8.01 – Gadara I (Marco 5.1-20)
“1Giunsero all’altra riva del mare, nel paese dei geraseni. 2Sceso dalla barca, subito dai sepolcri gli venne incontro un uomo posseduto da uno spirito impuro. 3Costui aveva la sua dimora fra le tombe e nessuno riusciva a tenerlo legato, neanche con catene, 4perché più volte era stato legato con ceppi e catene, ma aveva spezzato le catene e spaccato i ceppi, e nessuno riusciva più a domarlo. 5Continuamente, notte e giorno, fra le tombe e sui monti, gridava e si percuoteva con pietre. 6Visto Gesù da lontano, accorse, gli si gettò ai piedi 7e, urlando a gran voce, disse: «Che vuoi da me, Gesù, Figlio del Dio altissimo? Ti scongiuro, in nome di Dio, non tormentarmi!». 8Gli diceva infatti: «Esci, spirito impuro, da quest’uomo!» 9E gli domandò: «Qual è il tuo nome?». «Il mio nome è Legione – gli rispose – perché siamo in molti. 10E lo scongiurava con insistenza perché non li cacciasse fuori dal paese. 11C’era là, sul monte, una numerosa mandria di porci al pascolo. 12E lo scongiurarono: «Mandaci da quei porci, perché entriamo in essi». 13Glielo permise. E gli spiriti impuri, dopo essere usciti, entrarono nei porci e la mandria si precipitò giù dalla rupe nel mare; erano circa duemila e affogarono nel mare. 14I loro mandriani allora fuggirono, portarono la notizia nella città e nelle campagne e la gente venne a vedere che cosa fosse accaduto. 15Giunsero da Gesù, videro l’indemoniato seduto, vestito e sano di mente, lui che era stato posseduto dalla Legione, ed ebbero paura. 16Quelli che avevano visto, spiegarono loro che cosa era accaduto all’indemoniato e il fatto dei porci. 17Ed essi si misero a pregarlo di andarsene dal loro territorio. 18Mentre risaliva nella barca, colui che era stato indemoniato lo supplicava di poter restare con lui. 19Non glielo permise, ma gli disse: «Va’ nella tua casa, dai tuoi, annuncia loro ciò che il Signore ti ha fatto e la misericordia che ha avuto per te». 20Egli se ne andò e si mise a proclamare per la Decàpoli quello che Gesù aveva fatto per lui e tutti erano meravigliati”.
Con questo passo ci troviamo di fronte ad un racconto impegnativo per diverse ragioni: è infatti un episodio contestato, quanto a veridicità, per il modo diverso con cui è raccontato dai sinottici, per le indicazioni geografiche apparentemente improbabili e contrastanti, per la zona considerata da molti commentatori territorio pagano e altro. Per quel che ci riguarda, il passo di Marco in particolare ci offre una cronaca estremamente ricca di elementi dottrinali e spirituali, non affrontabile in un unico capitolo, o incontro.
Iniziamo inquadrando il nome del territorio: il testo di Matteo riporta “Xòran ton Gerghesenòn”, cioè “Contrada dei Gergheseni”, mentre Marco e Luca “Gadarenòn”, “Gadareni”, che molti, sulla base di altri testi antichi, hanno voluto sostituire con la parola “Gherasenòn”, “Geraseni”. Potremmo dire che “nella zona”, per quanto distanti una ventina di chilometri circa, c’erano due città, Gerasa e Gadara, la prima troppo lontana dal lago per cui difficilmente avrebbe potuto dare nome a quel distretto mentre la seconda, più vicina, una delle città greche della Decàpoli e capitale della Perea, avrebbe potuto meglio costituire un riferimento geografico, per quanto non corrispondente alla località effettiva in cui avvenne l’episodio. Gerasa non era molto conosciuta, ma Gadara sì e in questo modo chiamare quel luogo “la contrada dei Gadareni” era plausibile. Abbiamo così Gerasa e Gadara, ma anche Gherghesa, la cui esistenza è attestata da Origene ed Eusebio (200 d.C. circa), posta ad Oriente del lago, il cui nome poi fu mutato in Gersa, o Kerza. Gherghesa era posta nelle immediate vicinanze del lido e, sopra di lei, sorge a picco un monte in cui si trovano delle antiche tombe che rendono tecnicamente plausibile il racconto dei sinottici e che quindi fosse quello il paese nei pressi del quale Gesù fosse approdato coi discepoli.
Va ricordato che gli Autori dei Vangeli non scrivono per dare dei resoconti unitari, ma con scopi spirituali, cosa ben diversa rispetto al dare testimonianza – faccio per dire – in un processo in cui ciò che dicono i testi deve coincidere.
Fermiamoci un attimo, leggiamo i passi paralleli e chiediamoci chi degli Apostoli fosse presente: certamente Matteo e Pietro. Il primo scrive autonomamente, il secondo racconta l’episodio a Marco con molti più dettagli, forse spronato con domande e chiarimenti dall’evangelista stesso. Leggendo Matteo 8.28-34 vediamo che l’episodio viene affrontato quasi accennandolo con molti particolari in meno rispetto a Marco e Luca, che scrive dopo aver fatto ricerche accurate e intervistato i testimoni: Matteo parla di due indemoniati tratteggiandoli a grandi linee mentre gli altri si soffermano su uno solo, ma riesce difficile parlare di discordanza proprio per la prospettiva spirituale che tutti loro si prefiggono in quando la questione non è narrare un fatto storico, ma presentarlo in modo unico anziché univoco.
La nostra attenzione, per ora, si deve focalizzare sul nome “Gadara” che, come da radice, apparteneva alla tribù di Gad la quale, assieme a quella di Ruben e alla metà di Manasse, chiese a Mosè di non passare il Giordano e che gli fosse assegnato il paese di Galaad, ricco di pascoli perché possedevano parecchio bestiame (Numeri 32.1). Ricordiamo infatti le loro parole: “Se abbiamo trovato grazia ai tuoi occhi, sia concesso ai tuoi servi il possesso di questa regione: non farci passare il Giordano” (v.5). Fu una richiesta certo dettata da interesse, ma non per questo quelle tribù non rifiutarono di dare il loro contributo militare alla conquista del Paese al di là del fiume. Per questo fu loro risposto: “Se fate questo, se vi armerete davanti al Signore per andare a combattere, se tutti quelli di voi che si armeranno passeranno il Giordano davanti al Signore finché egli abbia scacciato i suoi nemici dalla sua presenza, se non tornerete fin quando la terra sia stata sottomessa davanti al Signore, voi sarete innocenti di fronte al Signore e di fronte a Israele, e questa terra sarà vostra proprietà alla presenza del Signore. Ma se non fate così, voi peccherete contro il Signore; sappiate che il vostro peccato vi raggiungerà. Costruitevi pure città per i vostri fanciulli e recinti per le vostre greggi, ma fate quello che la vostra bocca ha promesso” (vv.20-24). E così avvenne, con Gad, Ruben e Manasse che mantennero la loro parola.
A parte quindi il nome greco di tutta la regione, Decàpoli, il fatto che fosse un territorio più “aperto” ad altre culture e che indubbiamente fosse più forte l’influenza greca rispetto a quella dell’Israele propriamente detto, Gesù, approdando in territorio Gadareno, riconobbe quella zona parte integrante dei confini assegnati da Mosè e Giosuè al popolo ebraico. Viceversa, cioè se la Decàpoli fosse stata un territorio esclusivamente pagano, vi sarebbe una palese contraddizione con le parole dette alla donna Sirofenicia, “Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa di Israele” (Marco 7.24-30). Non era ancora giunto il tempo per cui del Vangelo avrebbero potuto beneficiare tutti i popoli.
Non si può concludere questa introduzione senza notare che il miracolo degli indemoniati gadareni occupa un punto centrale, importante, determinante, essendo il secondo dei tre esorcismi riportati da Marco: il primo fu quello dell’indemoniato nella Sinagoga di Capernaum e il terzo, ancora da trattare, fu “di riparazione” perché i discepoli, tranne Pietro, Giacomo e Giovanni presenti alla trasfigurazione, non erano riusciti a guarirlo (9.14-29). Dopo aver accennato al territorio, passiamo ad esaminare i protagonisti del miracolo, cioè gli indemoniati, i demòni, i porci, i mandriani e gli abitanti di Gerghésa.
GLI INDEMONIATI
La prima questione che si pone, cioè se fossero due o uno, credo di risolva da sola nel senso che Matteo, che non scende nei dettagli, scrive che erano due, entrambi con le stesse manifestazioni: “Due indemoniati, uscendo dai sepolcri, gli andarono incontro; erano tanto furiosi che nessuno poteva passare per quella strada” (8.28). Da qui in poi l’evangelista parla sempre al plurale, ma non li tratteggia come Marco e Luca. A questo punto le supposizioni sono due: o erano entrambi identici nei comportamenti, o uno li aveva più accentuati e si caratterizzava di più per cui gli altri evangelisti si soffermano su uno. Il numero due, poi, indica tanto associazione quanto opposizione per cui già di per sé abbiamo un indice di disordine, divisione, discordia, sconnessione, qualcosa che non può durare nel tempo. Pensiamo a quanto siano drammatici i disturbi della personalità. Alla luce quindi di quanto leggiamo nelle due altre cronache dello stesso episodio, quindi, d’ora in avanti i due indemoniati verranno considerati come uno solo. Luca riporta “Da molto tempo non portava vestiti, né abitava in casa, ma in mezzo alle tombe” (8.27), “sepolcri” o “tombe” diversi da come le conosciamo noi, essendo grotte naturali o scavate nelle rocce. Quegli indemoniati dunque occupavano le tombe ancora libere perché in tal modo potevano ripararsi dalle intemperie, come animali. Abitavano in un luogo impuro, di silenzio e morte cui si aggiungeva la loro disperazione caratterizzata da uno stato mentale profondamente alterato. Parlando al singolare per le ragioni sopra esposte, viene ritratto da Marco e Luca un individuo sconnesso che vive fuori dalla società, caratterizzato da gesti insensati e violenti, indomabile. Il fatto che per proteggere loro stessi i suoi concittadini avessero trovato come unico rimedio quello di legarlo con catene senza successo, poiché “nessuno riusciva a tenerlo legato, neanche con catene, perché più volte era stato legato con ceppi e catene, ma aveva spezzato le catene e spaccato i ceppi, e nessuno riusciva più a domarlo” ci parla dell’impotenza dell’uomo di fronte a un’entità, come quella satanica, a lui superiore.
Presumo che quei “ceppi e catene” utilizzati siano stati sempre più forti man mano che questo personaggio li rompeva eppure, nonostante gli stratagemmi, ogni contenzione era impossibile. Marco ci dice che “continuamente, notte e giorno, fra le tombe e sui monti, si percuoteva con pietre”, quindi gli spiriti che lo possedevano, anziché avere riguardo per lui, lo oltraggiavano ancora di più, facendogli del male. Quell’uomo, o uomini, erano stati privati di qualsiasi forma di dignità e ragione fino all’annullamento del loro istinto di sopravvivenza, avendo raggiunto il più alto livello di dipendenza dall’Avversario che li aveva colpiti nella ragione. La stessa cosa avviene anche oggi, quando uno spirito impuro si impadronisce di una persona indipendentemente dal grado di possessione: dimentichiamo l’immagine che danno i media dell’indemoniato e soffermiamoci sulla mancanza di dignità alla quale porta il continuo rifiuto del messaggio di ravvedimento del Vangelo. Senza di lui siamo abbandonati a noi stessi, preda dei nostri desideri e istinti coi quali ci feriamo non fisicamente ma, come vedremo quando esamineremo i nomi degli spiriti immondi, moralmente. La sofferenza di quell’uomo non conosceva periodi di pausa, ma vagava “notte e giorno”, nemico prima di se stesso e poi dei propri simili che di fronte a lui/loro provavano l’unica reazione possibile: ribrezzo e soprattutto paura, talché “nessuno poteva passare per quella strada” (Matteo 8.28).
Ebbene lo spirto impuro (erano molti, ma ce n’era uno più forte degli altri), vedendo Gesù, prende immediatamente coscienza del fatto che era arrivato chi lo avrebbe sconfitto e subito corre da lui, gli si getta ai piedi e gli dice “Che vuoi da me Gesù, figlio del Dio altissimo? Ti scongiuro in nome di Dio di non tormentarmi!”. Di fronte a un’altra traduzione, “Che hai in comune con me?”, un fratello annota “Tanto Satana che Gesù si identificano nell’uomo, ma con scopi totalmente diversi”. L’uomo è infatti al tempo stesso oggetto dell’odio dell’uno e dell’amore dell’altro, con la differenza che il primo si impone violentemente e l’altro si propone lasciando libera scelta.
Satana riconosce Gesù come “Figlio del Dio altissimo” prima degli uomini, ma lo fa perché sa chi è; ancora di più sa che il suo destino è il tormento nello “stagno di fuoco e zolfo”. Ricordiamo che Matteo riporta “Sei venuto a tormentarci prima del tempo?” (v.29), frase con cui la “Legione” gli ricorda che non era ancora giunto quel momento, per cui avrebbe dovuto lasciarli stare dov’erano. Per quanto forte sull’essere umano che gli ha dato spazio – ricordiamo le parole “fuggite il male, ed egli fuggirà da voi” –, nessuna entità avversa potrà conseguire una vittoria sul Cristo ed è costretta ad ubbidirgli per cui anche in quel caso, pur di non allontanarsi da quel territorio, leggiamo che “lo scongiurava con insistenza perché non li cacciasse fuori dal paese” e “Mandaci da quei porci, perché entriamo in essi”.
Isaia 65.2-5 ci fornisce un interessante e triste ritratto delle condizioni di chi viveva in quel Paese: “Ho teso la mano ogni giorno a un popolo ribelle; essi andavano per una strada non buona, seguendo i loro propositi, un popolo che mi provocava sempre, con sfacciataggine. Essi sacrificavano nei giardini – non nel Tempio –, offrivano incenso sui mattoni – non sull’altare – abitavano nei sepolcri – gli indemoniati? –, passavano la notte in nascondigli, mangiavano carne suina – la mandria custodita – e cibi immondi nei loro piatti. Essi dicono: «Sta’ lontano! Non accostarti a me, che per te sono sacro»”.
Abbiamo qui la forma di ribellione più subdola, peggiore del rifiuto aperto di fronte al tema dell’esistenza di Dio perché qui è riconosciuto, ma a patto che Lui si adatti al volere della creatura che di fatto lo ha abbandonato, pretendendo che si pieghi al suo volere: il sacrificio nei giardini e l’incenso sui mattoni sono un’interpretazione carnale e comoda di fronte a un comandamento chiaro che vedeva nel Tempio il luogo comune in cui si dovevano incontrare YHWH e il suo popolo. Il Tempio era luogo sacro, protetto e permeato di santità che si realizzava nell’incontro tra Lui e il popolo adorante; l’altare, poi, costruito con misure e materiali che prefiguravano la perfezione del sacrificio del Figlio in relazione alle aspettative del Padre, era stato sostituito da un materiale, il mattone, che non aveva alcuna connessione con Lui, estraneo come le menti di chi aveva concepito quel sistema religioso con fini completamente diversi.
Il risultato lo vediamo leggendo l’episodio degli indemoniati: la presenza della mandria di porci e dei guardiani ci dice che era scomparso il concetto di puro e impuro, gli abitanti di Gherghesa pregheranno Gesù di andarsene perché aveva causato loro un danno economico senza considerare i benefici spirituali che avrebbero ottenuto ascoltando la Sua predicazione. È scritto infatti che “…quando arrivarono da Gesù, trovarono l’uomo dal quale erano usciti i demòni, vestito e sano di mente, che sedeva ai piedi di Gesù, ed ebbero paura” (Luca 8.35). Paura e non gioia per quel loro concittadino/i finalmente liberato. Paura di pensare, di prendere in considerazione che poteva esserci una realtà diversa, di abbandonare le loro convinzioni: per loro sarebbe stato meglio che le cose restassero com’erano, era preferibile continuare ad evitare la strada su cui avrebbero potuto trovarsi quegli indemoniati, che non aprire un’altra pagina della loro storia e vita.
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