voi avete inviato dei messaggeri a Giovanni ed egli ha dato testimonianza alla verità. 34Io non ricevo testimonianza da un uomo; ma vi dico queste cose perché siate salvati. 35Egli era la lampada che arde e risplende, e voi solo per un momento avete voluto rallegrarvi alla sua luce. 36Io però ho una testimonianza superiore a quella di Giovanni: le opere che il Padre mi ha dato da compiere, quelle stesse opere che io sto facendo, testimoniano di me che il Padre mi ha mandato. 37E anche il Padre, che mi ha mandato, ha dato testimonianza di me. Ma voi non avete mai ascoltato la sua voce né avete mai visto il suo volto, 38e la sua parola non rimane in voi; infatti non credete a colui che egli ha mandato. 39Voi scrutate le Scritture, pensando di avere in esse la vita eterna: sono proprio esse che danno testimonianza di me. 40Ma voi non volete venire a me per avere vita.
In questa terza parte del suo discorso, Gesù ricorda ai Giudei un fatto molto importante avvenuto circa due anni prima, quando Giovanni Battista predicava: “Voi – cioè Scribi, Farisei e Dottori della Legge – avete inviato dei messaggeri a Giovanni ed egli ha dato testimonianza della verità”: non andarono direttamente ad ascoltarlo, ma inviarono dei loro sottoposti, delle spie che lo interrogassero, e infatti leggiamo: “Questa è la testimonianza di Giovanni, quando i Giudei gli inviarono da Gerusalemme sacerdoti e leviti a interrogarlo: «Tu chi sei?». Egli confessò e non negò. Confessò «Io non sono il Cristo». Allora gli chiesero: «Chi sei, dunque? Sei tu Elia?», «Non lo sono», disse. «Sei tu il profeta?». «No», rispose. Gli dissero allora: «Chi sei? Perché possiamo dare una risposta a coloro che ci hanno mandato. Che cosa dici di te stesso?». Rispose: «Io sono voce di uno che grida nel deserto: Rendete diritta la via del Signore, come disse il profeta Isaia»” (Giovanni 1. 19-23). A queste domande sappiamo che ne seguirono altre sul perché battezzasse e capire meglio la sua identità.
Il Battista, ultimo dei profeti dell’Antico Patto, l’unico ad avere avuto il privilegio di annunciare l’arrivo del Figlio di Dio operante in quel momento, a differenza degli altri che lo “videro da lontano”, è definito “la lampada che arde e risplende” proprio per la funzione da lui avuta. Vero è che alla figura di Giovanni Battista abbiamo dedicato diversi capitoli, ma qui possiamo soffermarci sul fatto che Gesù non parla di “una” lampada, ma di “la lampada” dando così un significato alle parole “Tra i nati di donna non sorse alcuno maggiore di Giovanni Battista”. Quello della “lampada” è un paragone che fa lo stesso apostolo Pietro che scrive nella sua prima lettera in 2.19 “E abbiamo anche, solidissima, la parola dei profeti, alla quale fate bene a volgere l’attenzione come a lampada che brilla in un luogo oscuro, finché non spunti il giorno e non sorga nei vostri cuori la stella del mattino”. La notte, allora, qui è sinonimo di veglia e non di sonno.
Le parole degli antichi uomini di Dio, quindi, hanno dato una luce in un “luogo oscuro”, dando speranza e consolazione a coloro che aspettavano chi li riscattasse, ma Giovanni ebbe la funzione di prepararli alla venuta del Figlio presente in mezzo a loro. Le parole “voi solo per un momento avete voluto rallegrarvi alla sua luce” mettono poi in risalto il comportamento di quella parte del popolo che più di ogni altra avrebbe potuto e dovuto riconoscere in Gesù il Cristo ma, quando si trattò di mettere in discussione la loro esistenza e mettere in pratica il ravvedimento, rinunciarono. Le parole “per un breve tempo”, letteralmente “per un’ora”, mettono bene in risalto il fatto che, inizialmente, a Giovanni accorreva gente da ogni parte e lo ascoltava con entusiasmo perché proclamava l’arrivo del Messia e si aspettavano un re temporale; quando però il Battista iniziò ad accusarli nella coscienza e ad esortarli a cambiare tutto il loro modo di agire e pensare, allora si ritirarono da lui. Pensiamo alle conseguenze del miracolo della “moltiplicazione dei pani e dei pesci”: coloro che furono sfamati da Gesù, e dagli Apostoli che portarono loro materialmente il cibo pensarono che, se era stato in grado di sfamare più di cinquemila persone partendo da cinque pani e due pesci, chissà cosa avrebbe potuto fare se fosse stata la loro guida e quali vittorie e benessere avrebbe portato per tutti. Guardando però alla sussistenza materiale e trascurando completamente il significato vero di quel miracolo, Nostro Signore si ritrasse da loro.
Tra le due frasi su Giovanni Gesù inserisce la frase “Io non ricevo testimonianza da un uomo, ma vi dico queste cose perché siate salvati” a sottolineare che, se il Battista ebbe una funzione così importante, Lui ne aveva ed ha una maggiore, come lo stesso omonimo apostolo riporta nella sua prima lettera: “Se accettiamo la testimonianza degli uomini, la testimonianza di Dio è superiore. E questa è la testimonianza di Dio, che egli ha dato riguardo al proprio Figlio. Chi crede nel Figlio di Dio, ha questa testimonianza in sé. Chi non crede a Dio, fa di lui un bugiardo, perché non crede alla testimonianza che Dio ha dato riguardo al proprio Figlio. E la testimonianza è questa: Dio ci ha donato la vita eterna e questa vita è nel suo Figlio. Chi ha il Figlio, ha la vita; chi non ha il Figlio di Dio, non ha la vita” (5.9-12).
Sicuramente, tra le parole appena riportate, vale la pena evidenziare “Chi non crede a Dio”, cioè “a” e non “in”, che stabiliscono il fatto che Uno solo è il Dio che parla davvero, l’autore del Messaggio che risolve il problema della vita dell’essere umano. Credere “a” significa fondare la fiducia e accogliere le verità che vengono proposte, credere “in”, per lo meno qui, equivarrebbe a restare nelle incertezze di prima, limitandosi ad accettare l’idea dell’esistenza di un generico essere superiore. In altri termini qui l’apostolo Giovanni vuole dire a chi legge che ciò che importa è credere nelle parole che Dio ha voluto rivelare all’uomo perché non si perda: la vita è nel Figlio e nessun altro la può dare.
Gesù ricorda ancora una volta il suo essere Uno con il Padre: da una parte abbiamo Lui che, con le sue opere, testimonia di chi lo ha mandato e, dall’altra, il Padre stesso è intervenuto dando testimonianza di Lui (ricordiamo ad esempio quanto avvenne al Suo battesimo). Qui dobbiamo avere sempre presente che, per la Legge, un fatto che fosse testimoniato da più di una persona era accettato da tutti come vero e, nel nostro caso, i testimoni non sono due uomini, ma il Padre e il Figlio che agiscono sempre in modo tale che la creatura sia impossibilitata a negare anche legalmente la loro esistenza e la veridicità del loro operato per la loro salvezza.
Anche la più piccola cosa creata porta la firma di Dio, se la si vuole leggere: “L’ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà e ingiustizia di uomini che soffocano la verità nell’ingiustizia, poiché ciò che di Dio si può conoscere è loro manifesto; Dio stesso lo ha manifestato a loro. Infatti le sue perfezioni invisibili, ossia la sua eterna potenza e divinità, vengono contemplate e comprese dalla creazione del mondo attraverso le opere da lui compiute. Essi dunque non hanno alcun motivo di scusa perché, pur avendo conosciuto Dio, non lo hanno glorificato né ringraziato come Dio, ma si sono perduti nei loro vani ragionamenti e la loro mente ottusa si è ottenebrata” (Romani 1.18-21). Qui Paolo scrive ai credenti della Chiesa di Roma, composta da Giudei e Pagani convertiti, ma Gesù parlava proprio a coloro che, pur avendo ereditato le promesse di Dio, le rigettavano convinti che il loro sapere fosse superiore al Suo. Tutto questo nonostante le due testimonianze, quella del Padre e quella del Figlio che avevano un solo scopo: “vi dico queste cose perché siate salvati” (v.34).
A questo punto, dalla seconda parte del verso 37, Gesù ricorda ai presenti che non avevano mai né udito la voce di Dio, né avevano visto il suo volto eppure credevano, anche se in modo sbagliato, cioè religiosamente vuoto perché “la sua parola non rimane in voi; infatti non credete a colui che egli ha mandato”. La parola che rimane è quella che attecchisce nel cuore e nella mente, è seme che germina, è ricordo permanente e operativo, è tesoro che si custodisce gelosamente perché è riposto per la vita eterna nell’attesa che questa si realizzi pienamente. E se ci soffermiamo su quel “rimanere”, non possiamo fare a meno di pensare che quei maestri fondavano il loro sapere proprio sulle Scritture che venivano studiate, elaborate e sminuzzate, analizzate e interpretate lettera dopo lettera da secoli. Eppure non avevano aperto la minima breccia in quei cuori.
C’è allora un “rimanere” inutile, che nel nostro caso potremmo collegare a Ecclesiaste 12.12 “Non si finisce mai di scrivere libri e il molto studio affatica il corpo”, e uno utile che si concreta nell’ascolto sincero della parola di Dio. Ricordando le parole di Salomone appena riportate, poi, da come proseguono si comprende perché Gesù abbia detto “Voi non volete venire a me per avere vita”: “Conclusione del discorso, dopo aver ascoltato tutto: temi Dio e osserva i suoi comandamenti, perché qui sta tutto l’uomo. Infatti, Dio citerà in giudizio ogni azione, anche tutto ciò che è occulto, bene o male” (vv.13,14). Il “non volere” andare a Lui è il problema che sta alla radice: un metodo di pensiero blando potrebbe ipotizzare che, in fondo, Gesù era troppo diretto nei confronti di quei Giudei che, per la loro formazione, non avrebbero potuto pensare diversamente, ma si tratta di un ragionamento profondamente errato perché un’anima che prova una sete vera cerca acqua e non dei surrogati. In pratica, Gesù dice a quei Giudei che era il loro spirito e chi li abitava a rifiutarlo, non la cultura e il loro infantile volersi arroccare su posizioni che più volte aveva smentito senza che avessero argomenti per ribattere.
Chiunque rifiuta il Vangelo, quindi, secondo le parole di verità pronunciate da Gesù, non è che non può perché ha avuto una vita che lo ha condizionato a tal punto da renderlo impenetrabile al messaggio di Dio e quindi sarà scusato, ma è sempre e solo perché non vuole: “Non volete venire a me” e certo sui meccanismi psicologici che determinano questo rifiuto ci sarebbe molto da dire, ma non aggiungerebbe nulla alla sintesi, al giudizio espresso da quel Gesù che è il solo a leggere l’uomo e capirlo profondamente. La diagnosi è sempre la stessa, “non volete”.
Molti amano “ragionare” mettendo a confronto la scelta di non credere con l’esistenza del libro della vita su cui già sono scritti i nomi dei salvati, dissertando sulla predestinazione, ma la questione è sbagliata perché l’uomo non è mai destinato a qualcosa, ma è sempre libero in quanto percorre il presente, non il futuro. Se mai, sono le scelte di ora che determinano ciò che avverrà dopo. Sempre, così allora come oggi. Amen.
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