06.11 – VI DARÒ RISTORO (Matteo 11.28)

6.11 – Io (Matteo 11.28)

 

28Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro.

 

            Sono convinto che dare per scontato che le cose avvengano o siano come ce le aspettiamo sia un errore che commettiamo frequentemente senza rendercene conto e che lo stesso avvenga spesso nella lettura del testo biblico: la mente istintivamente si focalizza sui soggetti, sugli elementi che risaltano a livello immediato. Nel verso 28 di Matteo, ad esempio, tendiamo a sottolineare “venite a me”, “stanchi e oppressi” e “vi darò ristoro” (o “riposo”, o “vi alleggerirò” come altri traducono); ma quell’ “Io”, però, si tende a considerarlo come un  qualcosa in più, di non rilevante a fronte della promessa di pace, quiete, serenità e non si pensa che è proprio quel pronome a fare la differenza, a dare un tono rafforzativo al tutto. Un medico che dice a un paziente “ti guarirò” indubbiamente gli fa una promessa che genera in lui sollievo, ma anteponendo “Io” si distingue dai propri colleghi, è conscio di aver compreso chiaramente il problema di quella persona, prende un impegno che coinvolge la sua onorabilità, quasi a dire “Io e nessun altro”. La stessa cosa, credo con garanzie infinitamente superiori perché l’essere umano può sempre sbagliarsi, la fa Nostro Signore con questa frase. “Io” e nessun altro.

Lo stesso concetto appare nel primo comandamento: “Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile: non avrai altri dèi di fronte a me” (Esodo 20.2,3), identico in Deuteronomio 5.6,7. Ai tempi in cui furono scritte queste parole, quel “ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile” alludeva solo apparentemente al fatto che il popolo di Israele era stato posto nella condizione di abbandonare quel Paese, ma soprattutto faceva riferimento a tutte le iniziative prese da Dio per liberarli: ricordiamo, stando nel generale, le dieci piaghe, le acque del Mar Rosso che si aprirono per far passare il popolo e si richiusero annientando l’esercito del Faraone, la manna, le quaglie, l’acqua scaturita dalla roccia e la vittoria su Amalek. L’uscita dall’Egitto non fu da un Paese particolarmente malvagio (pensiamo a Giuseppe e al fatto che salvò quel popolo dalla carestia dopo i sette anni di abbondanza), ma da una condizione servile, cioè una realtà in cui la libertà era assente. La schiavitù in cui Israele versava, che possiamo sicuramente definire come “giogo”, non poteva essere che pesante per quanto, quando si trovava in difficoltà nel deserto, la rimpiangesse perché là gli era garantito comunque un tetto e un pasto. L’elezione che aveva ricevuto in dono avrebbe però comportato il possesso della terra promessa e il privilegio di diventare una nazione che avrebbe dovuto fare da luce a tutti gli altri popoli della terra.

Così il libro dell’Esodo, con la cronaca dettagliata di tutti gli errori, i dubbi, i ripensamenti di Israele, è al tempo stesso anche rappresentazione della difficoltà del cammino di ogni credente, soggetto a sbagliare e, nella sua immaturità, a volte a rimpiangere egoisticamente e carnalmente il tempo in cui era schiavo dell’Avversario, più o meno inserito nel mondo illusorio da lui organizzato. La lettura del testo biblico, non importa di quale libro, ci insegna che furono in pochi coloro che seppero attenersi alle promesse di un futuro senza voltarsi indietro.

Quanto al comandamento stretto, “Non avrai altri dèi nel mio cospetto” è un imperativo cui si segue la precisazione: “al mio cospetto”, cioè, parafrasando, “Per quanti dèi tu possa eleggere al mio posto, che possano soddisfare la tua carnalità, “Io” li distruggerò, “Io” conoscerò le ragioni della tua scelta e ti giudicherò. È sempre stato così. Il dio che l’uomo si sceglie contempla una gamma quasi infinita di possibilità che vanno da un essere immaginario superiore (vedi il vitello d’oro in cui la rappresentazione terrena si univa all’unicità di quel metallo che faceva costantemente riferimento al Dio vivente e vero) a un proprio simile, falso profeta inevitabilmente, o a se stessi.

Ricordiamo in opposizione, rimanendo ai tempi dell’Antico Patto, quell’ “Io” ripetuto addirittura due volte in Isaia 51.12 “Io, io sono il vostro consolatore”. Possiamo definire questo grido l’unica prospettiva di rifugio anche nel futuro imminente quando “i cieli si dissolveranno come fumo, la terra si logorerà come un vestito e i suoi abitanti moriranno come larve. Ma la mia salvezza durerà per sempre, la mia giustizia non verrà distrutta” (v. 6). La temporaneità e fragilità del mondo che conosciamo in opposizione alla Sua giustizia, che non passerà esattamente come le parole di Cristo. Passeranno infatti “i cieli e la terra”, quindi qualunque nostro riferimento in questa vita, ma non il Vangelo, la “buona notizia” con la salvezza che porta.

In un capitolo precedente ho citato un altro “Io” che va ricordato “Io so i pensieri che medito per voi, pensieri di pace e non di sventura, per darvi un avvenire e una speranza. Voi mi invocherete e ricorrerete a me e io vi esaudirò. mi cercherete e mi troverete perché mi cercherete con tutto il cuore, mi lascerò trovare da voi” (Geremia 29.11,12). Ebbene, con le parole di Gesù abbiamo un primo adempimento di questa profezia, perché “Egli dà forza allo stanco e moltiplica il vigore allo spossato” (Isaia 40.29), ma quel “darò” di Gesù è condizionato dal “venite a me”. È un atto di fede che scaturisce dalla consapevolezza di non trovare riposo altrove, è la rivelazione del patto antico, imperfetto perché ombra del Nuovo. Credo che ogni credente quel “riposo” lo abbia prima cercato invano da altre parti, da altri dèi, in associazioni, magari in una fede politica, in altre persone, salvo poi scoprire che gli altri dèi non esistono, le associazioni più o meno caritatevoli si basano sull’interesse, una falsa giustizia e un finto vivere e che le persone che ascoltano le persone spesso fingono, o per lo meno recepiscono ciò che vogliono. Quando l’apostolo Paolo scriveva “Quando ero bambino, pensavo da bambino” si riferiva anche al fatto che è quando l’essere umano è inesperto e non conosce la vita si illude di trovare sempre chi lo ascolta e lo capisce; divenuto adulto, però, acquisisce la consapevolezza che, se non è in grado di gestire l’incomprensione, l’abbandono e le altre avversità dentro di sé, in realtà non trova nessuno disposto ad aiutarlo, a meno che non acquisisca una consapevolezza diversa, quell’essere in grado di dire “Abba, Padre” che lo Spirito Santo lo autorizza a pronunciare.

C’è quindi un “Io” che gli dà riposo, e un “Io” che lo allontana, il nostro, quello che appartiene alla carne e sul quale ha indagato a tutto campo la psicanalisi, riuscendovi solo in parte: è l’io che vuole emergere sempre, che organizza, rimuove, sublima, scinde, proietta, azioni dettate dalla necessità di sopravvivere e che in poche parole sono tappe obbligate se si vuole continuare ad esistere su quel “suolo maledetto per causa tua” (Genesi 3.17). Il secondo “Io” sarà sempre in antitesi col primo per cui ascoltandolo, il vero “riposo” sarà solo apparente, transitorio, soggetto a incrinarsi da un momento all’altro.

Avendo citato i due profeti sotto alcuni aspetti “maggiori” dell’antichità, credo sia utile rileggere Geremia 6.16, che abbiamo citato nello scorso capitolo, riportandone il seguito: “Fermatevi nelle strade e guardate, informatevi dei sentieri del passato, dove sta la strada buona percorretela, così troverete riposo per la vostra vita. Ma essi hanno risposto: Non la percorreremo. Ho posto sentinelle per vegliare su di voi: Fate attenzione al suono della tromba. Hanno risposto: Non ci baderemo”. Ecco: informarsi sui sentieri del passato significa ripensare profondamente ai messaggi contenuti nella legge e fare memoria storica su cosa voglia dire avere la benedizione o meno di Dio. Il riposo per la vita lo si ottiene sminuendo il secondo “Io”, perché la “strada buona” da percorrere la si trova proprio dopo un serio inventario spirituale. Nei versi di Geremia ci sono due risposte negative: il primo, “Non la percorreremo” è il rifiuto a seguire la buona strada, ma il secondo, “Non ci baderemo” è il rifiuto all’ascolto del suono della “tromba”, strumento che nella Scrittura allude sempre a una chiamata generale, un appello di Dio al quale è impossibile sottrarsi. E nel nostro caso è riferita a Gesù Cristo che chiama oggi perché nessuno sia escluso in futuro dal suo Regno.

Abbiamo ricordato il “Venite a me”: Gesù, per i riferimenti all’Antico Patto che abbiamo citato, se ci pensiamo non dà ai suoi uditori un invito nuovo, per lo meno non apparentemente, perché sempre da Isaia abbiamo “Volgetevi a me e sarete salvi, voi tutti confini della terra, perché io sono Dio, non ce n’è altri” (45.22); la differenza piuttosto risiede nel fatto che ora a parlare non è YHWH attraverso un profeta, ma Dio stesso nella sua posizione di Figlio dell’uomo, del Dio uomo che parla ad altri uomini, del Dio che conosce la sofferenza e che sa cosa vuol dire vivere in un corpo di carne. Gesù è Colui che ha rivelato pienamente la gratuità dell’amore del Padre già anticipato con altre parole e con altri inviti: “O voi tutti che siete assetati– quindi la stessa selezione che troviamo nel verso di Matteo – venite all’acqua; voi che non avete denaro– perché davanti a Dio non serve – venite, comprate e mangiate; venite, comprate senza denaro, senza pagare, vino e latte. Perché spendete denaro per ciò che non è pane, il vostro guadagno per ciò che non sazia? Su, ascoltatemi e mangerete cose buone e gusterete cibi succulenti. Porgete l’orecchio e venite a me, ascoltate e vivrete” (55.1-3).

E anche qui troviamo in Cristo l’aggiornamento, perché l’assetato, il povero in spirito, l’afflitto, chi prende coscienza della sua condizione, può trovare in Lui un rimedio totale, e qui è Lui a parlare: “Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva chi crede in me. Come dice la Scrittura, dal suo grembo sgorgheranno fiumi d’acqua viva” (Giovanni 7.37). Quindi non solo prenderà l’acqua della vita, quella di cui parlò alla donna samaritana, ma sarà in grado di portare altri a quell’acqua.

Il riposo di cui parla Nostro Signore è quindi, per la vita che viviamo anche sulla terra, una condizione nuova, diversa, dove chi costruisce lo fa sul serio, accumulando beni non materiali, è quello che solo il “Re Giusto” può dare ora e per il futuro di eternità con Lui: “Ecco, un re regnerà secondo giustizia e i prìncipi governeranno secondo diritto. Ognuno sarà come un riparo contro il vento e un rifugio contro l’acquazzone, come canali d’acqua in una steppa, come l’ombra di una grande roccia su terra arida. Non saranno più accecati gli occhi di chi vede– perché lo Spirito Santo li metterà nella condizione di vedere realmente – e gli orecchi di chi sente saranno attenti– alle parole del Re –. L’abietto non sarà più chiamato nobile né l’imbroglione sarà detto gentiluomo, poiché l’abietto fa discorsi abietti e il suo cuore trama l’iniquità per commettere empietà e proferire errori intorno al Signore, per lasciare vuoto lo stomaco dell’affamato e far mancare la bevanda all’assetato” (Isaia 32.1-6).

Riflettendo brevemente su questi ultimi versi, vediamo la figura dei prìncipi, in cui possiamo vedere quelli che il Signore ha posto come membri autorevoli della Sua Chiesa, che la gestiscono secondo i Suoi princìpi e metodi, naturalmente spirituali. Questo ci parla di responsabilità e di quanto sia frequente, purtroppo, incontrarne di falsi perché i “falsi profeti sedurranno molti”. Poi si passa a tutti quelli che ascolteranno: non saranno disorientati, ciascuno intento nelle proprie faccende, isolati nel proprio cammino, ma dei ripari contro il vento, quello che porta la polvere rendendo difficile il respiro e il vedere, o l’acquazzone (non la pioggia per la quale basta un semplice ombrello). La figura del canale d’acqua nella steppa, poi, indica l’essere portatori di vita dove crescere è difficile e, allo stesso modo, l’ombra della grande roccia su terra arida ci parla di sollievo, ristoro, riposo. Segue poi il contrasto tra l’onore umano di cui godono gli abietti e gli imbroglioni, sostenuti da una stima che non meritano da parte di chi, piuttosto che vederli per quello che sono, crede alle loro parole senza osservare i frutti che portano. Queste due categorie di persone non si limitano a fare del male ai deboli e ai sofferenti, ma si travestono di religiosità, senza sfamare e dissetare chi ha bisogno, perfetta descrizione di quanti appartengono al mondo politico, industriale e mediatico oggi.

Ebbene anche da tutte queste persone, dal mondo terreno che non concede altre possibilità se non quelle di essere uno che umilia e prevarica o un umiliato o prevaricato, Nostro Signore promette non una tregua, ma una drastica, radicale interruzione vista in quello “strappare” dal “presente malvagio secolo”così sempre uguale nelle sue manifestazioni perché è Dio ad essere creativo, non certo l’Avversario. Essere figli di Dio comporta il riposo nelle sue promesse e la conseguente uscita dal circuito malato per la sopravvivenza a tutti i costi della carne. Amen.

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