7.18 – Cinque cantici II/V (Isaia 49.1-6)
SECONDO CANTICO
“1Ascoltatemi, o isole, udite attentamente, nazioni lontane; il signore dal seno materno mi ha chiamato, fino dal grembo di mia madre ha pronunciato il mio nome. 2Ha reso la mia bocca come spada affilata, mi ha nascosto all’ombra della sua mano, mi ha reso freccia appuntita, mi ha riposto nella sua faretra. 3Mi ha detto: «Mio servo tu sei, Israele, sul quale manifesterò la mia gloria». 4Io ho risposto: «Invano ho faticato, per nulla e invano ho consumato le mie forze. Ma, certo, il mio diritto è presso il Signore, la mia ricompensa presso il mio Dio». 5Ora ha parlato il Signore, che mi ha plasmato suo servo dal seno materno per ricondurre a lui Giacobbe e a lui riunire Israele – poiché ero stato onorato dal Signore e Dio era stato la mia forza – 6e ha detto: «È troppo poco che tu sia mio servo per restaurare le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti d’Israele. Io ti renderò luce delle nazioni, perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra.”.
Il secondo cantico, a differenza del primo, inizia come un appello proprio alle “isole” e “nazioni lontane” di cui in altro passo (Isaia 42.4) si dice che “attendono il suo insegnamento” perché la risposta alle domande di ogni uomo circa la propria origine e fine sarebbe giunta un giorno anche a loro. Se le “nazioni lontane” sono tali sia per distanza, ma soprattutto per mentalità, usi e costumi, sono accomunate dall’essere composte da uomini che, a differenza degli animali, hanno la possibilità di scegliere consapevolmente e determinare il loro destino.
Nel nostro passo questi popoli sono invitati a “udire attentamente”, quindi con cura, diligenza, cautela, sinonimi che escludono imprudenza, sbadataggine, distrazione. In pratica il testo tende a responsabilizzare e ad invitare, avvertire che il messaggio che sta per essere recapitato è fondamentale per la vita della persona. Ogni essere umano è chiamato a mettere alla prova, verificare, porsi delle domande su quanto verrà annunciato: “Venite, e discutiamone insieme”, com’è scritto (Isaia 1.18). Non si tratta quindi di un qualcosa che deve venire imposto, un indottrinamento forzato, non si richiede una conversione di massa come purtroppo avvenuto nella storia con effetti devastanti, ma piuttosto le parole del secondo cantico sono un annuncio rivolto ai pagani, quelli che Israele disprezza.
Occorre fare attenzione al “seno materno” qui menzionato per due volte, ai versi 1 e 5: dando un brevissimo sguardo a come è usata quest’espressione nella Scrittura, la vediamo citata nel Nuovo Testamento a proposito di Giovanni Battista e dell’apostolo Paolo: del primo è detto “sarà colmato di Spirito santo fin dal seno di sua madre” (Luca 1.15), del secondo è lui stesso a scrivere “mi scelse fin dal seno di mia madre” (Galati 1.15). Per quanto riguarda l’Antico Patto va ricordato Geremia a cui viene detto in 1.4,5: “Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto, prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato; ti ho stabilito profeta delle nazioni”. A questo profeta fu rivolto un messaggio particolare oltre che un’autorità precisa “sopra le nazioni e sopra i regni per sradicare e demolire, per distruggere e abbattere, per edificare e piantare” (v.10), eppure nessuno di questi uomini, per quanto tutti profeti e quindi con un incarico preciso e unico da parte di Dio, fu mai in grado di salvare un’anima. Il profeta, per quanto unico per messaggio, compito e appartenenza, non sarà mai paragonabile a Gesù, il Cristo, di cui l’angelo disse in sogno a Giuseppe “Il bambino che è generato in lei(Maria) viene dallo Spirito Santo; (…) egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati” (Matteo 1.20,21). Nessuno dei profeti dei due patti non solo non “venne dallo Spirito Santo”, ma neppure nacque da una vergine a conferma che solo Gesù venne al mondo senza concorso umano da parte maschile; se così fosse non avrebbe potuto avere un’origine divina e sarebbe stato soltanto una semplice creatura che, per quanto originale nel suo messaggio e grande maestro nelle Scritture, si sarebbe identificato in tutto e per tutto nella definizione di Giobbe 14.1 che accomuna ogni essere umano, nessuno escluso: “L’uomo, nato di donna, breve di giorni e sazio d’inquietudine, come un fiore spunta e avvizzisce, fugge come l’ombra e mai si ferma”.
Il primo verso del nostro cantico parla di chiamata e di nome pronunciato – “Lo chiamerai Gesù”, detto a Maria in Luca 1.31 e a Giuseppe in Matteo 1.21 –, ma il quinto riporta il “plasmare”, cioè modellare una materia malleabile dandole la forma voluta, quindi perfezione, essendo stato il Padre in persona ad agire sulla materia del Figlio per dargli la “forma” voluta quindi carattere, la funzione, la totalità dello scopo. Se allora sommiamo i dati fin qui ottenuti, cioè la chiamata, la pronuncia del nome e l’essere stato plasmato, ne abbiamo tre che testimoniano come nulla sia stato trascurato per porre in grado di operare secondo la Sua volontà quel “Figlio diletto nel quale mi sono compiaciuto” di cui è profetizzato “Ecco, io vengo, poiché di me sta scritto nel rotolo del libro, per fare la tua volontà” (Ebrei 10.7). Diversamente, come già rilevato, Gesù sarebbe stato un uomo come gli altri, impossibilitato a sconfiggere la sua stessa morte, operando miracoli apparenti, magari mettendosi d’accordo prima con qualcuno disposto a fingere di essere paralitico, lebbroso, cieco e indemoniato. Avrebbe poi plagiato dodici poveri ignoranti che, per qualche assurdo motivo, avrebbero imbastito la truffa più colossale della storia. C’è chi sostiene questo e un giorno, purtroppo per lui, dovrà assumersene la responsabilità.
Il secondo verso del cantico parla dell’opera del “servo”: alla “bocca come spada affilata” è immediato l’abbinamento con la Parola, spada a doppio taglio descritta dall’apostolo Paolo in un passo molto conosciuto di Ebrei 4.12, ma ancora di più in Apocalisse 1.16 dove leggiamo, nella visione del Cristo glorificato che parla a Giovanni, “dalla sua bocca usciva una spada a doppio taglio”.
Il “Mi ha nascosto all’ombra della sua mano” ha riferimento con il fatto che Gesù fu costantemente sotto la protezione del Padre per quanto riguarda gli interventi esterni degli uomini che poterono prenderlo, processarlo, umiliarlo e crocifiggerlo solo in un momento preciso e non prima, ma non fu da Lui agevolato nelle prove a cominciare dalla tentazione nel deserto in poi. E penso alle fatiche dei viaggi missionari e alle angosce al Getsemane, al fatto che, in croce, non vennero legioni di angeli a liberarlo.
“Mi ha reso freccia appuntita”: in mano a un valido arciere, la freccia centra subito il bersaglio a una velocità stimata di circa 250 km/h. Se il maligno tira “dardi infuocati” che hanno per scopo la distruzione indiscriminata, la “freccia appuntita” è selettiva, va dritta al punto interessato: in questo caso possiamo individuare tutte le volte in cui Gesù puntualmente demolì le false costruzioni degli Scribi e Farisei con l’interpretazione di quella Legge che si vantavano di osservare e che in realtà avevano svuotato di qualsiasi significato. Si tratta di una freccia che va dritta al cuore come nel caso in cui, dopo che Pietro predicò a Gerusalemme leggiamo che i suoi uditori “si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: «Fratelli, che cosa dobbiamo fare?»” (Atti 2.37). Non possiamo però trascurare il significato profetico del Salmo 64.7-9 da cui emerge come il rifiutare la proposta del Messaggero di Dio per eccellenza sia sufficiente a provocare un giudizio: “Tramano delitti, attuano le trame che hanno ordito; l’intimo dell’uomo e il suo cuore: un abisso! Ma Dio li colpisce con le sue frecce: all’improvviso sono feriti, la loro stessa lingua li manderà in rovina, chiunque, al vederli, scuoterà la testa”. L’intimo dell’uomo non rigenerato, ciò di cui ha più prezioso perché è la sua stessa vita, l’anima, il tutto è considerato un abisso, quindi tenebre che vanno illuminate dall’unica luce in grado di mostrargli ciò che veramente è.
“Mi ha riposto nella sua faretra” sta a indicare che la freccia è ben custodita nell’attesa di venire utilizzata, scoccata. Questa frase sta a significare quindi che, al tempo in cui Isaia scriveva, non era ancora giunto il momento per cui il “servo” si sarebbe dovuto manifestare. E qui, personalmente, si apre un collegamento davvero illuminante con l’apertura del primo sigillo nel libro dell’Apocalisse quando nessuno poteva aprire quel libro “scritto sul lato interno e su quello esterno, sigillato con sette sigilli” (5.1). Il libro della vita, su cui sono scritti i nomi dei salvati, non poteva essere aperto se non dall’Agnello immolato dopo l’apertura dei sigilli, cioè eventi precisi che interessano la storia dell’umanità. Ebbene il primo riguarda proprio la visione di “…un cavallo bianco. Colui che lo cavalcava aveva un arco; gli fu data una corona ed egli uscì vittorioso per vincere ancora” (6.1,2). Su questo passo si sono scritti davvero “fiumi d’inchiostro”, la maggioranza dei quali a sproposito; ma il colore del cavallo, l’arco, la corona e le due vittorie, una conseguita e l’altra futura non lasciano dubbi sul fatto che si tratti della venuta di Gesù sulla terra, la prima quale Figlio dell’uomo vincitore sul peccato e la morte e la seconda come trionfatore definitivo sul sistema satanico perverso e il suo artefice, sull’inferno e gli abissi degli uomini perversi.
Il terzo verso, in cui sembra si parli di Israele come popolo “servo” e quindi possa essere identificato col servo stesso, costituisce un problema solo apparente perché è indubbio che sia lui il popolo eletto fin dai tempi antichi ed è altrettanto innegabile che, rinnegando per ora il Cristo, si trovi nelle condizioni descritte dall’apostolo Paolo in 2 Corinti 3.12-15 quando, parlando degli ebrei, scrive “…e non facciamo come Mosè che poneva un velo sul suo volto, perché i figli di Israele non vedessero la fine di ciò che era solo effimero– tornando dal Sinai, quando il suo volto era splendente-. Ma le loro menti furono indurite; infatti fino ad oggi quel medesimo velo rimane, non rimosso, quando si legge l’Antico Testamento, perché è in Cristo che esso viene eliminato. Fino ad oggi, quando si legge Mosè, un velo è steso sul loro cuore; ma quando vi sarà la conversione al Signore, il velo sarà tolto”. Sarà proprio con la conversione di Israele che si manifesterà la gloria di Dio. È un percorso a tappe verso la realizzazione del piano di salvezza in cui ogni successo può essere paragonato a tanti mattoni che vengono posti uno accanto all’altro, uno sopra l’altro per la costruzione dell’edificio di Dio, del Regno, della totalità nella comunione dei santi con Lui.
Tornando al nostro testo, anche la risposta del servo è profetica, perché quel “Invano ho faticato, per nulla e invano ho consumato le mie forze” si riferisce alla constatazione umanamente immediata del risultato delle fatiche di Nostro Signore: i discepoli che si dispersero al suo arresto, la loro difficoltà a credere alla Sua risurrezione e poi via fino ai 120 a Gerusalemme, il cui numero tuttavia crebbe in fretta, come leggiamo nel libro degli Atti.
Infine, nel verso sesto che fa da contrapposizione al quinto, gli appartenenti alle “isole” e alle “nazioni lontane” sono invitati a considerare ciò che li riguarda direttamente: l’opera perfetta del “servo”, che apparentemente non ha ottenuto il risultato sperato della conversione dell’intero popolo, viene ampliata ed elargita anche a quelli che ad Israele non appartengono: “È troppo poco che tu sia mio servo per restaurare le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti d’Israele. Io ti renderò luce delle nazioni, perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra”.
Alla nascita di Gesù è scritto che “Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una gran luce”: quella stessa luce è oggi alla portata di tutte quelle genti che a quei tempi, pur esistendo, non erano state coinvolte. Persone che avrebbero vissuto in modi diversi da quel popolo, parlato lingue allora sconosciute, nazioni entro le quali sarebbero nati (di nuovo) e vissuti dei figli di Dio. Persone salvate, concittadine dei santi e membri della famiglia di Dio. Amen.
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