07.15 – LA TEMPESTA SEDATA (MARCO 4.35-41)

7.15 – La tempesta sedata (Marco 4.35-41)

 

 

35In quello stesso giorno, venuta la sera, disse loro: «Passiamo all’altra riva». 36E, congedata la folla, lo presero con sé nella barca. C’erano altre barche con lui. 37Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. 38Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?». 39Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e ci fu grande bonaccia. 40Poi disse loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?» 41E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?»”.

 

Episodio raccontato a Marco da Pietro che era presente, avviene subito dopo (o quasi) le parole dette al discepolo irrisoluto che voleva, prima di seguire Gesù, andare a salutare quelli di casa sua. Quanto si verificò sulla barca nella traversata può essere affrontato sotto molti aspetti e poiché molti lo hanno già sviluppato sotto quello della fede che i discepoli non riposero sufficientemente sul loro Maestro, sul mare e la tempesta figura delle difficoltà anche apparentemente insormontabili che capitano nella vita (ma non solo), preferisco soffermarmi sulle conoscenze che avevano quanti erano al seguito di Nostro Signore, sulle dinamiche che portarono al rimprovero per la mancanza di fede nei discepoli e sul verso 41 col quale Marco conclude la sua cronaca.

Dalle parole “In quello stesso giorno” e “venuta la sera” possiamo rilevare l’instancabilità di Gesù perché ci obbligano a considerare cosa fosse avvenuto: ricordiamo che al mattino Nostro Signore aveva ricevuto i discepoli di Giovanni Battista e parlato alla folla, poi aveva pranzato a casa di Simone il fariseo, quindi aveva esposto le parabole del regno spiegandole ai discepoli; poi, sentito che la madre e i fratelli lo cercavano, ne aveva approfittato per dichiarare il nuovo stato di parentela che avrebbero avuto con lui tutti coloro che avrebbero fatto la Sua volontà. Stando al racconto di Marco, ricollegandoci all’intervento dei suoi parenti, vi fu anche una discussione con alcuni farisei “scesi da Gerusalemme” che lo accusavano di cacciare i demoni tramite il loro capo e avevano concluso che fosse “posseduto da uno spirito impuro”. Veramente, con quelle azioni, Gesù confermava al discepolo desideroso di seguirlo, salvo prima salutare quelli di casa sua, che il Figlio dell’uomo non aveva “dove posare il capo”. Allo stesso modo possiamo dire che Lui era quello che aveva “messo mani all’aratro” per primo e non poteva distrarsi né voltarsi indietro pensando alle Sue esigenze materiali: nonostante fosse stanco al punto da addormentarsi lungo il tragitto per l’altra riva del lago, volle partire.

Ecco, qui va fatta una prima precisazione sulla sua scelta di attraversare il mare di Galilea recandosi per la prima volta in un territorio che potremmo definire anche pagano abitato da Nabatei, Aramei (ma anche Ebrei), le cui città principali erano centri di cultura greca e romana. Si trattava di un territorio misto, poiché la radice di “Gadara”, come vedremo anche nell’episodio degli indemoniati, richiama la tribù di Gad che, assieme a quella di Ruben e alla metà di quella di Manasse, chiese a Mosè di non fargli passare il fiume Giordano, ma che gli fosse assegnato il paese di Galaad, ricco di pascoli, perché possedevano parecchio bestiame (Numeri 32).

Gesù poi sapeva che aveva un appuntamento con due indemoniati in quel territorio, ma ancora di più era necessario che i suoi discepoli capissero meglio chi Lui fosse. È infatti importante sottolineare che quelli che Lo seguivano, nonostante i Suoi interventi che ascoltavano nella Sinagoga, non sapevano spiegare le guarigioni dei ciechi, degli indemoniati, dei sordi e degli zoppi avendo di Lui una visione limitata dalla loro umanità. Per meglio dire, guardando solo il Vangelo di Marco, precedentemente Gesù aveva operato miracoli di guarigione sull’indemoniato di Capernaum (1.13), guarito la suocera di Pietro (1.29) ed altri ammalati e indemoniati in Betsaida (1.32), del primo lebbroso (1.40) ma, come scrisse un fratello, «tutti quei miracoli non convinsero comunque i suoi discepoli perché, per loro, il Messia doveva ripetere le gesta di Davide, come rileviamo dalle parole che gli dissero i due incamminati per Emmaus, “noi speravamo che fosse lui a liberare Israele”: Gesù doveva liberare il popolo dal dominio romano e diventare il risolutore di tutti i suoi problemi esistenziali, regnare con lui.

Se quindi i discepoli avevano del loro Maestro un’opinione imprecisa, dall’altro erano persone, se non tutti molti di loro, che con l’acqua avevano esperienza essendo pescatori e possiamo supporre che, conoscendo essi il territorio, nulla lasciasse presagire l’avvicinarsi di una tempesta, evento comunque non insolito in quel lago perché non era raro che si sprigionassero delle violente correnti di vento provenienti dai monti circostanti, causando seri problemi ai naviganti. La partenza avvenne così: “Gesù salì su una barca con i suoi discepoli (…) e presero il largo” (Luca 8.22) quindi le barche furono diverse, così come sappiamo molte essere le persone al Suo seguito. È facile dedurre che la barca con Gesù fosse in testa alle altre e che a un certo punto il vento cominciò a soffiare, ma la cosa singolare fu che tutti i sinottici concordano nel riportare che la tempesta si abbatté solo su quella in cui stava Nostro Signore, che dormiva a poppa, e non sulle altre. Scrive un fratello in proposito che “alla tranquillità di Gesù fa contrasto la paura che prende i discepoli, benché fossero abili nuotatori, incontrollati e aggressivi: “Maestro, non t’importa che siamo perduti?”, frase che suona come un rimprovero perché, se Gesù fosse morto, anche il loro sogno di gloria sarebbe svanito”. E tutti i testi dei tre evangelisti concordano su come andò a finire l’episodio; a parte Marco, gli altri scrivono “Minacciò i venti e il mare e ci fu grande bonaccia” (Luca 8,24 praticamente identico in Matteo).

A questo punto occorre considerare più approfonditamente gli elementi che avrebbero avuto i discepoli per capire chi fosse realmente il loro Maestro, e la frase finale, la loro “grande domanda” “Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli ubbidiscono?” (v. 25), tutti compresi nel rimprovero “Dov’è la vostra fede?”.

Per iniziare è bello considerare che il miracolo appena avvenuto fu profetizzato nel Salmo 107.25-29: “Egli parlò e fece levare un vento burrascoso che sollevava flutti – quindi il primo scopo di quel viaggio fu rivelarsi ai discepoli in una forma che non conoscevano –. Salivano fino al cielo, scendevano negli abissi, la loro anima languiva nell’affanno. Ondeggiavano e barcollavano come ubriachi, la loro perizia era svanita. Nell’angoscia gridarono al Signore ed Egli li liberà dalle loro angustie. Ridusse la tempesta alla calma, tacquero i flutti del mare. Si rallegrarono nel vedere la bonaccia ed Egli li condusse al porto sospirato. Ringraziarono il Signore per la sua misericordia e per i suoi prodigi a favore degli uomini”.

Possiamo poi confrontare il comportamento di questi discepoli (mi chiedo se ci fossero tutti i dodici sulla barca) con quello tenuto dall’apostolo Paolo quando, condotto prigioniero a Roma, subì il naufragio della barca che lo trasportava. In Atti 27 leggiamo di una tempesta durata diversi giorni: “Eravamo sbattuti violentemente dalla tempesta e il giorno seguente cominciarono a gettare in mare il carico, il terzo giorno con le proprie mani buttarono via l’attrezzatura della nave. Da vari giorni non comparivano più né sole né stelle e continuava una tempesta violenta, ogni speranza di salvarci era ormai perduta” (vv.18-20). Paolo disse all’equipaggio “…mi è apparso un angelo di Dio al quale appartengo e che servo, dicendomi: «Non temere, Paolo: tu devi comparire davanti a Cesare ed ecco, Dio ti ha fatto grazia di tutti i tuoi compagni di navigazione. Perciò non perdetevi di coraggio, uomini; ho fiducia in Dio che avverrà come mi è stato annunciato. Ma è inevitabile che andiamo a finire su qualche isola. (…) Finché non spuntò il giorno, Paolo esortava tutti a prendere cibo. (…) Ciò detto prese il pane, rese grazie a Dio davanti a tutti, lo spezzò e cominciò a mangiare”.

Prima di esaminare ciò cui i discepoli non avevano pensato, è importante soffermarsi sul vento, figura di dottrine estranee alla Parola che nuocciono gravemente alla salute spirituale del credente: è importante formarsi stabilmente “…affinché non siamo più come fanciulli sballottati dalle onde e portati qua e là da qualsiasi vento di dottrina secondo l’inganno degli uomini con quell’astuzia che tende a trarre nell’errore” (Efesi 4.4).

Giacomo poi aggiunge “Se qualcuno di voi manca in sapienza, la domandi a Dio che dona a tutti generosamente e senza rinfacciare, e gli sarà data. La domandi però con fede, senza esitare, perché chi esita somiglia all’onda del mare mossa e agitata dal vento. Non pensi di ricevere qualcosa dal signore un uomo che ha l’animo oscillante e instabile in tutte le sue azioni” (1.6)

Inevitabile poi il confronto con la parabola delle due case, quella costruita sulla sabbia e sulla roccia: “Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti che si abbatterono su quella casa, ed essa non cadde, perché era fondata sulla roccia. Chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica, è simile ad un uomo stolto che ha costruito la sua casa sulla sabbia. Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa cadde, e la sua rovina fu grande” (Matteo 7.27). Sono due costruzioni identiche, ma su una diverso terreno, fondamento, in una parola: fede. La prima domanda, implicita dalla lettura di questo episodio, è appunto questa: su quale terreno stiamo costruendo e quale sia il nostro destino, rovina o scapato pericolo.

La seconda domanda invece è propria, relativa a quanto abbiamo letto ed è Gesù stesso a porla. C’è chi ha annotato in proposito che “i discepoli, dopo lo scampato pericolo, credevano che tutto fosse tornato come prima, ma non fu così per Gesù che disse loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?»” oppure, secondo Luca 8.25, “Dov’è la vostra fede?”.

Timore e paura sono emozioni che fanno parte del quadro della vita come sorte naturale che Adamo ed Eva trasmisero a tutti gli uomini, come leggiamo quando Adamo rispose “Ho udito il tuo passo nel giardino e ho avuto paura perché sono nudo e mi sono nascosto”. Avere paura significa essere dominati da ogni situazione, da ogni circostanza incognita, mentre la fede riesce a dominare ogni avvenimento perché non fa affidamento sull’uomo, ma su Dio che lo ha creato. Pensiamo ai problemi che incontriamo ogni giorno, a quelli del lavoro, della malattia, alla morte stessa. Adamo dunque, conobbe questo sentimento a seguito del peccato commesso e mai l’aveva provata prima, parlando con Dio faccia a faccia.

Tornando al nostro episodio, non rileviamo dai sinottici che i discepoli risposero; in compenso emerge uno stupore immenso, fuori luogo: si domandano chi fosse quell’uomo cui obbedivano persino il vento ed il mare. In compenso, dopo quest’episodio, le persone al seguito di Gesù iniziarono a capire e a trattenere nel loro cuore e nella loro mente che Lui era il Figlio dell’Iddio vivente, perché furono concordi con la frase di Pietro “Tu solo hai parole di vita eterna” (Giovanni 6.66).

Restano alcune cose da esaminare, come i paralleli negli scritti dell’Antico Patto sulla figura di Gesù e le volte in cui YHWH si rivelò padrone sugli elementi del creato, che rimandiamo a un prossimo capitolo.

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07.14 – I FACILI ENTUSIASMI DI FRONTE AL VANGELO: TRE PERSONAGGI (3/3) (Luca 9.61-62)

7.14 – I facili entusiasmi di fronte al Vangelo 3/3: il discepolo irrisoluto (Luca 9.61-62)

61Un altro disse: «Ti seguirò, Signore; prima però lascia che io mi congedi da quelli di casa mia». 62Ma Gesù gli rispose: «Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro è adatto per il regno di Dio».”

Con questi versi di Luca terminano tre ritratti di discepoli che, secondo una mia classificazione, ho ritenuto dedicati ai facili entusiasmi. Scriba a parte abbiamo avuto il discepolo “temporeggiatore” che si era appellato alla pietas nei confronti del proprio padre, ora è il turno di quello “irrisoluto”, che in comune al precedente ha il voler anteporre qualcosa a Gesù: uno si appella al comandamento “Onora tuo padre e tua madre” dandone un’interpretazione personale e l’altro, se come credo frequentasse la Sinagoga e ne fosse quindi a conoscenza, all’episodio in cui Elia chiama Eliseo a seguirlo di cui troviamo testimonianza in 1 Re 19.19-21: “Partito di lì(dopo un colloquio con Dio sul monte Oreb), Elia trovò Eliseo, figlio di Safat. Costui arava con dodici paia di buoi davanti a sé, mentre egli stesso guidava il dodicesimo. Elia, passandovi vicino, gli gettò addosso il suo mantello. Quello lasciò i buoi e corse dietro a Elia, dicendogli: «Andrò a baciare mio padre e mia madre, poi ti seguirò». Elia disse: «Va’ e torna, perché sai che cosa ho fatto per te». Allontanatosi da lui, Eliseo prese un paio di buoi e li uccise; con la legna del giogo dei buoi fece cuocere la carne e la diede al popolo, perché la mangiasse. Quindi si alzò e seguì Elia, entrando al suo servizio”.

Capire questo episodio, che presenta una richiesta molto simile a quella raccontata da Luca, è molto importante, non senza sottolineare che in entrambi gli àmbiti viene nominato l’aratro. Prima di tutto Elia non incontrò Eliseo a caso, ma Dio stesso gli aveva parlato di lui: “Ungerai Eliseo (…) come profeta al tuo posto” (Ibid., v.16).

Dal numero dei buoi, importante perché abbiamo il dodici e il ventiquattro, deduciamo che Eliseo apparteneva a una famiglia facoltosa ed era intento nel proprio lavoro, particolarmente impegnativo perché per utilizzare quella quantità di animali l’aratro doveva rivoltare il terreno molto in profondità, altrimenti sarebbero stati sufficienti uno o due animali.

Elia, passando e proseguendo il cammino, getta il proprio mantello su Eliseo che capisce immediatamente il significato di quel gesto: il mantello simboleggiava la personalità e i diritti di chi lo possedeva; quello di pelo dei profeti era il loro abito ufficiale (2 Re 1.8; Zaccaria 13.4) e il gettarlo su un altro costituiva una specie di investitura e iniziazione. Ciò fu subito capito da quel giovane, che fu costretto a lasciare i buoi e correre dietro ad Elia, fermarlo e dirgli che, prima di seguirlo, sarebbe andato a baciare suo padre e sua madre. La risposta del profeta non è tradotta da tutti traducono allo stesso modo: la nostra versione, tratta dalla Bibbia di Gerusalemme, interpreta il senso, “Va’ e torna, perché sai cos’ho fatto per te”, alludendo al gesto del mantello e a ciò che implicava; altri invece hanno:

 

  1. Ricciotti: “Va’ e torna, perché quello che toccava a me io l’ho fatto”;
  2. Luzzi: “Va’ e torna, ma prima pensa a quel che t’ho fatto”;
  3. Diodati 1607:“Va’ e torna, perciocché che t’ho io fatto?”;
  4. Diodati Riv.: “Va’ e torna, perché sai che ti ho fatto?

 

Deduciamo allora dal testo che Eliseo abbia ottenuto il permesso da Elia a recarsi dai suoi, ma tenendo presente l’elezione che aveva appena ricevuto. Elia non aveva gettato il suo mantello a caso, ma in obbedienza a un ordine ricevuto e leggiamo che Eliseo andò non solo ad accomiatarsi dai suoi, ma che sacrificò due buoi, distrusse i suoi attrezzi da lavoro bruciandoli per cuocere le carni degli animali dandole al popolo perché mangiasse, tutti segni inequivocabili coi quali rinunciava alla sua vita passata, ricchezza della sua famiglia compresa, non avendo una moglie e dei figli a cui provvedere.

Sappiamo che anche Matteo, dopo la chiamata di Gesù, offrì un banchetto attraverso il quale dava l’addio alla vita che aveva fino a quel momento condotto. Andrea, Pietro, Giacomo e Giovanni, prima di venire chiamati da Gesù a seguirlo definitivamente, ebbero del tempo per trarre le loro conclusioni su di Lui come del resto il nostro Evangelista, che prima di seguirlo ne sentì molto parlare.

Tornando a Eliseo, un segno eloquente del fatto che avesse compreso l’onore di avere il mantello lo vediamo dalla prontezza con la quale, ricevutolo, abbandonò i buoi: già lì capiva che l’aratura apparteneva ormai al suo passato. Eliseo prese commiato dai suoi non sapendo se avrebbe potuto far ritorno a loro o se per lui ci sarebbero potuti essere altri piani, per cui possiamo notare la docilità e la flessibilità con la quale offerse la propria vita non ad Elia, quanto a Dio che in quel momento era da lui rappresentato. Se ad Eliseo fu concesso di andare a salutare i suoi genitori, ci chiediamo perché Gesù non rispose consentendo a quel discepolo di fare altrettanto.

Evidentemente, conoscendo quello che realmente risiedeva nel cuore dell’uomo, Gesù sapeva che quella persona aveva ancora dei conti in sospeso con il suo passato, non era disposto ad abbandonare ciò che aveva e il desiderio di avere un ultimo contatto coi suoi famigliari era indice di un attaccamento dal quale difficilmente si sarebbe liberato. E il fatto che Nostro Signore stesse per salire sulla barca o andasse verso Gerusalemme secondo Luca, è irrilevante, non c’era tempo: il discepolo irrisoluto era “inadatto al regno di Dio” per tutto questo insieme di motivi.

Ogni vero cristiano ha avuto una chiamata, profondamente diversa l’uno dall’altro e allo stesso tempo comune: un giorno, ha incontrato Gesù e gli ha risposto e subito ha dovuto lasciare qualcosa perché ha scoperto di non essere più quello di prima. Il nocciolo è tutto qui e il resto, l’abbandono di metodi di comportamento, reazioni, azioni che in precedenza erano comuni a tutti gli altri esseri umani, viene col tempo, con la maturità e la pratica perché il credente non è catapultato in un mondo nuovo in cui tutto risulta facile, ma al contrario cresce, come abbiamo visto nella parabola del seminatore, “con sofferenza”. Per questo coloro che hanno compiti di responsabilità nella Chiesa dovrebbero mettere in pratica il discernimento, cercando di raffreddare gli entusiasmi dei giovani anziché agevolarli, invitandoli a tenere i piedi accuratamente per terra affinché possano verificare prima di tutto la loro eventuale vocazione. Ricordiamo l’esortazione, valida per tutti sempre e comunque, ad essere sì “Semplici come colombe”, ma “Prudenti come serpenti” (Matteo 10.16).

Esaminiamo ora le parole di Gesù a quel discepolo, “Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto al regno di Dio”: l’aratura è un’operazione più complessa di quanto si creda. Non può essere fatta in qualsiasi stagione, richiede condizioni precise del terreno che non può essere troppo secco, né troppo umido. L’aratura, a prescindere dalla profondità con la quale l’aratro deve scavare, dev’essere uniforme, cosa possibile solo se chi a quell’epoca guidava gli animali non si distraeva perché, lasciando delle zone vuote o irregolari, ne avrebbe risentito la semina successiva. Chi arava il campo poteva fermarsi a riposare, ma poi doveva riprendere dal punto di sosta con la stessa intensità e proseguire.

Notiamo che qui Gesù non parla di distrazione, ma di voltarsi indietro: chi si comporta così è perché rimpiange qualcosa, perché ciò che ha lasciato è ancora per lui vincolante. Voltarsi, significa perdere di vista ciò che è davanti. Se ciò si verifica non sta a significare che alla persona sia preclusa la grazia, ma che questa non è ancora pronta per il discepolato che richiede abnegazione. L’aratro rappresenta ciò che c’è da fare, la missione, il compito che ogni credente ha, fosse anche “solo” quello di pregare, di ascoltare, di frequentare i radunamenti della Comunità alla quale appartiene. In poche parole, compiere il proprio pellegrinaggio.

Spesso mi capita di analizzare ciò che ho fatto: vedo cose positive e negative, gli errori anche gravi che ho commesso per immaturità e perché ciò che il mondo insegna quando si proviene da ambienti non veramente cristiani, penalizza; ho avuto esempi positivi e negativi e spesso ho seguito i secondi anziché i primi. Ma ringraziando il Signore questi appartengono a un passato che non mi è consentito rivisitare a livello nostalgico perché non mi posso voltare indietro, come tutti i miei fratelli e sorelle. O meglio, se lo facessi, rimpiangendo ambienti e persone, perderei quello che ho costruito e poi dovrei ricominciare da capo ritrovandomi profondamente umiliato. Mi rendo conto della complessità del ragionamento e, fortunatamente, non tutti hanno avuto le mie esperienze, frutto comunque di mancati calcoli e irresponsabilità giovanile. E colossali fraintendimenti. Anch’io, quando il Signore mi ha chiamato a seguirlo, penso di aver risposto in modo non adeguato, di non aver lasciato quanto dovevo e di avere fatto dei compromessi. Dico questo per non dare di me, eventualmente, l’impressione di colui che condanna i personaggi negativi narrati nel Vangelo.

Voltarsi indietro è spesso un’azione che implica quella di tornare a ciò che si era, come in Ebrei 10.37,38: “Ancora un poco, un poco appena, e colui che deve venire verrà e non tarderà. Il mio giusto per fede vivrà, ma se cede, non porrò in lui il mio amore”. Sono parole pesanti, rivolti a quelli che “cedono” nel senso di abbandonare volontariamente il percorso stabilito per loro. Si può tornare a vecchie abitudini, usi, modo di ragionare anche solo rimpiangendoli, come fu per la moglie di Lot, evento facile da connettere all’episodio, che nonostante fosse stata avvertita, si voltò indietro quando Sodoma e il suo territorio venivano distrutti. Perché voltarsi è il primo passo, rivelatore di una mancata realizzazione di uno stato, come quello della liberazione dal peccato, dando retta alla carne.

Posso dire che questo episodio parla comunque a tutti i cristiani, indipendentemente dal fatto che siano discepoli, o semplici credenti: quello che abbiamo da compiere, dobbiamo farlo per non venire rimproverati, tenendo sempre a mente le parole di Gesù, “Chi mette mano all’aratro– cioè inizia un cammino di lavoro e fatica per il Signore – e si poi volta indietro, non è adatto al regno di Dio”. Direi che la Scrittura è piena di esempi, positivi e negativi in proposito, ed è bello considerare Romani 15.4: “Tutto ciò che è stato scritto prima di noi, è stato scritto per nostra istruzione perché, in virtù della perseveranza e dalla consolazione che provengono dalle Scritture, teniamo viva la speranza”. Perché non c’è prova, sofferenza o situazione che altri non abbiano provato prima di noi: “Siate sobri, vegliate. Il vostro nemico, il diavolo, come un leone ruggente va in giro cercando chi possa divorare. Resistetegli saldi nella fede, sapendo che le medesime sofferenze sono imposte ai vostri fratelli sparsi per il mondo” (1 Pietro 5.8,9). È la vita. Sono scelte fatte sulla terra. Amen.

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07.13 – I FACILI ENTUSIASMI DI FRONTE AL VANGELO: TRE PERSONAGGI (2/3) (Matteo 8.18-22)

7.13 – I facili entusiasmi di fronte al Vangelo (2/3): tre personaggi (Matteo 8.18,22)

 

18Vedendo la folla attorno a sé, Gesù ordinò di passare all’altra riva. 19Allora uno scriba si avvicinò e gli disse: «Maestro, ti seguirò ovunque tu vada». 20Gli rispose Gesù: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo». 21E un altro dei suoi discepoli gli disse: «Signore, permettimi prima di andare a seppellire mio padre». 22Ma Gesù gli rispose: «Seguimi e lascia che i morti seppelliscano i loro morti».

 

            Nello scorso incontro abbiamo parlato della differente collocazione temporale che danno dello stesso episodio Matteo e Luca, che nel suo capitolo nono parla di una terza persona che si presentò a Gesù:

 

61Un altro disse: «Ti seguirò, Signore; prima però lascia che io mi congedi da quelli di casa mia». 62Ma Gesù gli rispose: «Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro è adatto per il regno di Dio».”

 

Venendo al secondo personaggio del racconto, questi, come lo Scriba, era un discepolo;  mentre però il primo, forse contento per aver capito le parabole e travolto dalla purezza di quell’insegnamento, promise a Gesù di seguirlo ovunque, questo mette delle condizioni. Possiamo paragonare la promessa dello Scriba a quella dell’apostolo Pietro “«Signore, con te sono pronto ad andare anche in prigione e alla morte». Gli rispose: «Pietro, io ti dico: oggi il gallo non canterà prima che tu, per tre volte, abbia negato di conoscermi»” (Luca 22.33,34): fu l’entusiasmo a spingere entrambi, non la ragione, cioè la consapevolezza di ciò che comportava darsi totalmente al discepolato per lo Scriba, e il non dover fare i conti con la propria natura, per Pietro.

Prima di addentrarci un poco nei contenuti dei versi 21 e 22, è giusto sfatare un’interpretazione che vede nel secondo discepolo una persona cui era appena morto il padre. Infatti in Israele la sepoltura la si faceva il giorno stesso della morte, come avvenne per Nostro Signore. Ci sono nella Scrittura due versi particolari sulla pietà per il corpo dei defunti: il primo riguarda Mosè, che non lasciò in Egitto le ossa di Giuseppe “…perché questi aveva fatto prestare un solenne giuramento agli israeliti dicendo «Dio certo verrà a visitarvi; voi allora porterete via le mie ossa» (Esodo 13.19), parole dette nella consapevolezza di essere in un Paese straniero e indice del fatto che Giuseppe desiderava rientrare totalmente nel piano di Dio per il Suo popolo.

Altro punto lo rileviamo in Tobia 4.3: “Figlio, quando morirò, dovrai darmi una sepoltura decorosa; onora tua madre e non abbandonarla per tutti i giorni della tua vita;(…) quando morirà, dovrai darle sepoltura presso di me, in una medesima tomba”. Andando alle origini ricordiamo Sara, seppellita “nella caverna del campo di Macpela di fronte a Mamre, nella terra di Canaan. Il campo e la caverna che vi si trovava passarono dagli Ittiti ad Abramo in proprietà sepolcrale” (Genesi 23.19,20).

Ritengo allora che quel discepolo intendesse attendere la morte del padre per dargli onorata sepoltura e non che fosse effettivamente deceduto. Tuttavia la rinuncia ai legami di famiglia era una prima condizione operativa per il discepolato.

Occorre però stabilire un punto fermo, perché molti credono che questo valga anche oggi, cosa vera solo in parte: esiste una differenza tra il tempo in cui Gesù esisteva in carne e quello in cui, come oggi, è presente in spirito, tra la necessità di predicare e farsi Suo strumento a quel tempo e ai nostri giorni. Una cosa è l’amore per i propri cari e le loro esigenze nel momento in cui limitano la vita cristiana – ricordiamo le parole “Chi ama padre e madre più di me non è degno di me, chi ama figlio o figlia più di me non è degno di me”, (Matteo 10.37) – e un’altra sono quegli affetti che i discepoli avevano messo da parte, poiché l’abbandono non significa lasciare la persona sola, ma agire inquadrandola correttamente dal punto di vista affettivo. Ricordiamo poi che le mogli degli Apostoli li seguivano, per cui non furono da loro abbandonate, come scrive Paolo nella sua prima lettera ai Corinzi: “Non abbiamo il diritto di portare con noi una donna credente, come fanno anche gli altri apostoli e i fratelli del Signore e Cefa?”(9.5). Riguardo all’amore per i famigliari, è giusto puntualizzare che Luca 14.26, “Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, sua moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo” intende l’odio non come profonda avversione e ripugnanza, ma amare di meno, lasciare quegli elementi in subordine, non provare quell’attaccamento smodato che ostacolerebbe l’esercizio del discepolato. Non sono pochi i credenti che, per non urtare la suscettibilità carnale dei propri famigliari e quindi per quieto vivere, si limitano nella loro attività spirituale scendendo a compromessi. Per contro ve ne sono altri che, prendendo il verso alla lettera, fanno l’esatto contrario, sbagliando altrettanto anche se in modo diverso. Letteralmente, infatti, chi odia “la propria vita”non può che essere una persona disconnessa, mentre chi la lascia in subordine per il Vangelo abbandonando le esigenze della propria carne può trovare motivi di realizzazione e dare veramente un senso all’esistenza.

Affrontando sinteticamente l’importante argomento dei rapporti famigliari, ricordiamo Genesi 2.24 “L’uomo lascerà sua padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno un’unica carne”: per quanto “lasciare” sia diverso da “abbandonare” che lo rafforza, abbiamo comunque lo spostamento dell’asse degli affetti, dei compiti e delle responsabilità: l’uomo “lascia”, cioè abbandona i genitori come riferimento e centro affettivo per dedicarsi a un’altra persona, in questo caso la propria moglie. E lo stesso lei nei confronti del marito.

Altro riferimento lo abbiamo nelle parole di Gesù “Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna” (Matteo 19.29). “Lasciare” e “abbandonare” rappresentano così, in questo caso, dei ridimensionamenti affettivi come furono messi in atto dagli apostoli Giacomo e Giovanni che lasciarono Zebedeo loro padre, che però aveva una flotta di barche e delle persone al suo servizio, per cui non fu abbandonato, e certo neppure Pietro e Andrea si disinteressarono dei loro famigliari: abitavano a Capernaum e Pietro aveva una moglie che lo seguiva, come già citato. Inoltre, prima di qualunque attività missionaria, è stabilito questo principio: “Se poi uno non si prende cura dei suoi cari, soprattutto di quelli della sua famiglia, costui ha rinnegato la fede ed è peggiore di un infedele” (1 Timoteo 5.8). Sono parole forti necessarie ad inquadrare correttamente le parole di Gesù sull’abbandono.

Tornando alle parole del discepolo, è sicuramente determinante quel “permettimi primadi andare”, avverbio che esprime anteriorità nel tempo, precedenza in una scala di valori. Il seppellimento del padre, per come lo abbiamo inquadrato, era per quel discepolo più importante del seguire Gesù, era una condizione che veniva ipocritamente posta in omaggio alla pietà filiale di fronte alla quale Nostro Signore, in quanto sorgente di verità e vita, non tacque. È Luca a darci la versione più completa: “Lascia i morti seppellire i loro morti. Tu invece va’, e annuncia il regno di Dio” (9.60). Sempre stando a questo evangelista fu Gesù stesso che rivolse a quel discepolo l’invito a seguirlo (v.59: “…gli disse: «Seguimi»”).

Basandoci su Luca, abbiamo quindi due periodi in cui nel primo si definisce la condizione di chi Gesù non lo conosce, non gli appartiene: è, sono, “i morti”. Anche se è una frase che può scandalizzare, non esiste differenza tra un cuore che batte in un corpo non destinato alla resurrezione e all’immortalità, e un cadavere. L’essere “morti” non è quindi un insulto, ma la descrizione di uno stato perché “chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita. In verità, in verità vi dico: è venuto il momento, ed è questo, in cui i morti udranno la voce e del Figlio di Dio, e quelli che l’avranno ascoltata, vivranno” (Giovanni 5. 24,25). Se “i morti” di cui parlò Gesù al discepolo non fossero stati vivi, non avrebbero potuto certo ascoltare, né soprattutto avere la possibilità di scegliere se vivere secondo verità o meno.

Un’importante definizione delle dinamiche che portano dalla morte alla vita la troviamo in Colossesi 2.5: “…Per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo: per grazia siete stati salvati”. Qui è importante la definizione “da morti che eravamo”, quindi una condizione che dobbiamo tenere sempre presente per evitare l’orgoglio di quanti guardano dall’alto in basso chiunque non professa la loro fede. Anche perché nell’essere salvati non abbiamo alcun merito. Ricordiamo infine il discorso a Timoteo quando, parlando delle vedove, è scritto “…al contrario quella che si abbandona ai piaceri, anche se vive, è già morta” (1°, 5.6), oppure la chiesa di Laodicea, “Conosco le tue opere, ti si crede vivo, eppur sei morto” (Apocalisse 3.1).

Ecco spiegato in sintesi il significato della frase “Lascia che i morti seppelliscano i loro morti”, dichiarazione non dispregiativa, ma diagnosi che lascia intendere comunque che quel padre avrebbe potuto essere sempre tenuto presente così come Gesù fece con sua madre, da lui incontrata a Capernaum ogni volta che rientrava dai suoi viaggi missionari, abitando con lei e i fratelli.

A questo punto c’è il “Ma tu”, che indica la necessità di un cambiamento di azione: a metodo concretamente terreno se ne contrappone uno concretamente spirituale visto nell’andare e annunciare, segno che quel discepolo seguiva il maestro da un tempo sufficiente per poterne parlare. Non gli dice “va’ e impara”, tipica frase che i dottori della legge amavano dire agli ignoranti e con la quale furono spesso apostrofati da Gesù, ma “tu va’, e annuncia il regno di Dio”. “Ma” è quindi una correzione, un intervento di Dio sulle errate convinzioni della persona. Altri traducono, forse in modo più incisivo, “Tu invece va’ e annuncia”, dove “invece” rende più l’idea dell’opposto, del contrario, “al posto di”, che in questo caso è correttamente interpretabile col consiglio “Tu non comportarti come gli altri, va’ e annuncia”. Quel discepolo avrebbe potuto farlo perché nel momento in cui ci viene rivelato qualcosa è perché alla nostra portata: “Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te, né troppo lontano da te. Non è nel cielo perché tu dica «Chi salirà per noi in cielo per prendercelo e farcelo udire e lo possiamo eseguire?»; non è di là dal mare perché tu dica «Chi attraverserà per noi il mare per prendercelo e farcelo udire e lo possiamo eseguire?». Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica” (Deuteronomio 30.11-14).

Concludendo, ciò che premeva a Gesù era far riflettere quell’anonimo discepolo di mettersi all’opposto della mentalità comune: altri si sarebbero occupati del suo genitore che non avrebbe comunque abbandonato nel senso assoluto del termine. Perché chi ha uno scopo nel piano di Dio non può farsi condizionare dalle aspettative umane di altri, ma ragionare in termini spirituali, gli unici destinati a rimanere.

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07.12 – I FACILI ENTUSIASMI DI FRONTE AL VANGELO: TRE PERSONAGGI (1/3) (Matteo 8.18-22)

7.12 – I facili entusiasmi di fronte al Vangelo (1/3) (Matteo 8.18,22)

 

18Vedendo la folla attorno a sé, Gesù ordinò di passare all’altra riva. 19Allora uno scriba si avvicinò e gli disse: «Maestro, ti seguirò ovunque tu vada». 20Gli rispose Gesù: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo». 21E un altro dei suoi discepoli gli disse: «Signore, permettimi prima di andare a seppellire mio padre». 22Ma Gesù gli rispose: «Seguimi e lascia che i morti seppelliscano i loro morti».

 

            Questo episodio è riportato da Matteo e da Luca, per quanto in contesti differenti: il primo lo colloca poco prima che Gesù partisse alla volta del territorio di Gadara, il secondo nel corso del Suo ultimo viaggio verso Gerusalemme. Il racconto di Luca è interessante perché, pur riportando le stesse parole di Matteo, aggiunge l’intervento di un terzo discepolo, o aspirante tale (cap. 9).

 

61Un altro disse: «Ti seguirò, Signore; prima però lascia che io mi congedi da quelli di casa mia». 62Ma Gesù gli rispose: «Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro è adatto per il regno di Dio».”

 

Se è facile pensare che l’incontro con questi tre personaggi sia effettivamente avvenuto lungo la strada per Gerusalemme come raccontato da Luca, non è neppure da escludere che, tra la folla presente alla partenza di Gesù per “l’altra riva” corrispondente al territorio della Decapoli, quindi Hippos, fossero stati presenti questi uomini che gli si avvicinarono. Il primo è uno scriba, il secondo un discepolo, del terzo non ci è detto quale posizione avesse, ma di certo non era rimasto indifferente al messaggio e allo stile di vita di Gesù a tal punto da dirgli “Ti seguirò, Signore”, frase espressa al futuro, quindi già sottintendendo che prima aveva qualcosa da fare.

 

LO SCRIBA

Abbiamo già avuto modo di parlare di questa categoria di persone: istruivano il popolo nella Legge, rappresentavano accanto ai farisei il potere religioso e, tutti loro assieme sadducei, quello politico nel Sinedrio. Chi di loro si fosse apertamente schierato dalla parte di Gesù, sarebbe stato estromesso dalla Congregazione di Israele e non avrebbe potuto partecipare alle assemblee della sinagoga, nessuno gli avrebbe più parlato, né lo avrebbe salutato, né instaurato rapporti di qualsiasi tipo con lui. “Ti seguirò ovunque tu vada”, era quindi una frase molto impegnativa anche sotto questo aspetto, oltre che rappresentare una confessione esplicita del fatto di non sapere, di voler lasciarsi alle spalle credenze religiose magari belle nella forma, ma inutili per la salvezza.

La risposta di Gesù, “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo”, è illuminante: dichiarandosi “Figlio dell’uomo”, Gesù, sapendo con chi parlava, ricorda allo scriba la definizione che Daniele diede di Lui in 7.13,14: “Ecco venire con le nubi del cielo uno simile a un figlio d’uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui. Gli furono dati potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano: il suo potere è eterno, che non finirà mai e il suo regno non sarà mai distrutto”. Quindi a quello scriba viene data una rivelazione e al tempo stesso una conferma, nel senso che viene avvisato prima di tutto – o gli si conferma a seconda di come vogliamo interpretare la frase – che Colui che desiderava seguire era il “Figlio dell’uomo” visto da Daniele. Non si dichiarò così solo a lui, ma fu una definizione che usò molto spesso: addirittura, parlando coi Giudei e definendosi in tal modo, quelli non capendolo gli dissero “Noi abbiamo appreso dalla Legge che il Cristo rimane in eterno; come puoi dire che il Figlio dell’uomo dev’essere innalzato? Chi è questo Figlio dell’uomo?” (Giovanni 12.34). Rivelavano così la loro ignoranza.

Con la frase “…mail Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo”, allora, Gesù avverte quello scriba che, seguendolo “ovunque” lui fosse andato, avrebbe dovuto accettare di condurre la Sua stessa vita, come avevano fatto i dodici, che ne condivisero l’incessante attività missionaria. Tutto lascia supporre che, dopo quelle parole, anziché montare su una delle barche, se ne sia tornato a casa.

Mi sono chiesto cosa vogliono dire per noi oggi queste parole, “non ha da posare il capo”, partendo dal presupposto che gli evangelisti riportano i detti di Gesù in modo tale che parlino ai credenti di ogni tempo. Vero è che l’attività missionaria non si può fermare, ma va tenuto conto dei doni ricevuti e soprattutto bisogna chiedersi se seguire Cristo debba per forza consistere nel girare il mondo a predicare, oppure non si tratti di perseguire un’attività incessante che consista nell’essere presenti dove occorre e assenti quando la nostra presenza è inutile; in altri termini, selezionare le attività, gli impegni, le compagnie, gli interventi. Chiederci se, dove andiamo o mentre facciamo qualcosa, possiamo portare Cristo con noi o sarebbe “meglio” lasciarlo da parte, anche nei nostri pensieri. Credo che anche questo sia un impegno totale, perché “svestire l’uomo vecchio con i suoi atti e rivestire il nuovo” (Colossesi 3.10) non sempre è facile. Non è poco, nessuno ci obbliga a farlo, è una libera scelta, una pratica che si sviluppa negli anni e dura tutta la vita. È un’attività che conosce successi ed insuccessi.

Per far questo alcuni scelgono di chiudersi in un monastero, altri si fanno eremiti, ma si può sempre portare i germi del mondo dentro di sé e non risolvere nulla, finendo per creare delle comunità, grandi o piccole, in cui si pensano e si fanno le stesse cose degli “altri”, per quanto in pochi. L’apostolo Paolo in 1 Corinti 5.9,10 scrive “Vi ho scritto nella lettera precedente– c’è chi sostiene sia andata perduta – di non mescolarvi con gli impudichi. Non mi riferivo però agli impudichi di questo mondo o agli avari, al ladri o agli idolatri: altrimenti dovreste uscire dal mondo!”. È quindi necessario mantenere il proprio equilibrio, assimilare realmente il concetto del pellegrinaggio, contrastare la carne conoscendo i nostri limiti e andando a combattere là dove siamo sensibili perché, nonostante il mondo sia fondato sul trinomio soldi – sesso – potere, non tutti subiamo le stesse tentazioni.

Infatti Giacomo 1.14 scrive “Ciascuno è tentato dalla propria concupiscenza che lo attrae e lo seduce”. E l’attrazione è una forza naturale che spinge al contatto, mentre la seduzione consiste nell’indurre una persona a fare qualcosa quasi senza che questa se ne renda conto. Contrastare la “propria concupiscenza” credo sia un’attività incessante come quella di chi deve tenere pulita una casa che si trova a ordinare e togliere una polvere che si riformerà continuamente. Eppure, nonostante la si possa considerare come una battaglia sotto certi aspetti persa in partenza, lo si fa per non avere magari allergie, problemi respiratori, per igiene.

Ancora in 1 Corinti leggiamo “…anzi tratto duramente il mio corpo e lo riduco in schiavitù perché non succeda che, dopo aver predicato agli altri, io stesso venga squalificato” (9.27). Nemmeno Paolo aveva “dove posare il capo”. Nessuno che voglia applicarsi seriamente nelle cose di Dio lo ha, e infatti nei versi precedenti viene fatto il paragone con l’atleta che si allena “per ottenere una corona che appassisce, noi invece una che dura per sempre” (v.25).

Per il cristiano non avere “dove posare il capo” è leggere la propria vita alla luce della Parola, porre una scala di valori, usare il setaccio, accogliere o separare, gettare o mettere da parte, fondare la propria casa su Cristo perché non crolli quando verranno le piogge, strariperanno i torrenti o soffieranno i venti.

Alla luce della frase “Il figlio dell’uomo non ha dove posare il capo”, non sarebbe giusto parlare solo dell’essere umano perché Gesù accentra prima di tutto quella definizione su di lui ed è rivolta allo scriba – e quindi a noi – per riflesso. Egli infatti era “…cresciuto come un virgulto davanti a lui e come una radice in terra arida. Non ha apparenza né bellezza da attirare i nostri sguardi, non splendore per poterci piacere. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia; era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima. Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori; e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti” (Isaia 53.2,5).

Tutto il capitolo sarebbe da studiare, e lo faremo tra breve, ma quanto riportato può bastare ai nostri scopi: Gesù è cresciuto davanti al Padre come un virgulto, cioè un ramoscello sottile, oppure un arbusto; quindi, andando alle parabole, fu anche lui una piantina, una “radice” che dovette crescere e svilupparsi non in un “buon terreno”, ma in una “terra arida”, quindi con sofferenza, patimenti, difficoltà, avversità. Contrariamente alle rappresentazioni che il mondo religioso-pagano ha dato di Lui, non era una persona che si distinguesse per aspetto e fu “disprezzato e reietto dagli uomini” per le realtà così distanti da loro che predicava. Ciò nonostante, non obbligato da qualcuno, ma per libera scelta, si fece carico della nostra condizione di peccato subendone le conseguenze come se ne fosse stato l’agente, il responsabile, portandone il castigo sulla morte infamante della croce.

Conoscete la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà” (2 Corinti 8.9): con la sua morte, Gesù ha trasmesso quindi a tutti quelli che avrebbero creduto in Lui la sua ricchezza, rinunciandovi per tutta la sua vita terrena. Un Dio che muore è, per gli ebrei e teoricamente per gli uomini tutti, un controsenso: non credendo alla resurrezione, si fermano alla sua morte, che senza il non risorgere sarebbe stata totalmente inutile come i miracoli, la predicazione, le promesse.

Ecco, fino alla morte Gesù non ebbe dove posare il capo, tutto questo solo per l’interesse degli uomini che in lui avrebbero creduto, perché viceversa i loro nomi non sarebbero mai stati scritti nel libro della vita che non avrebbe mai potuto essere aperto. E qui rimango muto perché trovare le parole è impossibile. Posso solo pensare al silenzio “per circa mezzora” che si fece in cielo “quando l’Agnello aprì il settimo sigillo”, l’ultimo, quello che consentirà la lettura di quel libro (Apocalisse 8.1). Quel “cielo” che fino ad allora si era riempito di lodi, di vita, di anime, di parole, di eventi, di angeli e creature celesti, allora tacque perché l’eternità stava per incontrarsi con il tempo. Perché questo potesse realizzarsi il Figlio dell’uomo non aveva ove posare il capo. Amen.

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