07.08 – LE PARABOLE DEL REGNO 7: LO SCRIBA (Matteo 13.51,52)

7.08 – Le parabole del regno 7 (Lo scriba, Matteo 13.51-52)

 

“51«Avete compreso tutte queste cose?» Gli risposero: «Sì». 52Ed egli disse loro: «Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche».

 

            Alle sette parabole del regno, Gesù ne aggiunge un’ultima che, ottava del giorno, descrive la posizione del discepolo. Si tratta di un intervento molto breve, contenuto in un solo verso, che apre sviluppi particolari che troviamo in diverse lettere dell’apostolo Paolo. Per capire l’ottava parabola bisogna concentrarsi prima sul verso 51, quando la domanda se i discepoli avessero compreso “tutte queste cose” aveva lo scopo di portarli a riflettere sul privilegio che avevano nell’ascoltare le spiegazioni di Gesù. Ricordiamo che aveva detto loro, nell’esposizione delle prime parabole, “A voi è dato conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato” (13.11). Quel “A voi è dato” era però riferito in prospettiva, per quello che erano nell’anima, per l’elezione che avevano ricevuto ad essere apostoli operanti nella dispensazione della Grazia. In quel momento Gesù parlava a uomini che, per quanto gli fossero affezionati, desiderosi di partecipare alla Sua predicazione ed ascoltarne gli insegnamenti senza pregiudizi come molti, possedevano quella limitatezza tipica di chiunque non è illuminato dallo Spirito. Il cambiamento sarebbe avvenuto quando sarebbe arrivato “…il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli vi insegnerà ogni cosa e vi rammenterà tutto quello che vi ho detto” (Giovanni 14.26).

La comprensione dei discepoli di “tutte queste cose” era quindi limitata alle linee generali, alla parabola del seme gettato nel campo e della zizzania che erano state loro spiegate; avevano capito che ci sarebbe stata una separazione dal “buono” dal “cattivo”, ma i dettagli li avrebbero compresi dopo, con le illuminazioni dello Spirito e la pratica della vita cristiana. Il loro “” era quindi limitato all’immediatezza dei concetti loro esposti e, se avessero dovuto spiegarli meglio, non sarebbero stato in grado di farlo. Poco tempo dopo, infatti, Matteo riporterà un episodio in cui Pietro chiederà spiegazioni a Gesù su una frase che né lui né gli altri avevano capito: “«Ogni pianta che non è stata piantata dal Padre mio celeste, verrà sradicata. Lasciateli stare! Sono ciechi e guide di ciechi. E quando un cieco guida un altro cieco, tutti e due cadranno in un fosso!». Pietro allora gli disse: «Spiegaci questa parabola». Ed egli rispose: «Neanche voi siete capaci di comprendere? Non capite che tutto ciò che entra nella bocca passa nel ventre e viene gettato in una fogna? Invece ciò che esce dalla bocca, proviene dal cuore. Questo rende impuro l’uomo”»(15.13-18).

Quelle parole furono pronunciate perché i farisei si erano scandalizzati del fatto che né Gesù né i suoi si lavavano le mani prima di prendere cibo, cosa che trasgrediva “la tradizione degli antichi” (Matteo 15.2), senza preoccuparsi di ciò che veramente li rendeva impuri, cioè un cuore non rigenerato dalla Parola di Dio. Abbiamo già citato il verso “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me, invano mi rendono il culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini” (parole di Gesù in Marco 7.6,7 che cita Isaia), sintomo di una grave malattia spirituale, della religiosità fine a se stessa, di un comportamento che denota attaccamento a riti e tradizioni che appagano la mente lasciando intatte le proprietà caratteriali dell’ “uomo vecchio” che rimane solo coi propri egoismi. Ed è il cuore il primo a rispondere alle sollecitazioni immediate, primarie della carne.

L’ottava parabola di quel giorno verte proprio sulla differenza tra l’essere uno “scriba” tra i tanti che si trovavano in Giudea e Galilea, e uno “divenuto discepolo del regno dei cieli”. Prima di affrontare l’argomento, però, occorre sviluppare la figura del “padrone di casa, che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche”: con questa similitudine Gesù si rifà ad una persona che non si limita a procurarsi gli oggetti e gli alimenti per le immediate necessità, ma a mettere da parte ciò che può sempre servire. Anche oggi, chi vive in una casa che lo consente, ripone “cose vecchie” in cantina o negli armadi lasciando quelle acquistate di recente a portata di mano. Come sappiamo tutti, però, viene sempre il momento in cui un oggetto comprato anni addietro diventa necessario e lo si deve andare a cercare. Teniamo presente questi pochi dati e raccordiamoli alla figura dello scriba, persona non qualunque perché, come abbiamo avuto modo di considerare in un precedente episodio, era un istruito, formato nell’esperienza nelle lettere e nelle Scritture che insegnava al popolo.

È però fondamentale che Gesù parli di uno che è “divenuto discepolo del regno dei cieli”, cioè che ha abbandonato quelle caratteristiche che lo rendevano soggetto a Sue critiche e rimproveri: l’orgoglio e la presunzione dati dall’attaccamento alla tradizione orale e scritta fiorita accanto alla Legge e ai Profeti, avevano finito per avere la meglio sui nobili intenti che avevano caratterizzato la nascita della categoria degli scribi. Da custode della Legge di Dio perché “uomo del Libro”, l’elaborazione costante dell’immenso materiale della tradizione aveva finito per assumere un’importanza maggiore della Torah scritta. Il risultato lo conosciamo: gli scribi e i farisei avevano finito per perdere il senso generale, dal quale occorre sempre partire per comprendere, e si perdevano nei particolari, come dimostrato dal richiamo di Gesù a ciò che contaminava davvero l’essere umano.

È triste considerare come nel cristianesimo ci siano molti scribi, ma ben pochi siano i “discepoli del regno dei cieli”: così avviene in tutte le denominazioni, nate come costole di altre chiese come ribellione al formalismo e ad errate posizioni dottrinali, ma che poi sono scivolate in altri errori e in altre presunzioni. Lo “scriba” secondo Cristo, se non è consapevole di non essere migliore di altri, ma solo diverso, se non si arrocca sul fatto che “lui sì che cammina con rettitudine” e non tiene presente che può sempre cadere, se non antepone la Parola di Dio alla sua, se non cammina costantemente unito a Cristo e non vigila su se stesso, è destinato a perdere la sua funzione. La meta dello scriba divenuto discepolo non è il nutrire se stesso o il proprio orgoglio per fare sfoggio di conoscenza e sapere cercando l’onore e il rispetto dei propri simili, ma è rendersi strumento nelle mani di Dio per la propria e altrui edificazione. Egli dev’essere “bene ammaestrato”, o “ammaestrato per il regno dei cieli” secondo altre traduzioni, dove in quel “bene” vediamo l’approvazione del Signore: sa che dovrà rendere conto del proprio operato.

Poc’anzi è stato fatto l’esempio delle cose che si trovano in una abitazione: si tratta di un esempio immediato, ma moderno. In realtà Gesù, con la figura del padrone di casa, intende riferirsi a un amministratore, o a un uomo benestante che, dovendo provvedere ai domestici e ai famigliari, distribuisce ciò di cui necessitano. Cose utili e varie. È quello che dovrebbero fare i responsabili della Chiesa locale, immedesimandosi nelle persone loro affidate, nel “gregge di Dio”. La parabola dei servi, che riportano Matteo e Luca, parla dello “scriba” con termini diversi: “Qual è dunque il servo fedele e avveduto, che il suo padrone ha preposto ai suoi domestici, per dar loro il cibo al suo tempo? Beato quel servo che il suo padrone, quando egli tornerà, troverà facendo così. In verità vi dico che gli affiderà l’amministrazione di tutti i suoi beni. Ma, se quel malvagio servo dice in cuor suo: «Il mio padrone tarda a venire» e comincia a battere i suoi conservi, e a mangiare e bere con gli ubriaconi, il padrone di quel servo verrà nel giorno in cui meno se l’aspetta e nell’ora che egli non sa, lo punirà duramente e gli riserverà la sorte degli ipocriti. Lì sarà il pianto e lo stridore di denti” (Matteo 24.45-51)

Luca, impiega delle varianti: si parla di un “amministratore fedele e saggio che il padrone costituirà sui suoi domestici per dar loro a suo tempo la porzione di viveri” (12.42) e come in Matteo si ipotizza che quella stessa persona, preso atto che il padrone tardi a tornare, cominci “a battere i servi e le serve, a mangiare, a bere e ubriacarsi” (v.45). La conclusione del racconto è “lo punirà severamente e gli assegnerà la sorte con gli infedeli”.

Quel servo non viene colto da stanchezza per il duro lavoro, ma si chiede chi glielo faccia fare di comportarsi in ossequio all’incarico ricevuto se i giorni scorrono tutti uguali e non sia il caso di godersi un po’ di “vita” visto che il padrone tarda a tornare. In pratica, l’amministratore esce dal proprio ruolo e ne assume un altro, decide di agire in autonomia, indipendentemente dagli ordini ricevuti. Nel “Battere i servi e le serve” vediamo la prepotenza e la volontà di umiliare, nel “mangiare, bere e ubriacarsi” il tradire le aspettative del suo signore e soprattutto dimenticare la propria condizione di servo volendo agire chiaramente in modo diverso dai suoi pari trasformandosi in un usurpatore, impostore, traditore.

Chi aggiornerà i cristiani sullo “scriba” sarà l’apostolo Paolo, scrivendo a Tito e Timoteo suoi discepoli e attivi nella predicazione e rafforzamento delle Chiese: “Per questo ti ho lasciato a Creta: perché tu metta ordine in quello che rimane da fare e stabilisca alcuni presbiteri in ogni città, secondo le istruzioni che ti ho dato. Ognuno di loro sia irreprensibile, marito di una sola donna e abbia figli credenti, non accusabili di vita dissoluta o indisciplinati. Il vescovo, infatti, come amministratore di Dio, deve essere irreprensibile: non arrogante, non collerico, non dedito al vino, non avido di guadagni disonesti, ma ospitale, amante del bene, assennato, giusto, santo, padrone di sé, fedele alla Parola, degna di fede, che gli è stata insegnata, perché sia in grado di esortare con la sua sana dottrina e di confutare i suoi oppositori” (Tito 1.5-9)

A Timoteo poi lascerà scritto: “Se uno aspira all’episcopato, desidera un nobile lavoro. Bisogna dunque che il vescovo sia irreprensibile, marito di una sola donna, sobrio, prudente, dignitoso, ospitale, capace di insegnare, non dedito al vino, non violento, ma benevolo, non litigioso, non attaccato al denaro. Sappia guidare bene la propria famiglia e abbia figli sottomessi e rispettosi, perché, se uno non sa guidare la propria famiglia, come potrà aver cura della Chiesa di Dio? Inoltre non sia convertito da poco tempo, perché, accecato dall’orgoglio, non cada nella stessa condanna del diavolo. È necessario che egli goda buona stima presso quelli che sono fuori della comunità, per non cadere in discredito e nelle insidie del demonio” (1 Timoteo 3.1-7); simili indicazioni sono date poi per i diaconi.

Sono due passi impegnativi, che meriterebbero un’analisi a parte, ma che ampliano il significato e il perché dell’ultima parabola esposta da Gesù privatamente ai discepoli.

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