10.17 – IL PARALITICO DI BETESDA II/II (Giovanni 5.9-18)

10.17 – Il paralitico di Betesda II (Giovanni 5.9-18)

 

Quel giorno però era un sabato. 10Dissero dunque i Giudei all’uomo che era stato guarito: «È sabato e non ti è lecito portare la tua barella». 11Ma egli rispose loro: «Colui che mi ha guarito mi ha detto: «Prendi la tua barella e cammina»». 12Gli domandarono allora: «Chi è l’uomo che ti ha detto: «Prendi e cammina»?». 13Ma colui che era stato guarito non sapeva chi fosse; Gesù infatti si era allontanato perché vi era folla in quel luogo. 14Poco dopo Gesù lo trovò nel tempio e gli disse: «Ecco: sei guarito! Non peccare più, perché non ti accada qualcosa di peggio». 15Quell’uomo se ne andò e riferì ai Giudei che era stato Gesù a guarirlo. 16Per questo i Giudei perseguitavano Gesù, perché faceva tali cose di sabato. 17Ma Gesù disse loro: «Il Padre mio agisce anche ora e anch’io agisco». 18Per questo i Giudei cercavano ancor più di ucciderlo, perché non soltanto violava il sabato, ma chiamava Dio suo Padre, facendosi uguale a Dio.

 

Dopo aver narrato in sintesi quanto avvenuto a Betesda, Giovanni passa a spiegare le conseguenze dell’operato di Nostro Signore che aveva visto, conosciuto ed era intervenuto nei confronti di quell’infermo. Anche oggi il cristiano quindi sa che Gesù fa le stesse cose verso di lui: il Suo “vedere” implica la presa d’atto di una situazione, il “sapere” implica la Sua conoscenza nel profondo dei meccanismi psicologici che si creano all’interno dell’anima della persona e, infine, l’intervento si verifica nel momento esatto in cui non si può fare a meno di attribuire a Lui, e a Lui solo, la liberazione da una condizione penalizzante, materiale o spirituale.

Gesù ancora una volta, a Betesda, soccorre un “ultimo”: molti potevano affermare di essere stati guariti, riuscendo ad entrare per primi in quell’acqua, da un intervento angelico che testimoniava le attenzioni di Dio per il Suo popolo, ma uno solo poteva dichiarare, con una guarigione visibile a tutti, di aver beneficiato della cura diretta di Dio, per quanto ancora non lo avesse realizzato interamente e non sapeva chi fosse chi lo aveva guarito. Certo nessuno dei tanti che passavano per quel luogo aveva mai chiesto a quell’infermo se avesse voluto guarire, certo nessuno di quelli gli avrebbe mai potuto dire “Alzati, prendi la tua barella, e cammina” mettendolo in condizioni di concretare quell’ordine, diretto al suo corpo, cioè all’involucro, ma che attestava anche il perdóno dei suoi peccati.

Abbiamo accennato al significato di quei trentotto anni, trascorsi certo a soffrire immobile o comunque in una condizione di forte penalizzazione, ma non dobbiamo trascurare il fatto che quell’uomo aveva avuto l’opportunità di pensare al perché era stato reso così: abbiamo infatti letto le parole “Ecco, sei guarito! Non peccare più, perché non ti accada qualcosa di peggio” (v.14), frase diretta non più al corpo, ma all’anima, conscia del peccato commesso e del fatto che le due preghiere, quella di guarire e di essere perdonato, erano state accolte.

C’è una realtà che Giovanni mette in primo piano e che condiziona tutto il nostro episodio: il sabato, giorno di riposo di cui abbiamo già sottolineato il significato e che sappiamo essere stata stravolta dall’interpretazione dei Maestri. A prima vista il richiamo dei Giudei “È sabato, non ti è levito portare la tua barella” aveva un suo significato, poiché effettivamente in quel giorno non si potevano portare dei pesi: “Così dice il Signore: Per amore della vostra stessa vita, guardatevi dal trasportare un peso in giorno di sabato e dall’introdurlo per le porte di Gerusalemme. Non portate alcun peso fuori dalle vostre case in giorno di sabato e non fate alcun lavoro, ma santificate il giorno di sabato come io ho comandato ai vostri padri.” (Geremia 17. 21,22).

Quando però fu loro risposto “Colui che mi ha guarito mi ha detto: «Prendi la tua barella, e cammina»”, vediamo che non vi fu alcuna intenzione di approfondire quella guarigione, ma piuttosto il cercare il responsabile dell’istigazione a infrangere le norme su quel giorno. Non è un particolare da poco, perché quella che a prima vista poteva sembrare un’infrazione alle norme sul sabato, per cui porrebbe quei Giudei dalla parte della ragione, in realtà non lo era, ma rientrava nelle cosiddettte “opere di necessità e misericordia”; ricordiamo ad esempio Matteo12.11 “Chi di voi, se possiede una pecora e questa, in giorno di sabato, cade in un fosso, non l’afferra e la tira fuori? Ora, un uomo vale più di una pecora! Perciò è lecito in giorno di sabato fare del bene”, oppure Luca 13.15 a proposito della donna curva da diciotto anni: “Ipocriti, non è forse vero che di sabato ciascuno di voi slega il suo bue o l’asino dalla mangiatoia, per condurlo ad abbeverarsi? E questa figlia di Abramo, che Satana ha tenuto prigioniera per ben diciotto anni, non doveva essere liberata da questo legame nel giorno di sabato?”. Abbiamo già in questi due versi la spiegazione del fatto che nessuno, né Gesù, né l’uomo da lui guarito, aveva commesso un’infrazione. Chissà se quell’innominato, portando con sé la barella che per tanto tempo lo aveva tenuto prigioniero, avesse voluto conservarla a testimonianza del proprio peccato, dell’infermità ad esso conseguente e delle modalità con cui la sua guarigione era avvenuta.

La stessa risposta ai Giudei data da quell’uomo, “Colui che mi ha guarito mi ha detto: «Prendi la tua barella e cammina»”, alludeva al fatto che non era stata commessa alcuna infrazione alla legge del sabato: solo un intervento di Dio avrebbe potuto guarire quella persona e quindi, essendogli stato detto così, non poteva esservi contraddizione nel senso che sarebbe stato impossibile guarire e peccare subito dopo. In risposta non abbiamo la domanda “Chi ti ha guarito?”, ma “Chi ti ha detto?”, ignorando volutamente quel miracolo che parlava di vita e di perdono, per sostare sulla loro legge interpretata, che in quell’intervento divino trovava evidentemente il suo annullamento. Quello dei Giudei fu un metodo perverso, tipico di chi si ritiene una sorta di “guardiano della fede”, che trova nell’applicazione della norma la ragione del proprio orgoglio, ma non è in grado di vedere oltre, di giudicare vagliando le ragioni di un’azione per inquadrare correttamente un determinato avvenimento. Si può affermare che, in realtà, chi “si faceva uguale a Dio” erano loro, non Gesù.

Il verso 14 della nostra traduzione inizia con “Poco dopo Gesù lo trovò nel tempio”, ma sarebbe stato più appropriato scrivere “Dopo tutto questo” (metà pànta), parole che indicano un intervallo di tempo più ampio tra il miracolo e l’incontro: quell’uomo aveva desiderato tornare al Tempio, figura della presenza di Dio, dal quale era stato lontano per trentotto anni. Nello scorso capitolo ho scritto che avrebbe potuto benissimo andare da un’altra parte a festeggiare l’avvenuta guarigione, ma era consapevole che in nessun altro luogo avrebbe potuto trovare il proprio significato e la sua presenza sommessa una ragione. Il Signore lo aveva guarito, anche se non conosceva ancora l’identità di Colui che era stato il Suo strumento, se un angelo diverso o un profeta.

Anche qui abbiamo una conferma che ogni esperienza dell’uomo col Signore è personale, individuale, non accomunabile a quella di altri. C’è chi chiede il Suo aiuto e lo ottiene, e chi lo prova direttamente senza nemmeno conoscerlo e quindi cerca di capirne la provenienza, ma comunque tutti, indistintamente, passano da una condizione di peccato con le sue visibili, tangibili conseguenze, alla liberazione da esso.

Per il modo con cui Gesù si rivela a quest’uomo, poi, pare che sia intercorso fra i due un dialogo parallelo, interiore, che Giovanni non ha scritto, ma ha lasciato intendere perché le parole di Nostro Signore sembrano indirizzate a una persona perfettamente in grado di comprenderle: “Va’ e non peccare più, perché non ti accada qualcosa di peggio”: “Va’” perché sei libero, “non peccare più” cioè non ritornare al peccato che ti ha reso invalido. In quel “qualcosa di peggio”, poi, non vi è un allusione al fatto che sarebbe tornato nella condizione che lo aveva portato a Betesda, ma alla “morte seconda”, cioè all’impossibilità di tornare indietro dal destino che sceglie chi rifiuta il Vangelo o, peggio, lo abbandona coscientemente una volta conosciutolo. Tornare al proprio peccato significa agire e pensare come prima dell’incontro con Gesù, non certo cadere accidentalmente perché deboli, distratti, soggetti a conoscere l’umiliazione dell’infedeltà naturale che portiamo con noi come eredità in Adamo. Ricordiamo che Pietro, certamente sincero, disse al suo Maestro per tre volte “Signore, tu sai che io ti amo”, e poi lo sconfessò terrorizzato per altrettante.

Arriviamo così al verso 15, “Quell’uomo se ne andò e riferì ai Giudei che era stato Gesù a guarirlo” in cui vediamo non una delazione, ma una volontà di testimoniare: finalmente sapeva chi lo aveva guarito, e suppongo anche perché. Il verbo greco usato, anéngheile, racchiude infatti in sé il senso dell’annuncio e non del tradimento; è come se volesse dire ai Giudei “quelli che escono dall’acqua di Betesda vengono guariti da un angelo, ma io sono stato guarito da Gesù”: ci sarebbe voluto poco per trarre le necessarie conclusioni, soprattutto per loro, studiosi della Legge che, se fossero stati sinceri, avrebbero dovuto rivedere molte loro posizioni. Sarebbe bastato il fatto che le guarigioni di Betesda avvenivano anche di sabato per fare le dovute proporzioni. Invece, “Voi circoncidete un uomo anche di sabato. (…) ora voi vi sdegnate contro di me perché di sabato ho guarito interamente un uomo? Non giudicate secondo le apparenze; giudicate con giusto giudizio!” (Giovanni 7.23,24). Sono parole di una linearità unica, che tuttavia non vennero prese in considerazione, neppure minimamente.

La volontà di rimanere ciechi da parte dei Giudei trova una grande sottolineatura nel verso 16, “Per questo i Giudei perseguitavano Gesù, perché faceva tali cose nel giorno di sabato”, che confermano, oltre quanto detto, il fatto che nemmeno l’esposizione delle ragioni più elementari possono qualcosa di fronte a delle coscienze cauterizzate e a dei cuori induriti.

Le parole “Il Padre mio agisce anche ora e anch’io agisco” (v. 17) possono aver riferimento sia a ciò che avveniva in Betesda e nei confronti di quell’infermo, quanto al fatto che l’opera del Padre non s’interrompeva mai, nemmeno di sabato, e quindi anche quella del Figlio non poteva venire limitata da una norma data agli uomini, tra l’altro senza che il quel giorno venisse effettivamente, legalmente violato. Inoltre, quell’ “anche ora” in cui il Padre agiva si riferisce al fatto che Gesù, senza di Lui e al tempo stesso essendo con Lui Uno, era l’Unico a cui gli uomini avrebbero potuto dare ascolto, allora come oggi, nel loro esclusivo interesse.

Giungiamo così alla nota conclusiva di Giovanni, “per questo i Giudei cercavano ancor di più di ucciderlo, perché non soltanto violava il sabato, ma chiamava Dio suo Padre, facendosi uguale a Dio”: ancora una volta abbiamo il non voler esaminare quanto avvenuto a Betesda con gli occhi del ricercatore sincero. Quei Giudei, con la loro conoscenza, avrebbero avuto tutti gli strumenti per iniziare una sincera operazione di vagliatura: il miracolo come punto di partenza a cui avrebbe potuto far seguito un esame delle Sue parole, dei Suoi discorsi e degli altri miracoli confrontati con le parole dei profeti. Avrebbero potuto scoprire che quello era effettivamente il tempo dell’Emmanuele, del “Dio con noi” e gioirne perché posti all’interno del piano eterno di Dio per l’uomo.

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