10.3 – Riposatevi un poco (Marco 6.30-34)
“30Gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato. 31Ed egli disse loro: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo solitario, e riposatevi un poco». Erano infatti molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare. 32Allora andarono con la barca verso un luogo deserto, in disparte. 33Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero. 34Sceso dalla barca, egli video una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano pecore che non hanno pastore, e si mise ad insegnare loro molte cose”.
Giovanni, che ha taciuto gli avvenimenti che abbiamo fin qui esaminato, riannoda il filo cronologico al capitolo sesto collocando storicamente l’episodio con la frase “Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei” (v.4). Sappiamo così che stava per iniziare il secondo periodo della vita di Gesù caratterizzato dal suo salire a Gerusalemme per la seconda volta per quanto attiene alla vita pubblica. È però solo Marco a riferire l’invito a riposarsi “un poco”ai discepoli; Matteo scrive “Avendo udito questo– l’esecuzione di Giovanni Battista -, Gesù si partì di là e si ritirò in un luogo deserto, in disparte”(14.13,14) e Luca “Al loro ritorno, gli apostoli raccontarono a Gesù tutto quello che avevano fatto. Allora li prese con sé e si ritirò in disparte, verso una città chiamata Betsàida”(9.10): sono versi che mettono in risalto la comprensione umana di Nostro Signore nei confronti dei suoi, appena tornati dal viaggio missionario di cui abbiamo esaminato le istruzioni. I dodici si erano comportati così come era stato detto: avevano guarito, predicato e camminato contribuendo di molto alla diffusione del Vangelo, senza fare nulla perché l’attenzione si accentrasse su di loro, ma attribuendo ogni merito a Colui che aveva dato loro quei poteri esattamente come, più avanti, faranno Pietro e Giovanni che, salendo al Tempio, dissero allo storpio “Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho, te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, àlzati e cammina!”(Atti 3.4).
Il verso 30 ci parla del riunirsi degli apostoli attorno al loro Maestro, cui si rivolsero senza nascondere nulla, riportandogli “tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato”, azione che ci riguarda da vicino e sulla quale possiamo fare una considerazione importante: se i dodici avevano quell’appuntamento con Gesù, anche noi ne abbiamo uno identico alla fine di ogni giornata, quando ci presentiamo a Lui in Spirito e siamo chiamati a riferirgli quali sono state le nostre azioni, quanto abbiamo pensato a noi e quanto al nostro prossimo non perché siamo “brave persone”, ma perché a questo siamo chiamati. Ovviamente, nel portare il Vangelo dentro e fuori di noi, pensando alla credibilità che abbiamo prima di tutto di fronte a noi stessi: sappiamo bene che, se la nostra attenzione alla Parola di Dio si ferma all’ascolto e non viene posta in pratica, assomiglieremmo “ad un uomo che guarda il proprio volto allo specchio; appena si è guardato se ne va, e subito dimentica com’era”(Giacomo 1.24). E il marketing spirituale fa magari dei proseliti, ma molto difficilmente salva.
L’Iddio che giudica e giudicherà, di cui è scritto “È cosa terribile cadere nelle mani dell’Iddio vivente”(Ebrei 10.31), è lo stesso che in Isaia 1.18 dice “Su, venite e discutiamo. Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come neve”e “discutere” significa esprimere opinioni differenti su un argomento, dialogare in modo costruttivo e positivo – mi viene da dire – per il bene di entrambi; e il “bene” di Dio, posto che Lui non ne ha bisogno, è visto nella verità espressa in Luca 15.7 a proposito della pecora perduta: “Così, vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore che si converte, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione”. È infatti quel peccatore, quell’ “uno” recuperato, che rende completo quel “novantanove” che, se rimane tale, può solo rappresentare l’imperfezione.
Comunque, là dove il mondo progetta il giorno che verrà, il credente deve soffermarsi su quello che il giorno è stato, esaminare con Gesù Cristo i suoi sbagli, individuare le mancanze e far tesoro di queste esperienze affinché il cammino del giorno a venire – se gli sarà concesso – sia migliore del precedente. Così facendo, scoprirà l’enormità del lavoro che avrà ancora da fare perché il suo “uomo interiore”possa rinnovarsi all’immagine di Colui che l’ha creato. E la vigilanza su noi stessi, tanto raccomandata in tutta la Scrittura, non consiste nella costrizione al “fare” o al “non fare”, ma nel cercare le ragioni dei nostri comportamenti negativi per risolverli serenamente: è questo un metodo diverso, che si distacca profondamente da quello religioso che Nostro Signore descrisse nella parabola dei due figli: “Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: «Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna». Ed egli rispose: «Non ne ho voglia». Ma poi si pentì, e vi andò. Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: «Sì, signore». Ma non vi andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre? Risposero: «Il primo». E Gesù disse: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio»”(Matteo 21.28-31).
Tornando al radunarsi dei dodici presso di Lui, certo Gesù sapeva in anticipo quello che gli avrebbero detto, ma li ascoltò con attenzione data la moltitudine degli argomenti che sarebbero scaturiti dal loro resoconto. Era quello un riunirsi assieme dopo un viaggio missionario che si verificava per la prima volta, che gettò comunque le basi per una predicazione più estesa e che contribuirà a far conoscere il Vangelo ai suoi primi destinatari, cioè gli ebrei.
Alla fine di quel resoconto abbiamo l’invito a riposare “in disparte, voi soli”, dimostrando così comprensione della loro stanchezza in un contesto di servizio particolare e spiritualmente bellissimo perché abbiamo letto che “erano molti quelli che andavano e venivano e non avevano nemmeno il tempo di mangiare”(v.31). Era quella una situazione che abbiamo già trovato prima della definizione di cosa voglia dire essere parenti di Gesù in Marco 3.20: “Entrò in una casa e di nuovo si radunò una gran folla, tanto che non potevano neppure mangiare”.
E qui emerge la dimensione di Nostro Signore uomo, che avrebbe potuto benissimo compiere un miracolo trasportando gli apostoli con sé su un monte, come l’Avversario aveva fatto con Lui al tempo della tentazione nel deserto, ma nulla di questo avvenne. Ricordiamo che, in Samaria, Gesù, stanco, si fermò a riposare al pozzo dove poi incontrò la donna in Giovanni 4: la sua umanità fu sempre presente e a questa doveva essere soggetto, se voleva salvare l’uomo. Nessuno sconto alla sofferenza, alla fatica, alla fame, alla sete.
Stante la situazione, l’unica soluzione per far riposare “un poco”i dodici era quella di prendere la barca, ma sappiamo che “molti però li videro partire e capirono– dove sarebbero andati – e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero”. Notare l’espressione “da tutte le città”, che ci parla dell’accorrere di quella gente a Capernaum da ogni dove. Fu in quella circostanza, dopo un tempo di fatiche, predicazione e miracoli, che i dodici capirono le parole “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo”, ma non per questo, una volta scoperto che ciò valeva anche per loro, si allontanarono da lui, né gli dissero “Basta, siamo stanchi” o si chiesero se valesse la pena di vivere così, rimpiangendo il loro mestiere, con le barche e la tranquillità economica. Questo, almeno, per quanti di loro erano pescatori; un lavoro certo duro, ma che comunque un riposo lo garantiva e li ricompensava dal punto di vista della moneta.
Piuttosto gli apostoli si rimisero alla Sua volontà sapendo che “Egli dà la forza allo stanco e moltiplica il vigore allo spossato”(Is. 40.29): quello era un miracolo che Gesù, come Figlio di Dio, poteva fare. Anche Giuseppe Flavio, che stiamo imparando a conoscere per le citazioni dei suoi scritti, parlando di Gesù in un suo passo, lo descrive così “…visse Gesù, uomo saggio, se pure uno lo può chiamare uomo; poiché egli compì opere sorprendenti, e fu maestro di persone che accoglievano con piacere la verità. Egli conquistò molti Giudei e molti Greci. Egli era il Cristo” (A.G. XVIII. 63). “Se pure uno lo può chiamare uomo”, parole di uno storico appartenente ad una nobile famiglia sacerdotale israelita che conclude la sua breve nota con “Egli era il Cristo”.
Mi sono chiesto come fece la folla a precedere Gesù, ma occorre tener presente che la sua barca era a remi oltre che essere pesante (era di quelle da pesca) e che, guardando la cartina della zona, Betsaida come territorio era facilmente raggiungibile anche a piedi con un cammino di circa due ore. Per questo Marco scrive che “li precedettero”dapprima in pochi, poi sempre di più, come possiamo dedurre dal parallelo di Giovanni che così riferisce: “Dopo questi fatti, Gesù passò all’altra riva del mare di Galilea, cioè di Tiberiade, e lo seguiva una grande folla, perché vedeva i segni che compiva sugli infermi. Gesù salì sul monte e si pose a sedere coi suoi discepoli”(6.1,2). Ebbero quindi comunque, nonostante tutto, un po’ di tempo per sostare, il necessario perché il numero di cinquemila persone, che poi verranno sfamate col miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci, si completasse. Alcuni arrivarono subito, gli altri poco a poco, coi malati. Gesù e i suoi approfittarono così di quello spazio temporale, credo non sufficiente a riposare visto che nemmeno Lui, mentre gli altri erano andati a guarire e predicare, rimase inattivo.
A questo punto abbiamo la compassione di Gesù per la folla accorsa: ancora una volta vide quella gente “come pecore che non hanno pastore”. Abbiamo già parlato della pecora, ma meno del pastore, fondamentale per la sussistenza del gregge perché senza di lui si perde, non avendo il senso dell’orientamento. Un pastore può essere buono o cattivo, gli Scribi e i Farisei ostili a Gesù vengono da lui classificati come pecore non sue, ma la gente lì presente non apparteneva a nessuno, vagava senza un dove, una meta che comunque cercava perché, viceversa, sarebbe rimasta a casa propria. Erano lì perché il fatto di vedere Gesù, cosa avrebbe fatto e detto, aveva reso del tutto secondaria la preoccupazione di cosa avrebbero fatto e mangiato. Ebbene, quella gente fu accolta “e prese a parlare loro del regno di Dio e a guarire quanti avevano bisogno di cure”, quelle che altrimenti non avrebbero trovato (Luca 9.11), verso importante perché sottoscritto proprio da Luca, che era medico.
La folla, disordinata, andava dal Pastore penso anche grazie al lavoro svolto fino a poco prima dai dodici. La folla, che non sa in cosa sperare (salvo i malati), cosa aspettarsi, viene, è lì e per questo leggiamo che “si mise a insegnare loro molte cose”: alla carità mostrata verso quelli fisicamente più deboli, i malati, si accompagnò la verità proposta indistintamente a tutti, affinché nessuno potesse dire di essere tornato da quell’incontro a mani vuote. Quando si ha a che fare con Gesù, è impossibile. Al massimo, possono venire gli uccelli a prendere un seme che, comunque, è gettato. E a conferma che l’intervento di Dio sulla persona è totale, avverrà il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci, soggetto del nostro prossimo capitolo.
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