07.07 – LE PARABOLE DEL REGNO 6: LA RETE (Matteo 13.47-50)

7.07 – Le parabole del regno 6 (La rete, Matteo 13.47-50)

 

“47Ancora, il regno dei cieli è simile a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci. 48Quando è piena, i pescatori la tirano a riva, si mettono a sedere, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi. 49Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni 50e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti.

 

            È la seconda volta nella stessa giornata che Gesù parla di un raccolto che avverrà alla fine dei tempi: la prima l’abbiamo avuta con l’esempio dei mietitori, del fatto che ci sarà una selezione tra grano e zizzania, di una fornace, di “pianto e stridore di denti”. Qui, nel secondo racconto, cambiano gli elementi, ma non il risultato anche se qualcosa di profondamente diverso c’è. Da sempre i commentatori hanno posto la parabola della rete in connessione a quella delle zizzanie, ma le azioni in cui le due si svolgono sono in altrettanti ambienti opposti: nel primo, il campo, abbiamo la Chiesa nella quale purtroppo si annidano seme e operatori estranei alla Parola di Dio e la inquinano; nel secondo, la rete, è raffigurato il mondo esterno, nel quale operano ogni sorta di elementi, positivi e negativi, utili e inutili.

Prima di fare le necessarie conclusioni, guardiamo i componenti del racconto a partire dalla “rete gettata nel mare” che non va intesa come una normale da pesca, ma del tipo a strascico: il greco “saghéne” indica infatti quella rete che veniva gettata nell’acqua a semicerchio e poi trainata dalle barche per i due capi fino a quando non si riempiva di ciò che riusciva a raccogliere, non solo di pesce. Nei versi in esame della nostra versione abbiamo una traduzione non proprio corretta, ma che piuttosto cerca di orientare il lettore costringendolo a fare riferimento alla parabola della zizzania cui è indubbiamente collegata. Il testo originale infatti non riporta “ogni genere di pesci”, ma semplicemente “(cose) di ogni genere” esattamente come i pescatori non “raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi”, ma “raccolgono le cose buone nelle loro ceste e buttano via ciò che non vale nulla”, quindi l’attenzione degli addetti non si concentra solo sulla selezione dei pesci commestibili o meno, ma anche su quanto viene raccolto nello strascico, che viene valutato per essere tenuto o gettato.

Da sottolineare la posizione dei pescatori che “si mettono a sedere” prima di operare, con la quale Gesù dà all’immagine un senso di calma, di lavoro di persone esperte, di gesti studiati e di conoscenza, attenzione e cura perché nulla deve andare sprecato: quelle persone cercano ciò che è utile e buttano via “ciò che non vale nulla”, quindi valutano elemento dopo elemento più che “i pesci cattivi”; il testo greco usa il termine “saprà”, cioè “ciò che è guasto, corrotto”. Credo che mettere assieme tutti questi dati contribuisca a dare un senso molto più ampio e completo alla parabola che altrimenti renderebbe un’idea, per quanto efficace, non altrettanto precisa.

Riassumendo: abbiamo la descrizione di un altro aspetto del regno dei cieli, di ciò che avverrà nel futuro, “alla fine del mondo”, non prima. Ci sarà un tempo, che vedremo tra breve per quanto possibile, in cui tutti gli uomini, qui paragonati ai pesci, verranno vagliati con tutte le loro azioni e verrà fatta una selezione accurata in mezzo a tutto quell’ammasso di esseri e cose rappresentato dalla parabola. Ancora oggi i pescatori di professione selezionano pesce per pesce e lo mettono in ceste in base alla loro specie, spesso mentre sono in mare. E buttano via tutto ciò che non vale nulla. L’uomo che oggi sente parlare di Cristo da persone che glielo presentano in base ai doni ricevuti, non pensa che gli viene offerta la possibilità di incontrarLo in salvezza anziché in giudizio: in quel momento può conoscere il Figlio dell’uomo “mansueto e umile di cuore” anziché l’entità di fronte alla quale l’apostolo Giovanni e altri profeti, abbagliati e spaventati dalla Sua potenza e santità quando la videro, ebbero dei mancamenti per lo spavento. E così sarebbero rimasti senza che una voce amica e amorevole li invitasse a rialzarsi e a non temere.

Abbiamo letto che Gesù disse “Così avverrà alla fine del mondo” e ho precisato “non prima” perché si tratta della fine dell’ambiente che conosciamo, la conclusione dell’esistenza della terra con l’universo che la circonda, fatto accennato dagli antichi profeti, ma che solo all’apostolo Giovanni fu concesso vedere nei dettagli per trasmetterne ai credenti le modalità. Qui occorre fare necessariamente riferimento al libro dell’Apocalisse, o Rivelazione, l’unico scritto con lo scopo preciso di “mostrare ai suoi servi le cose che dovranno accadere tra breve” (1.1). Ebbene la “fine del mondo”, anticipata da molte sette, Testimoni di Geova in particolare, che hanno voluto indicare più volte una data precisa dell’avvenimento poi chiaramente smentita dai fatti, arriverà dopo tutta una serie di eventi che avranno nel millennio un periodo di tregua tra la “gran tribolazione” e la fine del creato che conosciamo.

Chi è interessato ad intravedere gli eventi futuri, perché “Beato chi legge e beati coloro che ascoltano le parole di questa profezia e custodiscono le cose che vi sono scritte” (1.3), nonostante si trovi di fronte ad una lettura apparentemente ostica perché non scritta secondo una logica umana, trova abbastanza agevole individuare una linea temporale che parte dalla Chiesa primitiva per arrivare alla “fine del mondo” e alla creazione di uno nuovo, passando attraverso sette avvenimenti identificabili negli altrettanti sigilli, parte dei quali si sono già aperti, descritti nei capitoli 7 e 8. È fondamentale il fatto che quei sigilli siano a protezione del libro su cui sono scritti i nomi dei salvati e vengano tolti uno ad uno fino alla fine: “E vidi, nella mano destra di colui che sedeva sul trono, un libro scritto sul lato interno e su quello esterno, sigillato con sette sigilli. Vidi un angelo forte che proclamava a gran voce: «Chi è degno di aprire il libro e scioglierne i sigilli?». Ma nessuno, né in cielo, né in terra, né sotto terra, era in grado di aprire il libro e di guardarlo. Io piangevo molto, perché non fu trovato nessuno degno di aprire il libro e di guardarlo. Uno degli anziani mi disse «Non piangere; ha vinto il leone della tribù di Giuda, il Germoglio di Davide, e aprirà il libro e i suoi sette sigilli»” (5.1-5).

Identificato il libro ed il perché nessuno potesse aprirlo salvo l’Unico degno di farlo, è anche agevole riconoscere, nel corso della lettura, la presenza di una linea ascendente delle forze avverse alla Parola di Dio fino all’instaurazione di un impero mondiale che soffocherà qualunque rifiuto ad aderirvi anche solo formalmente: si tratta di quel richiamo all’impossibilità di comprare e vendere senza avere il “marchio della bestia” sulla fronte o sulla mano destra. Alla distruzione di quel sistema seguirà il periodo in cui Satana verrà incatenato dando inizio al “millennio”, cioè quel tempo in cui Gesù e i credenti regneranno sulla terra: “Poi vidi un angelo che scendeva dal cielo e che aveva la chiave dell’abisso e una gran catena in mano. Egli prese il dragone, il serpente antico, che è il diavolo e Satana, e lo legò per mille anni, poi lo gettò nell’abisso che chiuse e sigillò sopra di lui, perché non seducesse più le nazioni finché fossero compiuti mille anni, dopo i quali dovrà essere sciolto per poco tempo” (Apocalisse 20.1-3).

Ecco, sempre in questo libro si trovano anche i riferimenti alla mietitura e alla vendemmia, anch’essi da non confondere con la selezione finale. Tenendo presente la parabola della zizzania leggiamo 14.14,15: “Un altro angelo uscì dal tempio, gridando a gran voce a colui che era seduto sulla nube: «Getta la tua falce e mieti; è giunta l’ora di mietere, perché la messe della terra è matura». Allora colui che fu seduto sulla nube lanciò la sua falce sulla terra e la terra fu mietuta. Allora un altro angelo uscì dal tempio che è nel cielo, tenendo anch’egli una falce affilata. Un altro angelo, che ha potere sul fuoco, venne dall’altare e gridò a gran voce a quello che aveva la falce affilata: «Getta la tua falce affilata e vendemmia i grappoli della vigna della terra, perché le uve sono mature». L’angelo lanciò la sua falce sulla terra, vendemmiò la vigna della terra e rovesciò l’uva nel grande tino dell’ira di Dio”.

Queste immagini si riferiscono al rapimento della Chiesa, quando alla mietitura la zizzania non verrà raccolta, lasciando alla fine il gettarla nel fuoco, e sarà tenuto solo il grano. Lo stesso per la vendemmia, dove i credenti, in riferimento alla “vite” e ai “tralci”, verranno finalmente radunati e, con questo, cesserà la presenza dei giusti sulla terra per cui potranno avere luogo tutte le nefandezze della Bestia e i giudizi su di lei. Ricordiamo che la distruzione di Sodoma avvenne quando Lot e i suoi se ne andarono dalla città, non prima.

È un’immagine terribile quella che descrive Giovanni sulla sorte che seguiranno coloro che avranno aderito al sistema perverso della Bestia subito dopo la sua caduta: “Chi adora la bestia e la sua statua, e ne riceve il marchio sulla sua fronte o sulla mano, anch’egli berrà il vino dell’ira di Dio, che è versato puro nella coppa della sua ira, e sarà torturato con fuoco e zolfo al cospetto degli angeli santi e dell’Agnello. Il fumo del loro tormento salirà per i secoli dei secoli, e non avranno riposo né giorno né notte quanti adorano la bestia e la sua statua e chiunque riceve il marchio del suo nome” (14.9-11).

Un intermezzo necessario in questa brevissima panoramica sugli eventi futuri accennati da Gesù, è un’altra nota alla traduzione della parabola della rete: al verso 49 leggiamo “verranno gli angeli”, anche qui tradotto così per semplificare, essendo corretto “usciranno” anche perché l’uscita dei messaggeri va a collegarsi alla stessa azione compiuta in Apocalisse. Gesù stesso lo predisse: “E allora apparirà nel cielo il segno del Figlio dell’uomo e tutte le nazioni della terra faranno cordoglio e vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nuvole del cielo con potenza e grande gloria. Ed egli manderà i suoi angeli con un potente suono di tromba, ed essi raccoglieranno i suoi eletti dai quattro venti, da un’estremità dei cieli all’altra” (Matteo 24.30,31).

La nostra parabola però ci parla di separazione tra ciò che ha valore e ciò che è inutile e l’adempimento lo troviamo ancora in Apocalisse 20.11-14: “Poi vidi un gran trono bianco e colui che vi sedeva sopra, dalla cui presenza fuggirono il cielo e la terra, e non fu più trovato posto per loro. E vidi i morti, grandi e piccoli, che stavano ritti davanti a Dio, e i libri furono aperti; e fu aperto un altro libro, che è il libro della vita, e i morti furono giudicati in base alle cose scritte nei libri, secondo le loro opere. E il mare restituì i morti che erano in esso, la morte e l’Ades restituirono i morti che erano in loro, ed essi furono giudicati, ciascuno secondo le sue opere. Poi la morte e l’Ades furono gettati nello stagno di fuoco. Questa è la morte seconda. E se qualcuno non fu trovato scritto nel libro della vita, fu gettato nello stagno di fuoco”. Dopo di che, verrà “Un nuovo cielo e una nuova terra. perché il primo cielo e la prima terra erano passati, e il mare non c’era più” (21.1).

Ecco, visto per sommi capi, il piano di Dio per l’uomo che ha creduto in Lui. E, altrettanto per sommi capi, il destino che si saranno scelti quelli che lo avranno rifiutato: rinviando quando erano in vita l’incontro con Lui, non potranno comunque sottrarsi a quello in condanna. Gesù in questa parabola va direttamente alla selezione finale omettendo tutti quei passaggi intermedi che i discepoli non avrebbero potuto capire e che allora non erano necessari, come il rapimento della Chiesa, la costituzione di distruzione di “Babilonia la grande”, la triade composta dalla Bestia, dal Falso Profeta e dal Dragone la cui esistenza rimane velata fino a quando a Giovanni non fu detto “Quello che vedi, scrivilo in un libro e mandalo alle sette Chiese” (1.11), figure della Chiesa nella storia, ciascuna appartenente ad un’epoca precisa.

Per i discepoli era urgente conoscere altro, come le verità basilari contenute nelle parabole del regno oppure, più avanti, al loro stupore per la magnificenza delle costruzioni del Tempio in Gerusalemme, che non sarebbe lasciata “pietra su pietra che non sia diroccata”. Perché, nonostante il senso di magnificenza di fronte alle opere dell’uomo, non ne resterà nulla. Amen.

* * * * *

 

07.06 – LE PARABOLE DEL REGNO 5: IL TESORO E LA PERLA (Matteo 13.44-46)

7.06 – Le parabole del regno 5 (Il tesoro e la perla, Matteo 13.44-46)

 

“44Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo. 45Il regno dei cieli è simile anche ad un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra.”.

 

            Come già accennato, inizia qui un secondo gruppo di parabole che potremmo definire “privato” perché esposte ai soli discepoli dopo aver risposto ai loro chiarimenti su quelle pronunciate in pubblico. Al verso 36 infatti leggiamo “Poi congedò la folla ed entrò in casa; i suoi discepoli gli si avvicinarono per dirgli: «Spiegaci la parabola della zizzania nel campo»”. Forse per questo motivo, per il fatto che negli esempi precedenti Gesù aveva parlato degli effetti pubblici della Parola e del Regno che ne è il risultato, ora entra negli effetti che questo produce nell’intimo della persona quando si rende conto di cosa abbia trovato.

Veniamo alla prima delle nuove parabole: c’è un tesoro nascosto in un campo, cosa a quei tempi abbastanza comune: essendo sempre possibili invasioni nemiche o di briganti, erano numerosi i capifamiglia che sotterravano i loro risparmi nella speranza che non venissero scoperti. Sotterrarli da qualche parte, come abbiamo già visto anche in casa, era l’unica possibilità per preservarli, ma siccome uno solo era chi sapeva dov’era il nascondiglio, alla sua morte o deportazione se ne perdeva la memoria e gli averi preziosi rimanevano lì.

Ora, spostiamo la nostra attenzione sui protagonisti del racconto: il tesoro trovato, dal valore inestimabile. “Un uomo” di cui non è detta la professione, ma che possiamo individuare, più che in un agricoltore o un proprietario terriero, in un cercatore perché nessuno trova qualcosa di “nascosto”, per di più in un campo, senza frugare, studiare attentamente il terreno, soprattutto senza stancarsi. Se consideriamo valida la figura del cercatore, si tratta di un’azione che ricorda pienamente Proverbi 2.1-5: “Figlio mio, se ricevi le mie parole e fai tesoro dei miei comandamenti, prestando orecchio alla sapienza e inclinando il cuore all’intendimento, se chiedi con forza il discernimento e alzi la tua voce per ottenere intendimento, se lo cerchi come l’argento e ti dai a scavarlo come un tesoro nascosto, allora intenderai il timore dell’Eterno, e troverai la conoscenza di Dio”. Il riferimento è semplice e profetico e contiene tutte le azioni della ricerca spirituale: le parole prima si ricevono e metabolizzano, come rilevabile nel “far tesoro dei comandamenti” visti non nella mera esecuzione di ordini, ma di principi assimilati e fatti propri perché Dio non dà mai un ordine senza motivarlo. Questo porta, una volta acquisita la consapevolezza di quanto il volere e l’appartenere al Signore sia alto e distante dal nostro essere, a “chiedere con forza” la capacità di discernere e intendere.

Vediamo che tutto ciò non è disgiunto da un impegno: cercare “come l’argento” e scavare “come un tesoro nascosto”, quindi impiegando quella fatica che non si avverte come tale perché l’obiettivo la giustifica e la rende leggera. Anche se chi guarda il lavoro del cercatore “da fuori” lo possa vedere come estenuante, possa considerare quella vita come di rinuncia senza garanzie di successo, è quell’ “allora intenderai” e “troverai”, pari a un sole che squarcia le nubi, che sancisce e promette l’obiettivo raggiunto. Cercare “il regno di Dio”, per chi è nel mondo, è sempre stato ritenuto qualcosa di assurdo, una perdita di tempo, un mettersi a inseguire le favole, ma per chi l’ha trovato è qualcosa di estremamente concreto: è un tesoro nascosto, lo ha cercato come tale e il personaggio della parabola, per ottenerlo legalmente, ha venduto tutti i suoi averi e ha comprato il campo. Fosse stato un disonesto, avrebbe potuto caricare il tesoro su un carro e andarsene, ma preferisce seguire le procedure legali per goderne.

Traspare dalle parole di Gesù la naturalezza con la quale il tesoro viene trovato: la figura del cercatore – o di chi ha trovato comunque – non è esaltata con termini che possano suscitare invidia o ammirazione, ma come la conclusione di una vicenda qualunque, comune, quasi come si trattasse di un fatto naturale come avviene con la parabola della perla trovata dal mercante. Non poteva essere diversamente visto che, al sermone sul monte, Nostro Signore aveva posto l’accento sul principio di risposta: “Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto; perché chiunque chiede riceve; chi cerca trova e sarà aperto a chi bussa” (Matteo 7.7,8). Ecco la naturalezza con la quale il tesoro viene trovato, ecco il perché l’uomo della parabola “va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo”: fa un investimento, sa che da quel tesoro potrà trarre benefici e permettersi di fare cose che prima gli erano precluse. In pratica, quel rinvenimento non costituiva per lui un punto di arrivo, ma di partenza, il capitolo di una nuova vita. Ecco perché sbaglia chi vede in questa parabola la conclusione felice di un percorso: spiritualmente la cittadinanza del regno è solo il raggiungimento di un traguardo che, per quanto indispensabile, segna l’inizio di un cammino nuovo come leggiamo in Colossesi 2.2 quando Paolo scrive “…arricchiti di una piena intelligenza per conoscere il mistero di Dio, che è Cristo. In lui sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della conoscenza”. Ecco perché, chi trova il tesoro della parabola, in realtà trova dei mondi da scoprire per cui la sua ricerca prosegue ancor più di prima.

Nella “gioia” di quell’uomo e nel vendere quello che aveva, dobbiamo identificare l’abbandono di ciò che è nostro relativamente a quanto ritarda il nostro cammino, la stessa scelta che fece Mosè di cui è detto “Per fede Mosè, divenuto adulto, rifiutò di essere chiamato figlio della figlia del faraone, preferendo essere maltrattato con il popolo di Dio, piuttosto che godere momentaneamente del peccato. Egli stimava ricchezza maggiore dei tesori d’Egitto l’essere disprezzato per Cristo; aveva infatti lo sguardo fisso sulla ricompensa” (Ebrei 11.24,26). Si noti come, ai tempi in cui il Figlio non era ancora rivelato ufficialmente, Paolo ci dice che Mosé sapeva di Lui, per quanto la dispensazione in cui viveva glielo poteva consentire. E “lo sguardo fisso sulla ricompensa” è quello che ci permette di fare la selezione tra ciò che è utile al nostro avanzamento spirituale oppure no.

C’è poi l’azione finale, l’acquisto del campo, grazie alla quale il protagonista entra legalmente in possesso del tesoro. Questo ci rimanda a Proverbi 23.23, “Acquista la verità e non rivenderla, la sapienza, l’educazione e la prudenza”, tutti elementi che siamo tenuti a procacciare – “Acquista” – e a non considerare come cose comuni – “non rivenderla” –. Verità, sapienza, educazione e prudenza aprono infatti altri mondi a chi le possiede indipendentemente dalla loro quantità.

Riguardo al comprare (dagli uomini) non è cosa che tutti possono sempre permettersi perché tutto si basa sul soldo o su ciò che uno ha da offrire in cambio, ma da Dio sappiamo che questo avviene “senza denaro e senza prezzo”; basta riconoscere, capire di avere veramente bisogno di ciò che Lui vuole offrire; se poi si acquisisce il principio in base al quale come esseri assolutamente imperfetti abbiamo sempre bisogno di essere ogni giorno “clienti” del Padre, ci terremo al riparo da molte negatività che vengono prima da noi stessi, tendenzialmente sempre pronti a giustificarci, se non a vederci per ciò che non siamo. E qui, a proposito del “comprare”, mi viene in mente la Chiesa di Laodicea, i cui componenti erano-sono convinti di essere ricchi, ma sono definiti “un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo”. L’invito in proposito è “Ti consiglio di comperare da me oro purificato dal fuoco per diventare ricco, e abiti bianchi per vestirti e perché non appaia la tua vergognosa nudità, e collirio per ungerti gli occhi e recuperare la vista” (Apocalisse 3.18). Presso il Padre esiste dunque tutto ciò che serve per la nostra vita: per la ricchezza del mondo ricordiamo come si conclude la parabola del ricco stolto, “Così è di chi accumula tesori per sé, e non è ricco in Dio” (Luca 12.21). Gli abiti bianchi sono quelli dell’innocenza e della giustizia perché non appaia la nudità in Adamo e la presenza del collirio, per “ungerti gli occhi e recuperare la vista”, ci parla di quanto sia indispensabile un confronto continuo, sincero e avulso da quei diabolici sentimentalismi religiosi, con la Parola di Dio per evitare di essere vomitati dalla Sua bocca o tenuti a margine dai Suoi piani o anche solo dalla Vita con Lui. Il più delle volte, questo avviene perché si sceglie, anziché confrontarci con la santità di Dio, di guardare al nostro simile ed è lì che iniziano le finzioni, gli inganni, il cammino a ritroso. Il più delle volte questo avviene perché si sostituisce alla purezza della Parola di Dio quella degli uomini che la contamina rendendola una religione come le altre, perciò inutile.

La seconda parabola che Gesù espone ai suoi è quella del mercante di perle preziose che, inaspettatamente, ne trova una diversa dalle altre, il cui valore anche qui è talmente elevato da spingerlo a vendere tutti i suoi averi per poterla comprare. Anche qui il riferimento al libro dei Proverbi, ma non solo, è d’obbligo: la perla infatti rappresenta sia ciò che è effettivamente prezioso spiritualmente, ma anche ciò che è ritenuto tale nel mondo apparente. La perla, vista come fonte di guadagno dagli uomini e come ornamento dalle donne, è usata per indicare il fraintendimento: “…allo stesso modo le donne, vestite decorosamente, si adornino con pudore e riservatezza, non con trecce e ornamenti d’oro, perle o vesti sontuose, ma, come conviene a donne che onorano Dio, con opere buone” (1 Timoteo 2.9);  non a caso la “grande prostituta” dell’Apocalisse è vestita “…di porpora e di scarlatto, adorna d’oro, di pietre preziose e di perle” (17.4).

Eppure la perla, usata per scopi frivoli per abbellire qualcosa che non ha bisogno di venire migliorato o senza poter cambiare realmente ciò che è già brutto, sarà presente con altro significato nella Nuova Gerusalemme, nelle sue dodici porte dove “…le dodici porte sono dodici perle, ciascuna porta era formata da una sola perla” (Apocalisse 21.21), in riferimento al risultato delle sofferenze alla croce, non esistendo in natura perla senza sofferenza.

Tornando alla nostra parabola, chi trova la perla non è un dilettante, ma un profondo conoscitore della materia. Allo stesso modo quindi Gesù invita anche i sapienti di questo mondo, i filosofi, “i savi e gli intendenti” a confrontarsi col Suo Vangelo perché possano transitare dal mondo della “sapienza” umana a quella spirituale, perché “Coralli e perle non meritano menzione, l’acquisto della sapienza non si fa con le gemme” (Giobbe 28.18), “la sapienza vale più delle perle e quanto si può desiderare non la eguaglia” (Proverbi 8.11), perché “C’è possesso di oro e moltitudine di perle, ma la cosa più preziosa sono le labbra sapienti” (20.15). Ancora sulle perle, ricordiamo l’insegnamento sul non dare ciò che è santo ai cani e non gettare le perle davanti ai porci e che anticamente queste erano considerate ai pari dei diamanti, quindi molto più preziose di quanto non siano oggi.

Un esempio dei due protagonisti delle parabole lo troviamo nell’apostolo Paolo che, scrivendo ai Filippesi della sua esperienza e del suo bagaglio etnico-culturale ebbe a dire: “Queste cose, che per me erano guadagni, io le ho considerate una perdita a motivo di Cristo. Anzi, ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo ed essere trovato in lui, avendo come mia giustizia non quella derivante dalla Legge, ma quella che viene dalla fede in Cristo, la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede” (3.7-9).

Concludendo, con le due parabole Gesù ci ha presentato due tipi di uomini che hanno fatto una scelta assolutamente naturale, quella di chiunque nella vita di tutti i giorni nel momento in cui s’imbatta in qualcosa di molto prezioso. Purtroppo la stessa cosa non avviene nel campo spirituale, e le conseguenze verranno descritte nella similitudine successiva, quella della rete gettata in mare e dei pesci che raccoglie.

* * * * *

 

 

 

 

07.05 – LE PARABOLE DEL REGNO 4: LA SENAPE E IL LIEVITO (Matteo 13.31-34)

7.05 – Le parabole del regno 4 (La senape e il lievito, Matteo 13.31-34)

 

“31Espose loro un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un granello di senape, che un uomo prese e seminò nel suo campo. 32Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande delle altre piante dell’orto e diventa un albero, tanto che gli uccelli del cielo vengono a fare il nido tra i suoi rami». 33Disse loro un’altra parabola: «Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata». 34Tutte queste cose Gesù disse alle folle con parabole e non parlava ad esse se non con parabole,35perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta: Aprirò la mia bocca con parabole, proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo”.

 

            Matteo, attento espositore profetico-dottrinale, ci pone in successione queste due parabole, effettivamente connesse fra loro, e le fa iniziare direttamente con “Il regno dei cieli è simile a”. Marco e Luca le fanno precedere da una domanda che lo stesso Gesù pone ai suoi uditori: “A cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo?” (Marco 4.30): si tratta di un interrogativo importante perché chi parla, chi lo espone, non è un filosofo o un profeta che ha ricevuto un messaggio, ma Uno che il “regno” lo conosce in quanto partecipe e responsabile del suo progetto e realizzazione. Quel “regno” di cui molti avevano sentito parlare sta quindi per essere spiegato dalla Fonte più autorevole, dall’Unico in grado di esporre una verità così complessa e multiforme. Precedentemente Gesù aveva collegato il “regno dei cieli” ai tipi di uomini che ascoltano la Parola e delle reazioni che hanno di fronte ad essa, poi del fatto che questo prevede uno sviluppo che contempla un tempo per seminare lasciando che i “figli del regno” e i “figli del maligno” crescano insieme, e infine la mietitura in cui gli uni e gli altri verranno raccolti, ma con un diverso destino. Le parabole del seminatore e della zizzania sono quindi una premessa, una panoramica generale che riguarda l’essere umano e come si pone nei confronti del progetto di Dio, mentre quelle della senape e del lievito ci mostrano il suo sviluppo indipendentemente dalla loro volontà.

Per questa terza parabola Gesù sceglie il seme della senape, piccolo, rotondo, che nelle sue dimensioni massime arriva a circa mezzo millimetro. Colpisce, in questa parabola, la figura dell’uomo che decide di piantare un solo seme nel suo campo, a differenza delle precedenti in cui lo scopo è quello di dar vita a una coltivazione precisa, il grano. La senape poteva essere coltivata, seminata attendendo la fioritura annuale e la successiva comparsa dei semi, dai quali si ricavava una farina, ma anche olio, utilizzata sia in cucina che per curare la tosse e varie infiammazioni. Il protagonista di questo racconto vuole però che cresca un albero che avrebbe avuto fronde rigogliose destinate ad ospitare diverse specie di uccelli. Si tratta di un paragone che troviamo in molti punti dell’Antico Testamento che hanno a che fare coi progetti di Dio per il Suo Regno; ad esempio l’uomo che pianta un seme per la soddisfazione di contemplare un grande albero è connesso al Creatore in Ezechiele 17.23.24: “Un ramoscello io prenderò dalla cima del cedro; dalle punte dei suoi rami lo coglierò e lo pianterò sopra un monte alto, imponente; lo pianterò sul monte alto di Israele. Metterà rami e frutti e diventerà un cedro magnifico. Sotto di lui gli uccelli dimoreranno, ogni volatile all’ombra dei suoi rami riposerà. Sapranno tutti gli alberi della foresta che io sono il Signore, che umilio l’albero alto e innalzo l’albero basso, faccio seccare l’albero verde e germogliare l’albero secco. Io, il Signore, ho parlato e lo farò”.

Soffermiamoci brevemente su questo passo: in Israele sarebbe sorto un cedro, albero imponente che può arrivare a 40 o 50 metri d’altezza. Spesso il cedro della Scrittura è quello “del Libano” e trova il suo ambiente ideale in montagna. Anche questa pianta, nelle prime fasi del suo sviluppo, è fragile, ma diventa poi albero resistente, dal legno pregiato, emanando un aroma acuto e penetrante che respinge gli insetti. Il cedro di cui parla Ezechiele non sarebbe stato seminato come l’albero della senape, ma sarebbe nato da un ramoscello preso da un’altra pianta e qui è facile individuare il germoglio, Gesù Cristo quale “virgulto(che) germoglierà dalle sue radici” (Isaia 11.1,2). Ora questo albero piantato “metterà rami e frutti e diventerà un cedro magnifico”, aggettivo usato non da un uomo, ma da Dio stesso per cui riceverà tutta la sua approvazione e compiacimento. Quest’albero ci parla di santità (il suo legno fu usato da Salomone per costruire il tempio, 1 Re 6.14-16) e di purificazione (Levitico 14.6,7). C’è poi il particolare degli “uccelli del cielo” in cui sappiamo che Gesù identifica quelle creature che, nonostante siano apparentemente insignificanti, godono della Sua provvidenza: ricordiamo il sermone sul monte in cui, a proposito delle sollecitudini ansiose, invitò gli uomini a considerare, a parte i fiori del campo, proprio gli uccelli che “…non seminano, né mietono, né ammassano nei granai, eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate forse più di loro?” (Matteo 6.26).

Ezechiele cita poi gli alberi della foresta, questa volta figura degli uomini secondo le loro nazioni messi in relazione anche con gli uccelli che fanno il nido e godono l’ombra: qui le relazioni con altri versi sono almeno due, riferiti ad un tempo che deve ancora venire: “Alla fine dei giorni il monte del tempio del Signore sarà saldo sulla cima dei monti e s’innalzerà sopra i colli, e ad esso affluiranno tutte le genti. Verranno molti popoli e diranno «Venite, saliamo sul monte del Signore». Egli sarà giudice tra le genti e arbitro fra i popoli. Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci; una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione, non impareranno più l’arte della guerra” (Isaia 2.2,4), verso che troviamo identico in Michea 4.1.

Da questa citazione è semplice fare riferimento al cedro piantato sul monte alto e imponente, ma analoga situazione è anche descritta in Zaccaria 8.20-23: “…anche i popoli e abitanti di numerose città si raduneranno e si diranno l’un l’altro – quindi ci sarà concordia – «Su, andiamo a supplicare il Signore, a trovare il Signore degli eserciti. Anch’io voglio venire». Così popoli numerosi e nazioni potenti verranno a Gerusalemme per cercare il Signore degli eserciti e a supplicare il Signore”.

Possiamo fare a questo punto alcune osservazioni: primo, da quel piccolo seme di senape nessuno potrebbe aspettarsi che possa nascere un albero così grande ed utile: dà riparo nelle giornate assolate alle creature. Secondo, è un albero che cresce da solo, senza alcun intervento umano che lo possa rinforzare o guidare in qualche modo nel suo sviluppo. Terzo, è piantato non per un’utilità personale di chi lo semina, ma per l’esclusivo vantaggio di altri che non l’hanno chiesto. Quarto, non è detto cosa faccia quell’uomo del resto del campo: questo non rileva, l’attenzione si focalizza solo sul gesto di chi pianta il seme e sul risultato finale e, infine quinto, qui non c’è nessun “nemico” che viene ad attentare alla vita di quell’albero.

 

Se già da questa parabola è chiara la sproporzione tra ciò che è minimo e quanto è in grado di produrre, quella del lievito lo è ancora di più: la senape nasce da un seme, il pane da un lievito, quindi da un funghi microscopici, i saccaromiceti. L’esempio di Gesù qui è illuminante anche per la scelta del vero agente del suo racconto, non la donna, ma il lievito: su questo punto si sono arenati in tanti perché il lievito è spesso visto in riferimento alla negatività e al peccato che trasforma e inquina l’uomo poco a poco. Qui però non si tratta di dare interpretazioni a senso unico, ma del fatto che esiste sempre una doppia valenza per ciascun elemento del creato; infatti, parlando ai farisei che tenevano molto alla purità formale, Gesù volle farli riflettere  dicendo: “Non è quel che entra nella bocca che contamina l’uomo, ma quello che esce dalla bocca, ecco quel che contamina l’uomo”, (Matteo 15.11).

Il lievito, in questa parabola, è visto al pari del seme di senape come quella forza che si sviluppa nel tempo, cresce indipendentemente dal controllo umano. Entrambi i due elementi giungono a un punto in cui il loro compito giunge a un termine, l’albero con il suo arrivare a uno stadio rigoglioso e il lievito con la formazione di un impasto pronto per il forno. Da notare poi le “tre misure”, nel terzo originale “staia” che formavano un “efa”, quantità sufficiente a sfamare una famiglia.

La parabola del lievito, poi, ha un significato importante perché è la quarta, quella che secondo Matteo è l’ultima ad essere esposta alla folla in pubblico. Leggiamo infatti che “Allora Gesù, licenziate le folle, se ne ritornò a casa e i suoi discepoli gli si accostarono dicendo «Spiegaci la parabola del campo»” (v.26). Da qui in poi ne seguiranno altrettante, riservate solo a loro.

Resta da esaminare il richiamo di Matteo al Salmo 78.2, identico nella forma e nei termini, che descrive il compito del profeta, che Cristo assolveva come Figlio dell’uomo: “Aprirò la bocca con parabole”, quindi per simboli a volte elementari e di facile richiamo, altri complessi e comprensibili grazie allo Spirito Santo, come gli stessi apostoli e discepoli ebbero modo di sperimentare quando discese su di loro e compresero le parole che il Maestro aveva loro trasmesso. La seconda parte del verso è poi illuminante perché spiega il motivo per cui il profeta parla in modo non comprensibile a tutti: spiega “cose nascoste fin dalla fondazione del mondo” e qui emerge tutto il cammino tanto del singolo, che saputa la vitale importanza di queste le investiga “come i tesori” quali effettivamente sono, quanto della Chiesa intesa non come struttura più o meno gerarchica, ma come la grande Comunità dei credenti sparsi nelle varie denominazioni che la rendono viva e unica.

Concludendo, è facile vedere nei due elementi proposti da Gesù lo sviluppo del regno, che partì ufficialmente proprio da Lui: prima un uomo solo, poi dodici chiamati all’apostolato, poi 120, poi tremila in un solo giorno (Atti 2.41), quindi cinquemila (4.4), il tutto difficilmente non accostabile alla figura del seme che diventa arbusto e quindi albero, o al lievito.

Se la Scienza si pone ogni interrogativo possibile sui fenomeni fisici e chimici presenti nel mondo naturale, le parabole, e quindi le verità assolute trasmesseci attraverso la Scrittura, contengono la risposta ad ogni perché della nostra realtà spirituale. E i racconti fin qui esaminati hanno affrontato temi importanti quali la divisione delle anime, la separazione tra i figli di Dio e quelli che non lo sono ed infine cosa sia il Regno dei cieli, che per ora non si vede o di lui si sente parlare senza prestarvi attenzione, ma destinato ad apparire in tutta la sua realtà, come l’albero sotto il quale le creature si riparano o come il lievito che dà origine a qualcosa che diventa idoneo a sfamare. Perché non veniamo lasciati soli, mai.

* * * * *

 

 

07.04 – LE PARABOLE DEL REGNO: LA ZIZZANIA (Matteo 13.24-30)

7.04 – Le parabole del regno 3 (La zizzania, Matteo 13.24-30)

 

“4Espose loro un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. 25Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò. 26Quando poi lo stelo crebbe e fece frutto, spuntò anche la zizzania. 27Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: «Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene la zizzania?». 28Ed egli rispose loro: «Un nemico ha fatto questo!». E i servi gli dissero: «Vuoi che andiamo a raccoglierla?». 29«No, rispose, perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. 30Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano invece riponetelo nel mio granaio»”

 

            Leggendo la parabola colpisce la frase di apertura, “il regno dei cieli è simile a un uomo”, paragone non riferito tanto alla persona che compie una determinata azione, ma al suo modo di operare. “Il regno dei cieli è simile a” si troverà in molte parabole a conferma della totalità degli interventi di Dio nei confronti della sua creatura. Anche nel testo di oggi c’è un campo che, come nella prima parabola del seminatore, ma qui ancora di più, si riferisce a tutto il territorio da coltivare posseduto. Ora Gesù, dopo aver presentato nella parabola precedente la sorte che hanno i semi che cadono chi nella strada, chi nel terreno pietroso e chi in mezzo alle spine, entra nei dettagli occupandosi di ciò che avviene nel campo vero e proprio, seminato con “buon seme”, quindi una sorta di prodotto certificato dal quale si attende, come anche i suoi servi, un raccolto ricco e abbondante.

Nel “buon seme” riconosciamo il Vangelo, la Parola di Dio, che dà come risultato una crescita che l’apostolo Pietro descriverà con le parole “…generati non da un seme corruttibile, ma incorruttibile, per mezzo della parola di Dio viva ed eterna” (1 Pietro 1.23). Poi l’aggettivo “buono” non può che rimandarci alla creazione, quando la frase “E Dio vide che ciò era buono” compare al termine di ciascun giorno che si concluse col Suo riposo dopo i sei. Il “buon seme” che viene messo nel campo porta in sé l’approvazione del Creatore proprio come fu all’inizio quando leggiamo “Dio disse: «La terra produca germogli, erbe che producono seme e alberi da frutto, che fanno sulla terra frutto con il seme, ciascuno secondo la propria specie». E così avvenne. E la terra produsse germogli, erbe che producono seme, ciascuna secondo la propria specie. Dio vide che era cosa buona.” (Genesi 1.11,12). È evidente il rimando al tempo antico in cui c’era un progetto di perfezione e di equilibrio, lo stesso che si aspettava il padrone nel campo tramite il raccolto. Anche questa fu una parabola di cui i discepoli chiesero il significato: al verso 37 di questo stesso capitolo leggiamo “Colui che semina il buon seme, è il Figlio dell’uomo”. Addirittura poi, a testimonianza di quanto debba identificarsi chi ha creduto nella Parola, “il buon seme sono i figli del regno”. Un’identità totale.

Si arriva così al verso 25, che ci conferma che questo racconto sia in un certo senso speculare a quello della Genesi perché anche qui assistiamo ad una strategia ostile per rovinare, inquinare e se possibile distruggere tutto il lavoro accurato svolto con la semina, per quanto riguarda la parabola, e con la tentazione andata a buon fine, circa i nostri progenitori. Se con loro il nemico dovette mimetizzarsi e minare dalle fondamenta l’equilibrio e l’ingenuità-fragilità di Eva, qui raccoglie personalmente i semi di una pianta che non si trovava in commercio perché tossica, dando capogiri e vomito. Di sapore amaro, impossibile da distinguere dal grano o dall’orzo allo stato di piantina, in caso di contaminazione del campo chi faceva il raccolto era costretto o a estirpare le infestanti (ma come vedremo sarebbe stata un’azione poco prudente) oppure attendere che le due specie si lasciassero riconoscere crescendo.

L’azione del “nemico” viene fatta di notte, “mentre tutti dormivano” perché un campo, al contrario di un gregge, non lo si vigilava. Questo nemico agisce di nascosto, con il preciso obiettivo di rovinare il raccolto e lo fa con un’azione identica al proprietario del terreno, cioè semina: un ideale di vita falso, delle verità alternative, un modo di essere tossico, contaminante, indigeribile con l’obiettivo di rovinare il progetto del Creatore. C’è quindi un seme buono, la Parola di Dio che genera vita, e uno cattivo, del nemico, anch’esso una vita la dà, ma utile a portare danno agli altri. La spiegazione di Gesù, “Il campo è il mondo, il buon seme sono i figli del regno e la zizzania sono i figli del maligno” (v.38), è eloquente sull’identità di questi personaggi e come purtroppo gli uni siano costretti a condividere lo stesso spazio, quello del mondo. E si badi che possiamo leggere il termine “campo” in due modi, cioè tanto il mondo inteso come terra, quando come Chiesa, poiché è la storia a insegnare che anche al suo interno si nascondono, più o meno bene, individui che tutto fanno tranne che portare un frutto buono a vantaggio degli altri, della dottrina o dell’esempio. Gli scritti del Nuovo Patto sono pieni di esempi in proposito e più volte sono scritte esortazioni a guardarsi dai falsi profeti, l’aggiornamento neotestamentario dei farisei del tempo di Gesù.

Leggiamo al verso 39 che “a un certo punto spuntò anche la zizzania”, cioè diventò ufficialmente riconoscibile suscitando la meraviglia dei servi, in cui possiamo identificare quegli angeli che non svolgono la funzione di mietitori: “…e il nemico che l’ha seminata è il diavolo, mentre la mietitura è la fine del mondo, e i mietitori sono gli angeli”.

La domanda che i servi fanno al Signore del campo può essere letta come ingenua, perché la risposta se la sarebbero potuti dare da soli in quanto, per l’abbondanza della zizzania nel campo, difficilmente avrebbe potuto essere causata da semi portati dal vento. Va tenuto presente però cosa siano gli angeli, esseri innocenti a parte l’antica ribellione di alcuni di loro a Dio, che non hanno una volontà propria, ma sono essenzialmente degli esecutori ai Suoi ordini. La loro domanda è sotto certi aspetti simile a quella che rivolsero le anime dei martiri in Apocalisse 6.10,11: “Fino a quando aspetti, o Signore, che sei il Santo e il Verrace, a fare giustizia del nostro sangue sopra coloro che abitano la terra?– contro le zizzanie – E a ciascuno di essi fu data una veste bianca e fu loro detto che si riposassero ancora un po’ di tempo, finché fosse completato il numero dei loro conservi e dei loro fratelli, che dovevano essere uccisi come loro”.

Apriamo una breve parentesi: la loro è una domanda che, come quella dei mietitori, precede il raccolto finale. Anche ad essi viene detto di attendere e viene data loro una “veste bianca”, riferimento alla loro giustizia, quindi viene loro ricordata la beatitudine e la ricompensa che avrebbero avuto, ma che questa non sarebbe stata fruibile senza che prima fossero stati raggiunti da tutti gli altri, che abitavano ancora in un corpo di carne.

Mettiamo un attimo da parte ciò che Giovanni ci ha trasmesso per volere di Dio e torniamo alla risposta data ai mietitori: non era ancora il tempo per procedere. Se l’Apocalisse ci ha spiegato uno dei perché, qui Gesù ne dà un altro: si sarebbero strappate senza volerlo le piantine buone non per distrazione o errore, ma anche perché, essendo la zizzania cresciuta accanto al grano, le radici delle piante si erano intrecciate fra loro ed estirpando una piantina cattiva si sarebbe corso il rischio di fare altrettanto con il grano. Questo perché nessun’anima che il Padre ha dato al Figlio deve andare perduta.

Torniamo ora ai versi di Apocalisse successivi, quelli da 12 a 17: “E vidi quando l’Agnello aprì il sesto sigillo, e vi fu un violento terremoto. Il sole divenne nero come un sacco di crine, la luna diventò tutta simile a sangue, le stelle del cielo si abbatterono sopra la terra come un albero di fichi, sbattuto dalla bufera, lascia cadere i frutti non ancora maturi. Il cielo si ritirò come un rotolo che si avvolge, e tutti i monti e le isole furono smossi dal loro posto. Allora i re della terra e i grandi, i comandanti, i ricchi e i potenti, e infine ogni uomo, schiavo o libero, si nascosero tutti nelle caverne e fra le rupi dei monti, e dicevano ai monti e alle rupi: «Cadeteci addosso e nascondeteci dalla faccia di Colui che siede sul trono e dall’ira dell’Agnello, perché è venuto il grande giorno della loro ira, e chi può resistervi?».

Ecco, questo è un solo aspetto della mietitura, una delle sue fasi che, se ci verrà dato, affronteremo quando potremo fare un’analisi del libro dell’Apocalisse che, per il poco che è stato citato in questo studio, fa risultare assente la Chiesa.

Tornando alla parabola, anche ai mietitori viene detto di pazientare ancora un po’ di tempo, cioè fino a quando sarebbe stato impossibile sbagliare nel selezionare le piantine buone da quelle cattive e il raccolto avrebbe potuto iniziare e proseguire senza problemi. In tal modo l’opera del nemico sarebbe stata vana.

Ci sono poi due espressioni nella parte finale del racconto di Gesù che meritano un’attenzione particolare, cioè “lasciate che (…) crescano insieme” e “il grano invece riponetelo nel mio granaio”: la prima frase stabilisce che, purtroppo, chi appartiene ai figli di Dio è costretto a “crescere insieme” a chi serve un altro signore, che non può esservi pace sulla terra nel senso completo del termine, nemmeno nella Chiesa che dovrebbe essere assolutamente “santa”, ma che di fatto non lo è a livello di totalità, d’insieme umano, perché anche in essa si nascondono i “figli del maligno”. Anche l’apostolo Paolo, certo riferendosi alla zizzania, scrisse “Questi sono falsi apostoli, lavoratori fraudolenti, che si mascherano da apostoli di Cristo. Ciò non fa meraviglia, perché anche Satana si maschera da angelo di luce. Non è perciò gran cosa se anche i suoi ministri si mascherano da ministri di giustizia, ma la loro fine sarà secondo le loro opere” (2 Corinti 11.13-15). La seconda frase è invece di una consolazione assoluta: “Il grano invece riponetelo nel mio granaio”, dove “invece” e “mio” dicono tutto quel che serve.

La mietitura fu così spiegata ai discepoli; “Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli ed essi raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e gli operatori d’iniquità, e li getteranno nella fornace del fuoco. Lì– e non altrove – sarà pianto e stridor di denti. Allora– non prima – i giusti risplenderanno come il sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchie per ascoltare, ascolti.” (v.41-43).

Si compiranno allora tutte le promesse e ogni cosa sarà definita. E penso che già a Isaia fu rivelata questa verità: “I saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento; coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre”, e le stelle sono come il sole.

E per quanto riguarda infine il “mio granaio”, così diverso da quello degli altri, leggiamo ancora in Apocalisse: “Ecco, sono compiute! Io sono l’Alfa e l’Oméga, il principio e la fine. A colui che ha sete darò gratuitamente da bere alla fonte dell’acqua della vita. Chi sarà vincitore erediterà questi bene; io sarò Dio ed egli sarà mio figlio” (21.6,7). Amen.

* * * * *

 

 

07.03 – LE PARABOLE DEL REGNO: IL SEMINATORE (Matteo 13.3-23)

7.03 – Le parabole del regno 2 (Il seminatore, Matteo 13.3-23)

 

“3Egli parlò loro di molte cose con parabole. E disse: «Ecco, il seminatore uscì a seminare. 4Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la mangiarono. 5Un’altra parte cadde sul terreno sassoso, dove non c’era molta terra; germogliò subito, perché il terreno non era profondo, 6ma quando spuntò il sole, fu bruciata e, non avendo radici, seccò. 7Un’altra parte cadde sui rovi, e i rovi crebbero e la soffocarono. 8Un’altra parte cadde sul terreno buono e diede frutto: il cento, il sessanta, il trenta per uno. 9Chi ha orecchi, ascolti». 0Gli si avvicinarono allora i discepoli e gli dissero: «Perché a loro parli con parabole?». 11Egli rispose loro: «Perché a voi è dato conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato. 12Infatti a colui che ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a colui che non ha, sarà tolto anche quello che ha. 13Per questo a loro parlo con parabole: perché guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono. 14Così si compie per loro la profezia di Isaia che dice: Udrete, sì, ma non comprenderete, guarderete, sì, ma non vedrete. 15Perché il cuore di questo popolo è diventato insensibile, sono diventati duri di orecchi e hanno chiuso gli occhi, perché non vedano con gli occhi, non ascoltino con gli orecchi e non comprendano con il cuore e non si convertano e io li guarisca! 16Beati invece i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché ascoltano. 17In verità io vi dico: molti profeti e molti giusti hanno desiderato vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono! 18Voi dunque ascoltate la parabola del seminatore. 19Ogni volta che uno ascolta la parola del Regno e non la comprende, viene il Maligno e ruba ciò che è stato seminato nel suo cuore: questo è il seme seminato lungo la strada. 20Quello che è stato seminato sul terreno sassoso è colui che ascolta la Parola e l’accoglie subito con gioia, 21ma non ha in sé radici ed è incostante, sicché, appena giunge una tribolazione o una persecuzione a causa della Parola, egli subito viene meno. 22Quello seminato tra i rovi è colui che ascolta la Parola, ma la preoccupazione del mondo e la seduzione della ricchezza soffocano la Parola ed essa non dà frutto. 23Quello seminato sul terreno buono è colui che ascolta la Parola e la comprende; questi dà frutto e produce il cento, il sessanta, il trenta per uno».”

 

            Leggendo questa parabola tendiamo a focalizzare la nostra attenzione, come è giusto che sia e come era nelle intenzioni di Gesù, sui quattro terreni che ricevono il seme della parola oltre che sulla spiegazione che dà di loro. La figura del seminatore la diamo per scontata e non facciamo caso all’articolo che ci mette in guardia fin da subito perché, se leggere “Un seminatore uscì a seminare”ci lascerebbe pensare all’inizio di un racconto o a una favola, “Il seminatore” ci pone nelle condizioni di chiederci chi sia questa persona, essendo un articolo determinativo. “Un seminatore” potrebbe essere tanto un incaricato della semina, quindi un lavorante, quanto il proprietario del terreno, ma “Il seminatore” è impossibile da confondere, è un individuo che “esce” dalla propria casa per compiere un’azione destinata a rendergli un guadagno nel futuro, un raccolto. Il seminatore è un professionista, non si mette a lavorare se non è il mese adatto per farlo, ha deciso in anticipo il giorno e l’ora per la semina per un raccolto che, a livello di collettività, avverrà in un tempo conosciuto solo dal Padre. Ricordiamoci che anche per la venuta del Figlio di Dio nel mondo e per tutto il Suo ministero c’è sempre stato un giorno e un’ora e tutto quanto da Lui compiuto, sempre, ha avuto un motivo visto nel raccolto finale. Il verbo “uscire”, poi, ci parla anche della profezia su Betlehem di Efrata, “così piccola per essere tra i capoluoghi di Giuda, da te mi uscirà colui che deve essere il dominatore in Israele; le sue origini sono dall’antichità, dai giorni remoti” (Michea 5.1). Gesù stesso, nella notte in cui fu tradito, disse “Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo; ora lascio di nuovo il mondo e vado al Padre” (Giovanni 16.28).

Vediamo il primo terreno su cui cade il seme, la strada: quelle di allora erano in terra battuta, dura, arsa dal sole, se un seme vi cadeva sopra rimbalzava e stava lì, senza alcuna possibilità di sviluppo. Quella terra serviva ad altro, nessuno la lavorava perché altrimenti persone, animali o carri non avrebbero potuto passarvi sopra. A volte le strade non si costruivano neppure, ma erano il risultato del continuo passare di gente e carri che avevano così indurito la terra. Così è per l’uomo, che di fronte alle ingiustizie della vita, al dolore e all’incomprensione altrui si fa l’idea che la gente che popola il mondo sia divisa in due categorie, chi subisce e chi fa subire e sceglie di essere dalla parte di chi s’impone con metodi spesso non leciti, o risponde come meglio può, difendendosi ad oltranza e finendo per essere vittima di se stesso anziché degli altri. Abituato a reagire sempre e comunque per difendere il proprio territorio fisico o morale, non vede altro al di fuori delle proprie esigenze, della realtà che si è costruito a fatica.

Esempi in proposito nella Scrittura ne troviamo tanti, come i sommi sacerdoti Anna e Caiafa (o Caifa) e coloro che combatterono Gesù: pensiamo a quelli che, dopo aver ascoltato il discorso dell’apostolo Paolo nell’Areopago di Atene, “appena sentirono parlare della resurrezione dei morti, cominciarono a deridere Paolo. Altri invece gli dissero «Su questo punto ti sentiremo un’altra volta»” (Atti 17.32). Ricordando poi sempre la sua testimonianza a Festo, Agrippa e Felice, leggiamo “Mentre parlava così per difendersi– portando il Vangelo e non giustificandosi – il governatore Festo disse ad alta voce «Tu sei pazzo, Paolo! Hai studiato troppo e sei diventato matto!(…) Agrippa allora rispose a Polo: «Ancora un po’ e tu mi convincerai a farmi cristiano». Ma Paolo rispose «Io non sono pazzo, eccellentissimo Festo, sto dicendo cose vere e ragionevoli.” Quando poi l’apostolo cominciò a parlare del giusto modo di vivere, del dominare gli istinti e del giudizio futuro di Dio, Felice si spaventò e disse «Basta, per ora puoi andare. Ti farò chiamare quando avrò tempo». Intanto sperava di poter ricevere da Paolo un po’ di soldi, per questo lo faceva chiamare abbastanza spesso e parlava con lui” (Atti 24.25).

Un’altra volta” e “Quando avrò tempo”, frasi che denotano quanto sia distante, da chi appartiene al terreno indurito della strada, la comprensione del fatto che la vita non ci appartiene perché può finire da un momento all’altro senza che possiamo far nulla per impedirlo, la mancata acquisizione del principio del pericolo e del giudizio: se nessuno in balia dell’acqua profonda e agitata rifiuta un salvagente, l’idea, il concetto del Dio che vuole salvare dalla perdizione eterna è disprezzato, sottovalutato, ritenuto procrastinabile.

Il secondo terreno è quello che ha pietre e poca terra: qui, a differenza del primo, il seme germoglia, ma non essendo la terra sufficientemente profonda, la piantina viene bruciata dal sole, che altrimenti le avrebbe dato vita. Possiamo vedere in questo ambito anche la figura di Giuda Iscariotha, che percorse al pari degli altri le strade della Galilea e della Giudea patendo la sete e il caldo, vivendo di poco (ma rubando dalla cassa comune) e che alla fine tradì il suo Maestro coscientemente per trenta sicli d’argento, il prezzo di uno schiavo. Pensiamo anche al “giovane ricco” di cui parla Matteo 19.16-22: “Un tale si avvicinò a Gesù e gli disse: «Maestro, che devo fare di buono per avere la vita eterna?». Gesù gli rispose: «Perché m’interroghi intorno a ciò che è buono? Uno solo è il buono. Ma se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti». «Quali?» gli chiese. E Gesù rispose: «Questi: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso.Onora tuo padre e tua madre, e ama il tuo prossimo come te stesso». E il giovane a lui: «Tutte queste cose le ho osservate; che mi manca ancora?» Gesù gli disse: «Se vuoi essere perfetto, va’, vendi ciò che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro nei cieli; poi, vieni e seguimi». Ma il giovane, udita questa parola, se ne andò rattristato, perché aveva molti beni”.

Altro esempio lo troviamo in Dema, compagno d’opera di Paolo che, a un certo punto, preferì tornare ad occuparsi di filosofia anziché proseguire l’evangelizzazione con lui. I termini con cui l’apostolo si esprime, cioè “Dema mi ha lasciato, avendo amato il mondo presente, e se ne è andato a Tessalonica” (2 Timoteo 4.10,11), ci lasciano pensare che il suo abbandono non sia stato dovuto al fatto che la vita apostolica fosse divenuta pesante e volesse riposarsi, ma una scelta: amò “il mondo presente” e non quello futuro. Ancora, l’opera del sole ci richiama Osea 6.4: “Il vostro amore è come una nube del mattino, come la rugiada che all’alba svanisce”.

Il terzo terreno cade in mezzo alle spine, cioè ai rovi. O meglio, alle piantine di rovo che crescono più velocemente di lui. All’inizio la loro ombra, l’umidità che si cela tra essi crea un ambiente favorevole al germogliare della piantina, la fa crescere, ma poi finisce per soffocarla. Un fratello identificava qui il popolo di Israele al quale Gesù parlava che, in un’altra parabola, quella degli invitati al “gran convito”, è descritto in modo più preciso: «Ma uno dopo l’altro gli invitati cominciarono a scusarsi. Uno disse: Ho comprato un terreno e devo assolutamente venderlo; ti prego di scusarmi-appellandosi alla norma della Legge -. Un altro disse: Ho comprato cinque paia di buoi e sto andando a provarli. Ti prego di scusarmi-anche questo si appella alla tradizione-. Un terzo invitato gli disse: Mi sono sposato da poco e perciò non posso venire-ricordiamo che la Legge esentava per un anno da un impegno attivo, come ad esempio la guerra, colui che aveva preso moglie-» (Lc 14.18). La variante vista in Mt 22.3 aggiunge «Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati, ma quelli non vollero venire».

Precisando meglio il concetto: gli invitati non erano degli sconosciuti, ma persone che avevano un rapporto con il re che aveva organizzato un banchetto per le nozze del proprio figlio. Tutta la tradizione religiosa millenaria, gli studi dei rabbini, i riti e i sacrifici altro non avevano prodotto se non un rifiuto all’invito di quel “Re” che onoravano a parole, ma non con i fatti.

Certo, questo terreno comprende anche un raggio più vasto, quello di chi viene soffocato da ciò che lo circonda e al quale o attribuisce un valore, o non risponde con fede, che poi è la certezza assoluta dell’aiuto e del soccorso da parte di Dio, della protezione nella vita a prescindere. Questo terreno è quello che mi ha impegnato di più perché mi sono chiesto che colpa abbia, figurativamente parlando, quella piantina se il seme non è caduto nella buona terra. Ebbene, se il rovo è la figura delle “preoccupazioni del mondo”, della “seduzione della ricchezza”, sicuramente questa tenta e crea difficoltà anche a quei credenti che rientrano nel terreno buono, perché altrimenti crescerebbero senza fatica e non avrebbero alcun premio; la differenza è che gli uni se ne lasciano dominare, gli altri non consentono che queste interferiscano nella loro vita spirituale, pur soffrendo perché nel mondo sono comunque. Ecco perché è fondamentale avere ogni giorno cura del nostro uomo interiore, “che si rinnova continuamente ad immagine di chi lo ha creato”. Ricordiamo il dettaglio “Non ha radice in sé ed è incostante”.

C’è poi il quarto terreno, quello definito “buono”, di cui il seminatore si è preso cura prima di operare. Anche questo passaggio non è semplice da spiegare se ci si pongono delle domande “scomode”, perché anche qui la pianta che cresce, apparentemente, lo fa senza sforzo. Chi rientra in questo terreno sono quelli come Natanaele, Lidia, il carceriere di Filippi, Onesiforo, Timoteo, Gaio e tutti quelli che, un tempo peccatori, accettarono di diventare parte attiva nel progetto di Dio per loro prima, e per gli altri uomini poi. Di Natanaele – Bartolomeo abbiamo già trattato, ma ricordiamo Atti 16.14,15: “Ad ascoltare c’era anche una donna di nome Lidia, commerciante di porpora, della città di Tiàtira, una credente in Dio, e il Signore le aprì il cuore per aderire alle parole di Paolo”. E fu battezzata assieme alla sua famiglia.

Al versi da 31 a 34 abbiamo il carceriere: “…poi li condusse fuori e disse «Signori, che cosa devo fare per essere salvato?» Risposero: «Credi nel Signore Gesù e sarai salvato tu e la tua famiglia». E proclamarono la parola del Signore a lui e a tutti quelli della sua casa. Egli li prese con sé a quell’ora della notte, ne lavò le piaghe e subito fu battezzato lui con tutti i suoi; poi li fece salire in casa, apparecchiò la tavola e fu pieno di gioia insieme a tutti i suoi per avere creduto in Dio”. Si potrebbe obiettare che anche costoro avrebbero potuto rientrare nella categoria del terzo terreno, perché non sappiamo come continuò la loro vita, ma il fatto stesso che siano citati come esempio è eloquente e di certo la loro esperienza sarà stata duratura, “fino alla fine”.

C’è però un’applicazione collaterale di questa parabola e cioè che le quattro categorie dei terreni, pur nella loro classificazione ufficiale, non sono rigidamente stagni nel senso che, nella vita umana anche di coloro che crescono nel quarto, possono capitare momenti di cedimento in cui può succedere che si venga temporaneamente sopraffatti dall’arsura, dalle sollecitudini, dalle preoccupazioni della vita materiale, ma non si verifica mai la scelta definitiva di lasciarsi coinvolgere da esse fino in fondo e ribellarsi abbandonando il Signore. La crescita può rallentarsi, si può soffrire e ci si può anche ammalare, ma non capitolare perché sempre e comunque siamo figli del Dio che ha salvato. Per questo motivo credo che Gesù abbia esposto una parabola che cita solo Marco: “Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; e quando il frutto è matura, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura” (4.26,29). Ed è doveroso, a conclusione di queste brevi riflessioni, sottolineare che Luca, in 8.15, ci dà un particolare che denota fatica: “Quello sul terreno buono sono coloro che, dopo aver ascoltato la Parola con cuore integro e buono, la custodiscono e producono frutto con perseveranza” (ma c’è chi traduce “con sofferenza”). Ci sarà quindi chi verrà chiamato a rispondere del mancato invito al Vangelo, e chi concluderà una vita di testimonianza, ottenendone il premio.

* * * * *