07.02 – LE PARABOLE DEL REGNO, INTRODUZIONE

7.02 – Le parabole del regno (Introduzione)

 

            Tutti i sinottici, scrivendo del periodo trascorso da Gesù e i suoi lontano da Capernaum “per città e villaggi predicando e annunciando la buona notizia del regno di Dio”, pongono un accento particolare, nella prima parte della loro cronaca, su quello che Lui disse, sui suoi insegnamenti, esattamente come avvenuto sul sermone sul monte che abbiamo analizzato in Matteo 5. Il viaggio missionario di Nostro Signore, sotto l’aspetto della predicazione, partì proprio dalla città in cui viveva in un contesto preciso riferito da Matteo: “Ora in quello stesso giorno Gesù, uscito di casa, si pose a sedere presso il mare. E grandi folle si radunarono intorno a lui, così che egli, salito su una barca, si pose a sedere, e tutta la folla stava in piedi sulla riva” (Matteo 13.1,2).

La nota “In quello stesso giorno” per Matteo è riferito a discorsi che per ragioni narrative e dottrinali raggruppa in un unico contesto, ma che suppongo fosse lo stesso in cui avvenne il pranzo a casa di Simone il fariseo. Prima di esaminare il gruppo cosiddetto delle “parabole del regno”, dobbiamo vedere cosa effettivamente fosse la parabola e perché Gesù l’utilizzò così frequentemente.

Contrariamente a quanto si possa supporre, il metodo della parabole non fu usato solo da Lui, ma era un genere letterario utilizzato per illustrare, con esempi immaginari ma assolutamente veritieri o possibili, una verità morale e religiosa. La parabola può essere confusa con la favola anche se essa ha per protagonisti animali in situazioni inverosimili e ha per lo più lo scopo di intrattenere le persone. Nel mondo antico entrambi i generi abbondavano, ma soprattutto nel giudaismo esisteva il màshàl, il genere parabolico, che troviamo a volte anche nel Talmud e nella Midrash (insegnamento); anche ai tempi di Gesù i Rabbini ne facevano uso per spiegare le Scritture al popolo che le apprezzava e le ricordava con facilità abbinandole al loro corretto significato spiegato dai maestri.

Attraverso le parabole, soprattutto quelle relative al “Regno”, Nostro Signore cercava di proporre delle verità che andavano a cozzare contro l’idea che il popolo aveva di un regno instaurato sulla terra, che come sappiamo si sarebbe dovuto caratterizzare tramite un Messia potente che, alla guida di un esercito invincibile, avrebbe sottomesso tutte le nazioni e le avrebbe governate assieme al suo popolo. Ecco allora che Gesù non dovette solo rifiutarsi di venire proclamato re quando il popolo voleva farlo, ma soprattutto far capire che il regno che avrebbe instaurato un giorno sarebbe stato profondamente diverso da quello che si aspettavano: fu quindi necessario spiegare le verità di quello non dichiarandole apertamente, dando così l’opportunità ai suoi avversari di attaccarlo più di quanto già non facessero, ma velandole, dicendo le stesse cose in maniera diversa. Se ci pensiamo, riguardo alle verità fruibili a pochi, è quello che non solo Gesù, ma tutta la Scrittura fa continuamente presentando simboli, situazioni, verità e descrizioni che possono essere lette solo per la grazia e l’intercessione dello Spirito Santo, deputato alla rivelazione e mettendo da sempre ogni metodo di lettura a lui estraneo nell’errore.

Il discorso che Nostro Signore tenne sulle rive del lago di Galilea, e in privato coi discepoli, è un aggiornamento del sermone sul monte in cui aveva trattato la Legge perché qui, fondamentalmente, parte dai diversi effetti che ha la Parola sulle persone che l’ascoltano (il seminatore) per arrivare alla fine, quando la zizzania verrà legata in fasce per essere bruciata e il grano “riposto nel granaio” o, nella parabola dei pesci, quando “verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà il pianto e lo stridore dei denti”.

In questo nostro studio ci rifaremo alle parabole così come esposte da Matteo che, a differenza di Marco e Luca, le organizza in modo completo: Luca riporta solo quella del seminatore e Marco vi aggiunge quella del granello di senape, specificando “Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro, ma ai discepoli, in privato, spiegava ogni cosa” (Marco 4.33,34).

Questo contesto può generare un falso interrogativo, a parte quanto già detto sulla necessità di un insegnamento prudente da parte di Gesù: la spiegazione del suo insegnamento “simbolico” non era qualcosa di riservato a degli eletti particolari, ma a quanti erano desiderosi di capire. Infatti proprio al termine dell’esposizione della prima parabola, quella del seminatore per noi neppure tanto complicata, leggiamo che “Allora i discepoli gli domandarono che cosa significasse quella parabola” (Luca 8.9): furono i discepoli a chiederlo e non gli altri, che ascoltavano senza capire e nulla dicevano evidentemente perché mancava loro la volontà di approfondire, la sensibilità per recepire, la possibilità di scegliere tra la vita e la morte come aveva fatto da poco l’innominata peccatrice, che arrivò a comprendere di aver bisogno del perdono di Gesù dopo aver assemblato le Sue parole e raggiunta la consapevolezza che avrebbe potuto guarirla dalla condizione di peccato in cui versava.

Al contrario i presenti, certo non tutti perché alla luce dell’esempio della donna che unse i piedi di Gesù i frutti della Parola raramente sono immediati, avevano un interesse che non andava oltre la curiosità e volevano restare ancorati alle loro convinzioni: infatti leggiamo “A voi è dato di conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato.(…) Perché il cuore di questo popolo è divenuto insensibile, essi sono diventati duri d’orecchi e hanno chiuso gli occhi, perché non vedano con gli occhi e non ascoltino con le orecchie, e non intendano col cuore e non si convertano, e io li guarisca” (Matteo 13.11-15).

Si noti che la distinzione “A voi è dato, ma a loro no”, non si riferisce a una scelta arbitraria di Nostro Signore, che in base alle proprie simpatie favorisce alcuni a danno di altri, ma alla condizione spirituale in cui versavano i due gruppi: i discepoli, gli apostoli, chi Lo seguiva e ascoltava dava quotidianamente prova di mettere la propria persona in second’ordine, aveva lasciato ciò che lo legava alla sua quotidianità, rinunciato a ciò che possedeva per seguirlo volendo vivere la vita del Vangelo per capire con le proprie povere forze visto che lo Spirito di Verità non era ancora sceso su di loro. Le altre persone presenti costituivano un grande insieme di estranei al cui interno forse si mescolava qualcuno che sarebbe stato colpito dalle parole di grazia e verità di Gesù e lo avrebbe avvicinato, come effettivamente avvenne. “A loro non è dato” perché non erano “delle sue pecore”.

C’è da precisare che le parole di Nostro Signore sul popolo “diventato insensibile” non sono sue, ma costituiscono un collegamento col profeta Isaia che, in 8.18 e 19.26, scrive le stesse cose. È giusto sottolineare il termine utilizzato, “è diventato insensibile” e “sono diventati duri d’orecchi”, evidentemente riferito a una condizione raggiunta dopo una serie di azioni volontarie, poiché si diventa qualcosa solo con l’esercizio e la pratica, conscia o inconscia. Il fatto che uno divenga insensibile o duro d’orecchi significa che prima non lo era, un po’ quello che avviene con quanti si ammalano dopo una serie di azioni che hanno intossicato il loro organismo. Ecco allora che l’uomo compie sempre, più o meno consapevolmente, un percorso spirituale con azioni che possono giovargli o nuocergli.

Citando poi Giuseppe Ricciotti, a proposito della parabola, scrive “…è chiara, ma anche oscura. È eloquente, ma anche reticente. Per chi la contempli con animo sereno e non preoccupato, è chiara ed eloquente; a chi la scruti con occhio torbido e animo prevenuto, non dice nulla, qualora per lui non dica il contrario di ciò che vuol dire. È dunque non tenebra, ma luce, e luce misericordiosamente adatta per occhi che si trovino in condizioni speciali, cioè puri, non malati”. Occhi che, secondo il testo di Isaia citato, sono stati chiusi deliberatamente, come nel caso dei due sommi sacerdoti che, informati della resurrezione di Lazzaro, anziché aprire gli occhi e voler indagare l’episodio per conoscere i fatti e se necessario riconoscere in Gesù il Figlio di Dio, decisero di far morire entrambi: “Ora i capi dei sacerdoti deliberarono di far morire anche Lazzaro, poiché a motivo di lui molti lasciavano i Giudei e credevano in Gesù” (Giovanni 12.10,11). Il timore di perdere onorabilità e rispetto, che la loro tradizione umana venisse infangata, prevalse sulla verità che avrebbero dovuto ammettere revisionando tutta la loro vita, mettendo in pratica quel “ravvedimento” di cui lo stesso Giovanni Battista aveva predicato, la metànoia.

Il “non udire” di cui parlò Nostro Signore ai discepoli quindi era riferito al fatto che, per la struttura mentale che si era venuta a creare nel popolo a causa del suo rifiuto continuato al messaggio evangelico, questi udivano parole che non andavano oltre al timpano, l’orecchio esteriore, esattamente ciò che avviene nel primo caso offerto dalla parabola del seminatore: “Quando qualcuno ascolta la parola del regno e non la comprende, viene il maligno e rapisce ciò che era stato seminato nel suo cuore” (13.18). Interessante la versione di Marco: “…sono quelli in cui la parola è seminata e, una volta che l’hanno ascoltata, subito viene Satana, e toglie via la parola seminata nei loro cuori” (4.15); qui vediamo che c’è una connessione col non comprendere e l’intervento dell’Avversario che viene “subito” proprio perché la persona la disprezza già a monte, a prescindere. “Subito” perché non fa nessuna fatica: non deve neppure estirpare una piantina, ma semplicemente portar via un seme. La parola non è capita né apprezzata perché il cuore carnale ha già di che soddisfarsi, basta a sé stesso, è già sazio tanto allora quanto oggi. Là dove un cuore basta a se stesso, dove un orecchio non riesce ad udire e dove gli occhi sono chiusi, si ha quindi il verificarsi di quel “…ma a loro non è dato”, che suona come una sentenza.

Ecco allora che tutto torna e, alla fine, è l’uomo stesso che si condanna da solo. Ogni volta che in noi manca una reale volontà di sottomissione allo Spirito di Dio, alla profondità della Sua Parola, subentra la nostra e ci rende incapaci di seguirlo, di essere Suoi strumenti, di vivere pienamente e nella libertà che solo il Vangelo può dare. Amen.

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07.01 – LE DONNE AL SEGUITO DI GESÙ (Luca 8.1-3)

7.01 – Le donne al seguito di Gesù (Luca 8.1-3)

1In seguito egli se ne andava per città e villaggi, predicando e annunciando la buona notizia del regno di Dio. C’erano con lui i Dodici 2e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità: Maria, chiamata Maddalena, dalla quale erano usciti sette demòni; 3Giovanna, moglie di Cuza, amministratore di Erode; Susanna e molte altre, che li servivano con i loro beni”.

            Dopo quanto avvenuto in casa di Simone, Luca ci parla della scelta di Gesù di intraprendere un viaggio missionario “per città e villaggi” della Galilea a predicare: non si accontentava quindi del fatto che venisse a lui l’umanità più varia dai paesi circonvicini, ma andò personalmente a cercare quanti non avevano avuto possibilità di intraprendere un viaggio più o meno lungo per ascoltarlo. Il nostro testo specifica che il gruppo di Gesù era composto dagli apostoli e da donne che parteciparono alla vita di quel gruppo, rientrandone quindi a pieno titolo, condividendone fatiche e testimonianza. Un dettaglio molto significativo lo rileviamo al verso 2 e cioè che si trattava di persone “guarite da spiriti cattivi e da infermità” al pari di molti altri uomini nei cui confronti Nostro Signore aveva operato: dov’erano finiti? Perché non Lo avevano seguito, al pari di quelle donne, che se interpellati avrebbero potuto testimoniare quanto la loro vita fosse stata cambiata da una Sua semplice parola? Ricordiamo quanto dettogli dal centurione di Capernaum, “Di’ soltanto una parola, e il mio servo sarà guarito” (Matteo 8.8). Queste donne, quindi, non si accontentarono di avere ricevuto una guarigione nel corpo o nella mente, ma decisero di abbandonare quello che il mondo offriva loro per il servizio apostolico nella sua parte nascosta. E tutto il gruppo che partì da Capernaum seguì la strada della rinuncia prima ancora di quella che portava alle varie “città e villaggi” della Galilea che incontreremo.

Soffermiamoci brevemente sugli anni che aveva Gesù: erano trenta quando aveva iniziato il Suo Ministero Pubblico, in ossequio al fatto che i Leviti lo iniziavano proprio a quell’età secondo Numeri 4.3 “Registrate tutti gli uomini, dai trenta ai cinquant’anni: saranno arruolati per prestare servizio alla tenda dell’incontro”; c’è infatti un nesso tra il ministero sacerdotale degli appartenenti alla tribù di Levi e quello di Nostro Signore, poiché anche quegli uomini dipendevano da Dio non solo per le pratiche religiose, ma per il loro sostentamento essendo le altre tribù quelle che, tramite l’istituzione della decima, dovevano provvedere a loro. Infatti leggiamo “I Leviti non riceveranno in possesso un territorio come le altre tribù d’Israele. In cambio io do loro in possesso le decime che gli israeliti mi offriranno” (Numeri 18.24). È quindi giusto sostenere che Gesù e i suoi discepoli abbandonarono tutto per seguirlo e compiere quelle opere che il piano di salvezza per gli uomini contemplava. Ricordiamo Lui stesso, che aveva appreso il mestiere di falegname–carpentiere dal padre, avrebbe potuto tranquillamente vivere dignitosamente nella sua originaria città di residenza, Nazareth.

Altra considerazione poi va fatta guardando quei dodici che lo seguivano: anche loro avevano un lavoro e delle relazioni sociali che lasciarono vivendo come il loro Maestro. Come scrisse una amico, “A volte l’ospitalità risolveva in parte il loro «Dacci oggi il nostro pane necessario», ma anche altre occasioni consentivano la soluzione: ricordiamo ad esempio gli episodi delle necessità più evidenti, le “Nozze di Cana”, il “Convito a casa di Simone il fariseo” ed altri ancora”. Di quel viaggio e non solo abbiamo quindi due atteggiamenti, quello di Gesù e di coloro che lo seguivano: il primo sapeva tutto quel che avrebbe fatto, chi avrebbe incontrato, guarito e cosa avrebbe detto, i secondi altro non potevano fare se non mettere in pratica anzitempo quel metodo che poi stabilirà l’apostolo Paolo in Ebrei 12.2: “Teniamo lo sguardo fisso in Gesù: è lui che ci ha aperto la strada della fede e ci condurrà fino alla fine” che riassume in un solo verso uno degli aspetti fondamentali di quella che dovrebbe essere la nostra vita dall’incontro con Lui all’eterna dimora, la fine, il fine.

Non possiamo non “Tenere fisso lo sguardo in Gesù” quanto ad esempio e parole, che ci consentono di camminare su sentieri di vita e non di morte, di percorrere una strada senza distrarci perché c’è un obiettivo da raggiungere. E infatti la strada che percorriamo oggi è la stessa di quella intrapresa da molti altri fratelli e sorelle che ci hanno preceduti nel tempo e che ora l’hanno conclusa perché è Lui che, appunto, ci conduce “fino alla fine”.

Luca, poi, ci parla di “alcune donne” e ne menziona tre, segno che quelle citate per nome non furono le uniche: che vi fosse anche la peccatrice innominata che abbiamo incontrato recentemente, perdonata per l’amore dimostrato verso Gesù, in cui vedeva colui che la poteva salvare? Non lo sappiamo, certo è che Maria di Magdala, Giovanna e Susanna non erano persone comuni né per carattere, né per posizione.

 

Maria di Magdala

Era una donna indipendente come le altre del gruppo ed era originaria dell’omonima città chiamata anticamente “El Migdel”, cioè “Torre del faro”, posta sulle rive occidentali del Lago di Galilea. È falsamente ricordata dalla tradizione per essere stata una prostituta e, per giustificare il suo mestiere, si è venuto fare una connessione tra i “sette demoni” da cui fu effettivamente liberata, coi “sette peccati capitali” che sempre la tradizione ha estratto “filosoficamente” dalla lettura delle Scritture. I “sette demoni” hanno invece connessione con una totale infermità mentale che la spingeva a compiere azioni sconnesse in quanto l’Avversario era riuscito a soggiogarla totalmente, al punto da poterla mettere in relazione all’indemoniato di Gadara presso il quale dimorava una “legione di demoni”. Di questo innominato leggiamo: “Costui aveva la sua dimora fra le tombe e nessuno riusciva a tenerlo legato, neanche con catene, perché più volte era stato legato con ceppi e catene, ma aveva spezzato le catene e spaccato i ceppi, e nessuno riusciva più a domarlo. Continuamente, notte e giorno, fra le tombe e sui monti, gridava e si percuoteva con pietre” (Marco 5.3-5). Questo è un aspetto della possessione, non certo la vendita del proprio corpo ad altri.

Credo che di questa Maria non abbiamo nessun racconto riferito alla sua vita passata perché non rileva cos’era un essere umano prima del suo incontro col Cristo, ma quello che ha fatto dopo. Certo è che, con questo accenno ai sette demoni che la possedevano, possiamo capire che Maria seguiva Gesù ed ebbe con lui un rapporto che altre non ebbero proprio perché memore dell’esistenza che conduceva prima del suo incontro con Lui e del suo vecchio stato di miseria morale e spirituale.

È poco probabile che Maria sia stata presente dalla partenza del gruppo da Capernaum soprattutto perché le sue condizioni di indemoniata difficilmente le avrebbero consentito di fare un viaggio, da sola o accompagnata, da Magdala alla città in cui Gesù abitava. Dobbiamo perciò concludere che si aggregò al gruppo quando, dopo la seconda moltiplicazione dei pani, “Dopo aver rimandato a casa la folla, Gesù sì sulla barca e andò nel territorio di Magdala” (Marco 15.39).

La vediamo, a differenza di alcuni discepoli sfiduciati dopo la morte del loro Maestro che iniziavano a dubitare che potesse effettivamente risorgere, andare a visitare il sepolcro con Maria di Cleopa (Matteo 28.1), sappiamo che non temette di essere additata al pubblico disprezzo come sua seguace quando, con Maria madre di Jose, stava ad osservare dove veniva deposto il corpo del Signore. Maria Maddalena, poi, in un passo a me molto caro, è l’unica persona a chiamare Gesù con un possessivo identico, ma diverso a livello spirituale da quello di Tommaso, “Mio Signore”: “Hanno portato via il mio Signore e non so dove lo hanno posto” (Giovanni 20.13). È a lei che Gesù, premiandola, appare per prima una volta risorto: scrive infatti Marco “Risuscitato al mattino del primo giorno dopo il sabato, apparve prima a Maria di Magdala, dalla quale aveva cacciato sette demoni” dandole così anche il privilegio di annunciare ai suoi discepoli l’avvenuta risurrezione. Credo che le si possa attribuire, fatte le proporzioni fra maschile e femminile, la stessa importanza dell’apostolo Pietro, così come Giovanna per Giacomo e Susanna per Giovanni, testimoni di eventi che gli altri discepoli e apostoli non videro.

 

Giovanna

È la conferma del fatto che Gesù non è solo “venuto per i poveri” e che il “Guai a voi, ricchi” non riguarda la quantità dei beni che uno possiede, ma l’uso che se ne fa e l’importanza che questi rivestono nella vita della persona. Giovanna era un’aristocratica, ma se quel “Cuza” fosse stato quell’ ”ufficiale del re” che aveva il figlio che stava per morire, poi guarito da Nostro Signore (Giovanni 4.46-53), spiegherebbe il motivo della sua presenza nel gruppo. Giovanna, il cui nome significa “Amata da Dio”, sarebbe, secondo questa ipotesi, la madre di quel giovane e il marito, per gratitudine, non avrebbe certo posto opposizione di fronte alla sua scelta di seguire Gesù per il tempo che avrebbe voluto. È però doveroso segnalare che non troviamo altre sua notizie nei Vangeli, per cui l’abbinarla a quella guarigione va vista solo come ipotesi. Non si può escludere neppure che frutto della testimonianza di Giovanna fosse la conversione di quel “Menaen, compagno d’infanzia di Erode il Tetrarca” (quindi Antipa) che faceva parte della Comunità di Antiochia in Atti 13.1.

L’importanza dell’opera dello Spirito su Giovanna non è certo da sottovalutare perché pensiamo cos’abbia potuto significare, per una donna abituata alle comodità e agli agi di una corte, patire il caldo, la sete e sicuramente il disprezzo della gente come discepola di Gesù. Anche lei, come Maria di Magdala, Lo seguì perché liberata, anche se non da sette demoni, e comprese che la vera ricchezza e i veri onori non sono quelli che ci tributa il mondo, ma quelli futuri.

 

Susanna

Compare qui per la prima e unica volta. Di lei parla il significato del nome, “Giglio”, fiore importante soprattutto se messo in relazione al “Cantico” di Salomone quando leggiamo “Il mio amore è venuto a godersi il suo giardino, a raccogliere gigli tra aiuole di piante profumate. Io sono del mio amore e il mio amore è mio. Egli si diletta fra i gigli” (6.2). Ora il cantico, definito superficialmente come l’unico testo biblico che celebra l’amore carnale tra uomo e donna, ma che in realtà ha innumerevoli riferimenti al rapporto d’amore tra Cristo e la Chiesa, ha nel giglio un elemento importante perché riassume la bellezza, la purezza, l’innocenza e la fragilità. Il giglio è simbolo di salvezza e dell’intervento di Dio per il Suo popolo: “Sarò come rugiada per Israele, fiorirà come un giglio e metterà radici come un albero del libano” (Osea 14.6).

Susanna, alla luce di questi riferimenti, ritengo sia stata una persona che, per quanto un essere umano lo possa essere, rifletteva le caratteristiche di questo fiore. La sua capacità di distinguersi può essere parafrasata con un’espressione del Siracide: “Come un giglio fra i rovi, così l’amica mia fra le ragazze” (2.1,2). Ricordiamo le parole di Gesù nel discorso sul monte: “Osservate come crescono i gigli del campo: non faticano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come loro” (Matteo 6.28,29).

Certo la Susanna di Luca non era quella prima del suo incontro con Gesù: attenta ascoltatrice nelle assemblee della sinagoga, aveva compreso sicuramente le letture relative all’impurità umana, in particolare di Geremia 2.22 “Anche se continui a lavarti con molto sapone, resterà sempre davanti ai miei occhi la macchia della tua colpa” ed aveva trovato nel perdono di Gesù quella purificazione dal peccato per la quale era venuto nel mondo.

Mi piace a questo punto citare le parole di un caro fratello: “Maria di Magdala, Giovanna e Susanna, sperimentarono e provarono cosa aveva significato e comportava essere del peccato introdotto nel mondo dalla disubbidienza di Eva, subendo quotidianamente tutte le conseguenze che ciò aveva comportato; ebbene come fu per Eva, ora anch’esse si trovavano nella stessa possibilità di scegliere tra l’albero della vita, Gesù Cristo, e l’albero della conoscenza del bene e del male, Satana. Saviamente, grazie anche alle opportunità che Gesù concesse loro, scelsero l’albero della vita sotto le cui fronde la morte non sarà più, come non ci sarà più pianto, cordoglio, dolore e la separazione da lui. Dio Padre e Dio figlio non solo hanno dimostrato la primordiale potenza creatrice formando l’uomo ad immagine e somiglianza divina, ma hanno donato la grazia eterna salvando l’uomo peccatore dall’inferno e dalla morte”, amen.

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06.12 – LA PECCATRICE INNOMINATA (Luca 7.36-50)

6.12 – La peccatrice innominata (Luca 7.36-50)

 

36Uno dei farisei lo invitò a mangiare da lui. Egli entrò nella casa del fariseo e si mise a tavola. 37Ed ecco, una donna, una peccatrice di quella città, saputo che si trovava nella casa del fariseo, portò un vaso di profumo; 38stando dietro, presso i piedi di lui, piangendo, cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di profumo. 39Vedendo questo,il fariseo che l’aveva invitato disse tra sé: «Se costui fosse un profeta, saprebbe chi è, e di quale genere è la donna che lo tocca: è una peccatrice!». 40Gesù allora gli disse: «Simone, ho da dirti qualcosa». Ed egli rispose: «Di’ pure, maestro». 41«Un creditore aveva due debitori: uno gli doveva cinquecento denari, l’altro cinquanta. 42Non avendo essi di che restituire, condonò il debito a tutti e due. Chi di loro dunque lo amerà di più?». 43Simone rispose: «Suppongo sia colui al quale ha condonato di più». Gli disse Gesù: «Hai giudicato bene». 44E, volgendosi verso la donna, disse a Simone: «Vedi questa donna? Sono entrato in casa tua e tu non mi hai dato l’acqua per i piedi; lei invece mi ha bagnato i piedi con le lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli. 45Tu non mi hai dato un bacio; lei invece, da quando sono entrato, non ha cessato di baciarmi i piedi. 46Tu non hai unto con olio il mio capo; lei invece mi ha cosparso i piedi di profumo.47Per questo io ti dico: sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato. Invece colui al quale si perdona poco, ama poco». 48Poi disse a lei: «I tuoi peccati sono perdonati». 49Allora i commensali cominciarono a dire tra sé: «Chi è costui che perdona anche i peccati?». 50Ma egli disse alla donna: «La tua fede ti ha salvata; va’ in pace!».”.

 

            Episodio particolarissimo, proprio di Luca, ci offre una narrazione semplice quanto a messaggio, molto più complessa se vogliamo capire le ragioni delle iniziative e i pensieri dei suoi personaggi. Gesù aveva appena finito il suo discorso riportato nei versi precedenti sulle “città impenitenti”, sulle cose “rivelate ai semplici”e il riposo che avrebbe dato alle anime di chi si sarebbe rivolto a lui ed ecco apparire tra i presenti la figura di Simone, nome che significa “Dio ha ascoltato la mia voce”, fariseo di Capernaum, città in cui si svolse l’episodio: uomo di Legge, pari di Nicodemo, incuriosito dal Suo messaggio, volle avere Gesù con sé a mangiare per farsi un’idea del personaggio più da vicino, per avere argomenti di poter parlare coi suoi pari, per metterlo alla prova. Ciò a cui Nostro Signore fu invitato, non fu certo paragonabile al convito organizzato da Levi Matteo, col quale dava l’addio alla sua professione e voleva forse rallegrarsi coi suoi conoscenti per l’inizio di una vita nuova. Quello di Simone non fu un atto di deferenza, ma un’azione volta alla ricerca di elementi positivi o negativi su Gesù a seconda di come si fosse comportato.

C’è poi la “peccatrice” che molti hanno voluto identificare con Maria di Magdala, o Maria sorella di Lazzaro, o hanno voluto collegare il termine usato da Luca col mestiere di prostituta quando, se così fosse stato, non sarebbe stata ammessa in casa del fariseo. Piuttosto il termine fa riferimento sia a una condizione di peccati non rimessi tramite il sacerdote attraverso i sacrifici della legge cerimoniale, sia a una reputazione non onorevole presso i suoi concittadini. Avrebbe potuto essere, ad esempio, la moglie di un pubblicano, ritenuto servo del potere romano e pertanto disprezzabile. Il “peccatore”, o il suo corrispettivo femminile, è colui che fa ciò che è male agli occhi del Signore e quindi attira un Suo giudizio indipendentemente dai comportamenti adottati.

Ora questa donna, della stessa città in cui Gesù aveva preso dimora con sua madre e i fratelli, per il comportamento avuto con Lui, sappiamo che senza dubbio era stata una Sua attenta ascoltatrice e sicuramente testimone a più di un miracolo perché nulla gli chiede e nulla gli dice, ma parla col linguaggio della riconoscenza senza chiedergli nulla.

A questo punto è necessario fare un breve accenno al momento del pranzo, che per noi è importante e tendiamo a viverlo in modo riservato: indipendentemente dal fatto che ci troviamo da soli o con persone care, quando mangiamo con altri tendiamo a porre delle barriere affinché la nostra tranquillità non sia turbata e se qualcuno ci chiama o suona alla porta in quel frangente ci sentiamo infastiditi. Non così era ai tempi del nostro episodio, perché proprio quando la gente pranzava era possibile entrare nelle case e parlare col proprietario o i suoi eventuali convitati. Nei pressi della tavola si potevano trovare ambulanti, mercanti, poveri che speravano in un boccone da mangiare (vedi la parabola del ricco e Lazzaro), curiosi e varia umanità che, magari passando e se c’era caldo, vedeva la tavolata all’aperto sotto un pergolato o un albero e si fermava coi commensali. Occorre poi considerare il modo di stare a tavola, diverso dal nostro: si pranzava a semicerchio o a ferro di cavallo e i partecipanti stavano sdraiati sul fianco appoggiati al braccio sinistro ripiegato a gomito, con i piedi rivolti all’esterno su delle specie letti come i triclini dei romani.

Torniamo ora alla donna e interroghiamoci, più che sul suo passato, sulle ragioni che la spinsero a comportarsi in quel modo: seppe che si Gesù si trovava a casa di Simone e andò là portando con sé le cose più importanti che aveva, se stessa e quel “vaso di profumo”, o “essenza profumata” che è stato identificato nel Balsamodendron Myrhae o nel nardo, entrambi molto preziosi. Giunta là, individua subito Nostro Signore, segno che doveva averlo visto in altre occasioni. Le modalità con cui si espresse ci consentono di stabilire che avesse fatto, col tempo, un percorso tutto suo di elaborazione sulle parole di Gesù e sugli episodi, non sappiamo quanti né quali, di cui era stata testimone.

Istintivamente viene da pensare che il suo comportamento fosse teso a solo chiedere perdono, ma dalle parole di Gesù “Sono perdonati i suoi peccati, perché ha molto amato”, in collegamento alla parabola dei due debitori, vedremo che non fu così. È e fu un momento delicato: guardando l’episodio per raccogliere gli elementi che ci suggerisce, vediamo che quella donna fa quattro cose, tutte frutto di uno stato d’animo e di un lungo ragionamento a monte: piange, bagna con le lacrime i piedi di Nostro Signore, li asciuga coi suoi capelli, e li cosparge di quel profumo che avrebbe potuto benissimo impiegare in altri modi, per lei più umanamente proficui, come ad esempio vederlo e spendere i soldi per soddisfarsi, cosa che venne in mente ad alcuni, fra cui Giuda, in un analogo episodio avvenuto in casa di un altro Simone, lebbroso: “«Perché questo spreco di profumo? Si poteva venderlo per più di trecento denari e darli ai poveri!» ed erano infuriati contro di lei” (Maro 14.3-9).

Il pianto di un adulto è diverso da quello di un bambino, che accompagna alle lacrime grida per farsi ascoltare fondamentalmente quando viene offeso, si spaventa o si fa male: un adulto piange dalla commozione, perché gli viene a mancare improvvisamente un riferimento, un orientamento e capisce che non ha possibilità di recuperare ciò che ha perso, oppure perché la tensione che ha a lungo accumulato cessa di colpo, quindi viene liberato improvvisamente da qualcosa. Teniamo presente quest’ultimo caso perché va collegato agli altri tre dei comportamenti e più si progredisce nel ragionamento più si acquisiscono certezze: a parte il fatto che era disonorevole per una donna di quel tempo mostrarsi coi capelli sciolti, che asciugare i piedi di una persona in quel modo era cosa da schiavi, è la scelta di quelle membra come luogo di pianto e profumo a dirci quanto lei avesse capito chi in realtà Gesù fosse.

La donna si pone dietro di Lui ponendosi dalla parte dei piedi, che nella Scrittura alludono sempre a un cammino riferito al percorso spirituale passato, presente e futuro indipendente che vadano al bene o al male. Ecco, tra l’altro, la ragione per la quale Nostro Signore lavò personalmente i piedi agli apostoli: quando Pietro chiese “Signore, tu lavi i piedi a me?”, la risposta fu “Quello che io faccio non lo capisci, lo capirai dopo.(…) Se non ti laverò, non avrai parte con me” (Giovanni 13.6-8).

Possiamo a questo punto capire che, rivolgendo le sue attenzioni ai piedi di Gesù, quella donna considerasse tutto quanto Lui aveva fatto fino ad allora, e da allora avrebbe fatto, per lei e per tutti quelli che Lo avrebbero riconosciuto come Figlio di Dio e figlio dell’uomo; guardò i piedi di Gesù da vicino e pensò a tutte le vie che aveva percorso e avrebbe intrapreso per salvare, predicare, guarire. Conscia della sua condizione, voleva che, tra le tante preghiere che i suoi contemporanei gli avevano rivolto, ci fosse posto anche per lei. Il pianto fu l’unico modo di comunicare con Lui. Non quello finto dei lamentatori di professione che venivano ingaggiati ai funerali, ma qualcosa che divenne preghiera da sé. Cosa avrebbe potuto chiedere o dire a Gesù? Sapeva di avere bisogno di perdono, di rinnovamento, di qualcosa che cambiasse la sua vita che continuava impossibile sotto il peso dei peccati, e si rivolge al solo in grado di salvarla. Nel suo parlare senza dire, c’era una richiesta alla quale si accompagnava un ringraziamento comunque. Non era poco. La frase “Signore, se tu vuoi puoi guarirmi” detta da un malato nel corpo è qualcosa di immediato perché tutti vedono quella malattia, ma quando un peccatore chiede a Gesù di essere perdonato, quindi di guarire ma in un altro modo, ci troviamo già di fronte a un miracolo. “Se tu vuoi, puoi” fu il senso di quelle lacrime, di quel profumo, di quei capelli. Al pianto si accompagnava un senso di profonda gratitudine. Anche oggi nella vita della persona ci possono essere preghiere che non vengono formulate mediante concetti ordinati e distinti, ma con suoni interiori e/o lacrime: lo stesso avvenne con la peccatrice innominata incapace di articolare un discorso perché troppe e tutte assieme sarebbero state le cose da dire. Tanti infatti sono i contenuti della sua preghiera, che è al tempo stesso una lode per il Suo esistere, e un perdono desiderato, ritenuto per certo perché fondato sulle Sue promesse, ma bisognoso di un cenno, di quel “di’ soltanto una parola” che avrebbe reso ufficiale l’alleggerimento da quella condizione di peccato importabile.

Se Nostro Signore capì immediatamente il linguaggio e lo spirito di quella persona, non così Simone, che giudica inopportuno tutto quanto stava avvenendo: quanto faceva quella donna non meritava la minima attenzione perché era una peccatrice che lo contaminava e Gesù non era il profeta che diceva di essere perché, non mandandola via, dimostrava di non sapere chi fosse. Conoscendo i pensieri del fariseo, Gesù inizia a parlargli ma la frase di apertura, “Simone, ho qualcosa da dirti”, è ben diversa dalle invettive con le quali si rivolge solitamente alla sua categoria segno che modo di ragionare di Simone, per quanto frutto della corrente cui apparteneva, era il risultato di una mente strutturata e condizionata dal sistema cui apparteneva e per questo, anziché un rimprovero, cerca un recupero. La religione, la fede non autentica, quella che non si dimostra con l’amore, rendono l’uomo presuntuoso e arrogante nei confronti dei propri simili soprattutto quando sbagliano perché, giudicandoli secondo rigide norme precostituite, a tutto li spinge tranne che cercare la “trave”nel proprio occhio, o a ricordare cos’erano prima della loro conversione. La prima cosa che fa un religioso è considerare gli altri impuri e vede in se stesso un privilegiato, un vivente in un mondo di morti: la questione però non è se questo sia vero o falso, ma se quell’esser vivi porti un frutto oppure no. E se è previsto che nel nome di Gesù si possa morire, è terribile e diabolico che nel Suo nome si possa uccidere, ferire, giudicare non secondo le logiche della carità. E solo un intervento di Dio può guarire da questa situazione, basta che la persona lo accetti.

E arriviamo così alla parabola dei due debitori ricordata poco sopra: entrambi dovevano al creditore una somma, ma il secondo era in difetto di un decimo rispetto al primo. Entrambi non avevano di che pagare e questa è la condizione di ogni essere umano nei confronti di Dio. Quindi con questa parabola Gesù intende far ragionare Simone sul fatto che, se quella donna era consapevole della sua posizione e aveva capito che poteva essere perdonata e iniziare una vita nuova, lui non lo era, cioè non solo ignorava di essere un debitore, ma quel l’idea non lo sfiorava nemmeno e il giudice restava sempre lui, con la sua Legge, le sue usanze, i suoi preconcetti. Il paragone tra i due creditori era ipotetico e teso a sottolineare l’importanza del comprendere il valore del perdono di Dio, che quella la donna aveva acquisito, e non il fatto che Simone fosse un privilegiato cui poco doveva essere rimesso. Non risulta che per lui ci sia stato perdono, per lo meno in quella circostanza.

Quando poi un visitatore entrava in una casa, il proprietario lo abbracciava, lo baciava e gli offriva l’acqua per lavarsi i piedi, sporchi di polvere o di fango, o glieli faceva lavare dai servitori, azioni che Simone non aveva fatto evidentemente per rimarcare la distanza tra lui e Gesù, che avrebbe dovuto essere l’ospite di maggiore riguardo. Ai convitati si era soliti offrire anche un po’ d’olio per ungersi il capo e la barba prima o durante il banchetto, altra usanza trascurata eppure per l’epoca importante. L’innominata peccatrice, invece, aveva trasformato un elemento del galateo di allora in un atto di adorazione e preghiera. La frase “da quando sono entrato”, poi, ci dice che era lì prima dell’arrivo di Nostro Signore ad aspettarlo, o che era tra la gente che lo accompagnava.

C’è poi quel “ha molto amato”, che riassume il sentimento che aveva animato quella persona non nel suo passato remoto, ma in quello prossimo, lì al pranzo, in cui aveva manifestato tutta la sua riconoscenza nel chiedere il perdono, che la propria vita venisse riscattata. Era un’idea che si era fatta in lei poco a poco, mettendo da parte le parole e le azioni chi di poteva rimettere i suoi peccati. E “Per questo le sono perdonati i suoi peccati”.

C’è poi la fede che l’aveva salvata, quindi la certezza del fatto che, se c’era stato un “prima” che ben conosceva, ci sarebbe stato un “dopo”: la guarigione dei tanti malati di cui aveva sentito parlare, o era stata testimone, era solo l’aspetto di un’altra guarigione, ben più importante, quella che l’avrebbe portata alla vita mettendola in condizione di ricominciare da capo. Così come Gesù aveva letto i pensieri di Simone rivelandoglieli, altrettanto aveva fatto con la donna, di cui conosceva il passato e le ragioni che l’avevano portata a quel pianto e a quei gesti. “La tua fede di ha salvata” è la conferma del fatto che solo la consapevolezza di quello che siamo davanti a Dio, e quindi a chiedere il perdono, può portarci all’esenzione dal destino comune che avranno tutti coloro che scelgono di vivere escludendosi dalla Sua realtà. Ed è anche qualcosa che, una volta avuta la Grazia, non possiamo permetterci di abbandonare, perché altrimenti avremmo avuto una remissione teorica, saremmo quella piantina di grano soffocata dalle spine: moriremmo. La fede va gestita nel quotidiano, non può essere un vestito o un oggetto che prendiamo solo quando ne abbiamo bisogno come faceva Simone che, nonostante la conoscenza che aveva della Parola scritta, l’aveva ridotta a un compendio di regole, orgoglioso di osservarle, ma senza possedere la capacità di valutazione e discernimento dell’umile.

Resta da capire cosa sia il “molto” e il “poco” di cui Gesù ha parlato: non credo che questi indichino la quantità dei peccati che una persona può avere nel suo passato e che si porti con sé fino a perdono raggiunto: è piuttosto una valutazione personale. In altri termini la “peccatrice” non era peggiore di Simone perché entrambi erano privi della Grazia, quindi volontariamente fuori dal progetto di Dio per loro; la differenza stava nel fatto che una voleva entrarvi e aveva compreso quanto fosse importante, l’altro era convinto di esservi già oppure non si poneva il problema essendo un maestro e confrontandosi, presumo quotidianamente, coi suoi pari seduti sulla loro giustizia e intenti in complesse dissertazioni dottrinali, attenti al particolare, ma incapaci di guardare al generale. Sappiamo invece, per esperienza, che l’istruzione passa attraverso un metodo opposto, cioè dal generale al particolare.

La donna sapeva di avere un debito molto grande e, per alleggerire il suo peso, avrebbe potuto ricorrere al metodo del confronto, vale a dire individuare chi era peggio di lei e consolarsi col fatto che, per quanto peccatrice, c’era sempre chi si comportava peggio, ma non lo fece. Simone invece è possibile che ringraziasse Dio di non essere “come gli altri uomini”, preghiera che leggiamo nella parabola del Fariseo e del pubblicano, la cui giustizia era fondata sui digiuni e le elemosine, fatti preferibilmente in modo tale che gli altri lo sapessero. Tutti questi personaggi si erano dimenticati che la salvezza non risiede in un’organizzazione o in un modo di pensare o vivere, ma nel confronto costante tra quello che si è e si dovrebbe essere, camminando mano nella mano con il Figlio di Dio che ci ha voluti salvare, il cui nome è benedetto in eterno. Amen.

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06.11 – VI DARÒ RISTORO (Matteo 11.28)

6.11 – Io (Matteo 11.28)

 

28Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro.

 

            Sono convinto che dare per scontato che le cose avvengano o siano come ce le aspettiamo sia un errore che commettiamo frequentemente senza rendercene conto e che lo stesso avvenga spesso nella lettura del testo biblico: la mente istintivamente si focalizza sui soggetti, sugli elementi che risaltano a livello immediato. Nel verso 28 di Matteo, ad esempio, tendiamo a sottolineare “venite a me”, “stanchi e oppressi” e “vi darò ristoro” (o “riposo”, o “vi alleggerirò” come altri traducono); ma quell’ “Io”, però, si tende a considerarlo come un  qualcosa in più, di non rilevante a fronte della promessa di pace, quiete, serenità e non si pensa che è proprio quel pronome a fare la differenza, a dare un tono rafforzativo al tutto. Un medico che dice a un paziente “ti guarirò” indubbiamente gli fa una promessa che genera in lui sollievo, ma anteponendo “Io” si distingue dai propri colleghi, è conscio di aver compreso chiaramente il problema di quella persona, prende un impegno che coinvolge la sua onorabilità, quasi a dire “Io e nessun altro”. La stessa cosa, credo con garanzie infinitamente superiori perché l’essere umano può sempre sbagliarsi, la fa Nostro Signore con questa frase. “Io” e nessun altro.

Lo stesso concetto appare nel primo comandamento: “Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile: non avrai altri dèi di fronte a me” (Esodo 20.2,3), identico in Deuteronomio 5.6,7. Ai tempi in cui furono scritte queste parole, quel “ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile” alludeva solo apparentemente al fatto che il popolo di Israele era stato posto nella condizione di abbandonare quel Paese, ma soprattutto faceva riferimento a tutte le iniziative prese da Dio per liberarli: ricordiamo, stando nel generale, le dieci piaghe, le acque del Mar Rosso che si aprirono per far passare il popolo e si richiusero annientando l’esercito del Faraone, la manna, le quaglie, l’acqua scaturita dalla roccia e la vittoria su Amalek. L’uscita dall’Egitto non fu da un Paese particolarmente malvagio (pensiamo a Giuseppe e al fatto che salvò quel popolo dalla carestia dopo i sette anni di abbondanza), ma da una condizione servile, cioè una realtà in cui la libertà era assente. La schiavitù in cui Israele versava, che possiamo sicuramente definire come “giogo”, non poteva essere che pesante per quanto, quando si trovava in difficoltà nel deserto, la rimpiangesse perché là gli era garantito comunque un tetto e un pasto. L’elezione che aveva ricevuto in dono avrebbe però comportato il possesso della terra promessa e il privilegio di diventare una nazione che avrebbe dovuto fare da luce a tutti gli altri popoli della terra.

Così il libro dell’Esodo, con la cronaca dettagliata di tutti gli errori, i dubbi, i ripensamenti di Israele, è al tempo stesso anche rappresentazione della difficoltà del cammino di ogni credente, soggetto a sbagliare e, nella sua immaturità, a volte a rimpiangere egoisticamente e carnalmente il tempo in cui era schiavo dell’Avversario, più o meno inserito nel mondo illusorio da lui organizzato. La lettura del testo biblico, non importa di quale libro, ci insegna che furono in pochi coloro che seppero attenersi alle promesse di un futuro senza voltarsi indietro.

Quanto al comandamento stretto, “Non avrai altri dèi nel mio cospetto” è un imperativo cui si segue la precisazione: “al mio cospetto”, cioè, parafrasando, “Per quanti dèi tu possa eleggere al mio posto, che possano soddisfare la tua carnalità, “Io” li distruggerò, “Io” conoscerò le ragioni della tua scelta e ti giudicherò. È sempre stato così. Il dio che l’uomo si sceglie contempla una gamma quasi infinita di possibilità che vanno da un essere immaginario superiore (vedi il vitello d’oro in cui la rappresentazione terrena si univa all’unicità di quel metallo che faceva costantemente riferimento al Dio vivente e vero) a un proprio simile, falso profeta inevitabilmente, o a se stessi.

Ricordiamo in opposizione, rimanendo ai tempi dell’Antico Patto, quell’ “Io” ripetuto addirittura due volte in Isaia 51.12 “Io, io sono il vostro consolatore”. Possiamo definire questo grido l’unica prospettiva di rifugio anche nel futuro imminente quando “i cieli si dissolveranno come fumo, la terra si logorerà come un vestito e i suoi abitanti moriranno come larve. Ma la mia salvezza durerà per sempre, la mia giustizia non verrà distrutta” (v. 6). La temporaneità e fragilità del mondo che conosciamo in opposizione alla Sua giustizia, che non passerà esattamente come le parole di Cristo. Passeranno infatti “i cieli e la terra”, quindi qualunque nostro riferimento in questa vita, ma non il Vangelo, la “buona notizia” con la salvezza che porta.

In un capitolo precedente ho citato un altro “Io” che va ricordato “Io so i pensieri che medito per voi, pensieri di pace e non di sventura, per darvi un avvenire e una speranza. Voi mi invocherete e ricorrerete a me e io vi esaudirò. mi cercherete e mi troverete perché mi cercherete con tutto il cuore, mi lascerò trovare da voi” (Geremia 29.11,12). Ebbene, con le parole di Gesù abbiamo un primo adempimento di questa profezia, perché “Egli dà forza allo stanco e moltiplica il vigore allo spossato” (Isaia 40.29), ma quel “darò” di Gesù è condizionato dal “venite a me”. È un atto di fede che scaturisce dalla consapevolezza di non trovare riposo altrove, è la rivelazione del patto antico, imperfetto perché ombra del Nuovo. Credo che ogni credente quel “riposo” lo abbia prima cercato invano da altre parti, da altri dèi, in associazioni, magari in una fede politica, in altre persone, salvo poi scoprire che gli altri dèi non esistono, le associazioni più o meno caritatevoli si basano sull’interesse, una falsa giustizia e un finto vivere e che le persone che ascoltano le persone spesso fingono, o per lo meno recepiscono ciò che vogliono. Quando l’apostolo Paolo scriveva “Quando ero bambino, pensavo da bambino” si riferiva anche al fatto che è quando l’essere umano è inesperto e non conosce la vita si illude di trovare sempre chi lo ascolta e lo capisce; divenuto adulto, però, acquisisce la consapevolezza che, se non è in grado di gestire l’incomprensione, l’abbandono e le altre avversità dentro di sé, in realtà non trova nessuno disposto ad aiutarlo, a meno che non acquisisca una consapevolezza diversa, quell’essere in grado di dire “Abba, Padre” che lo Spirito Santo lo autorizza a pronunciare.

C’è quindi un “Io” che gli dà riposo, e un “Io” che lo allontana, il nostro, quello che appartiene alla carne e sul quale ha indagato a tutto campo la psicanalisi, riuscendovi solo in parte: è l’io che vuole emergere sempre, che organizza, rimuove, sublima, scinde, proietta, azioni dettate dalla necessità di sopravvivere e che in poche parole sono tappe obbligate se si vuole continuare ad esistere su quel “suolo maledetto per causa tua” (Genesi 3.17). Il secondo “Io” sarà sempre in antitesi col primo per cui ascoltandolo, il vero “riposo” sarà solo apparente, transitorio, soggetto a incrinarsi da un momento all’altro.

Avendo citato i due profeti sotto alcuni aspetti “maggiori” dell’antichità, credo sia utile rileggere Geremia 6.16, che abbiamo citato nello scorso capitolo, riportandone il seguito: “Fermatevi nelle strade e guardate, informatevi dei sentieri del passato, dove sta la strada buona percorretela, così troverete riposo per la vostra vita. Ma essi hanno risposto: Non la percorreremo. Ho posto sentinelle per vegliare su di voi: Fate attenzione al suono della tromba. Hanno risposto: Non ci baderemo”. Ecco: informarsi sui sentieri del passato significa ripensare profondamente ai messaggi contenuti nella legge e fare memoria storica su cosa voglia dire avere la benedizione o meno di Dio. Il riposo per la vita lo si ottiene sminuendo il secondo “Io”, perché la “strada buona” da percorrere la si trova proprio dopo un serio inventario spirituale. Nei versi di Geremia ci sono due risposte negative: il primo, “Non la percorreremo” è il rifiuto a seguire la buona strada, ma il secondo, “Non ci baderemo” è il rifiuto all’ascolto del suono della “tromba”, strumento che nella Scrittura allude sempre a una chiamata generale, un appello di Dio al quale è impossibile sottrarsi. E nel nostro caso è riferita a Gesù Cristo che chiama oggi perché nessuno sia escluso in futuro dal suo Regno.

Abbiamo ricordato il “Venite a me”: Gesù, per i riferimenti all’Antico Patto che abbiamo citato, se ci pensiamo non dà ai suoi uditori un invito nuovo, per lo meno non apparentemente, perché sempre da Isaia abbiamo “Volgetevi a me e sarete salvi, voi tutti confini della terra, perché io sono Dio, non ce n’è altri” (45.22); la differenza piuttosto risiede nel fatto che ora a parlare non è YHWH attraverso un profeta, ma Dio stesso nella sua posizione di Figlio dell’uomo, del Dio uomo che parla ad altri uomini, del Dio che conosce la sofferenza e che sa cosa vuol dire vivere in un corpo di carne. Gesù è Colui che ha rivelato pienamente la gratuità dell’amore del Padre già anticipato con altre parole e con altri inviti: “O voi tutti che siete assetati– quindi la stessa selezione che troviamo nel verso di Matteo – venite all’acqua; voi che non avete denaro– perché davanti a Dio non serve – venite, comprate e mangiate; venite, comprate senza denaro, senza pagare, vino e latte. Perché spendete denaro per ciò che non è pane, il vostro guadagno per ciò che non sazia? Su, ascoltatemi e mangerete cose buone e gusterete cibi succulenti. Porgete l’orecchio e venite a me, ascoltate e vivrete” (55.1-3).

E anche qui troviamo in Cristo l’aggiornamento, perché l’assetato, il povero in spirito, l’afflitto, chi prende coscienza della sua condizione, può trovare in Lui un rimedio totale, e qui è Lui a parlare: “Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva chi crede in me. Come dice la Scrittura, dal suo grembo sgorgheranno fiumi d’acqua viva” (Giovanni 7.37). Quindi non solo prenderà l’acqua della vita, quella di cui parlò alla donna samaritana, ma sarà in grado di portare altri a quell’acqua.

Il riposo di cui parla Nostro Signore è quindi, per la vita che viviamo anche sulla terra, una condizione nuova, diversa, dove chi costruisce lo fa sul serio, accumulando beni non materiali, è quello che solo il “Re Giusto” può dare ora e per il futuro di eternità con Lui: “Ecco, un re regnerà secondo giustizia e i prìncipi governeranno secondo diritto. Ognuno sarà come un riparo contro il vento e un rifugio contro l’acquazzone, come canali d’acqua in una steppa, come l’ombra di una grande roccia su terra arida. Non saranno più accecati gli occhi di chi vede– perché lo Spirito Santo li metterà nella condizione di vedere realmente – e gli orecchi di chi sente saranno attenti– alle parole del Re –. L’abietto non sarà più chiamato nobile né l’imbroglione sarà detto gentiluomo, poiché l’abietto fa discorsi abietti e il suo cuore trama l’iniquità per commettere empietà e proferire errori intorno al Signore, per lasciare vuoto lo stomaco dell’affamato e far mancare la bevanda all’assetato” (Isaia 32.1-6).

Riflettendo brevemente su questi ultimi versi, vediamo la figura dei prìncipi, in cui possiamo vedere quelli che il Signore ha posto come membri autorevoli della Sua Chiesa, che la gestiscono secondo i Suoi princìpi e metodi, naturalmente spirituali. Questo ci parla di responsabilità e di quanto sia frequente, purtroppo, incontrarne di falsi perché i “falsi profeti sedurranno molti”. Poi si passa a tutti quelli che ascolteranno: non saranno disorientati, ciascuno intento nelle proprie faccende, isolati nel proprio cammino, ma dei ripari contro il vento, quello che porta la polvere rendendo difficile il respiro e il vedere, o l’acquazzone (non la pioggia per la quale basta un semplice ombrello). La figura del canale d’acqua nella steppa, poi, indica l’essere portatori di vita dove crescere è difficile e, allo stesso modo, l’ombra della grande roccia su terra arida ci parla di sollievo, ristoro, riposo. Segue poi il contrasto tra l’onore umano di cui godono gli abietti e gli imbroglioni, sostenuti da una stima che non meritano da parte di chi, piuttosto che vederli per quello che sono, crede alle loro parole senza osservare i frutti che portano. Queste due categorie di persone non si limitano a fare del male ai deboli e ai sofferenti, ma si travestono di religiosità, senza sfamare e dissetare chi ha bisogno, perfetta descrizione di quanti appartengono al mondo politico, industriale e mediatico oggi.

Ebbene anche da tutte queste persone, dal mondo terreno che non concede altre possibilità se non quelle di essere uno che umilia e prevarica o un umiliato o prevaricato, Nostro Signore promette non una tregua, ma una drastica, radicale interruzione vista in quello “strappare” dal “presente malvagio secolo”così sempre uguale nelle sue manifestazioni perché è Dio ad essere creativo, non certo l’Avversario. Essere figli di Dio comporta il riposo nelle sue promesse e la conseguente uscita dal circuito malato per la sopravvivenza a tutti i costi della carne. Amen.

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