06.10 – VENITE A ME VOI TUTTI (Matteo 11.28-30)

6.10 – Venite a me (Matteo 11.28-30)

 

28Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. 29Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. 30Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero»”.

 

            Prima delle parole che abbiamo appena letto, Nostro Signore disse questa frase: “Nessuno conosce il figlio se non il Padre e nessuno conosce il Padre se non il Figlio, e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo”. A conferma del fatto che Gesù non si rivolge a una élite di “perfetti”, segue un invito corale che, nonostante la sua universalità, è diretto a una categoria di persone precisa: gli “stanchi e oppressi” sono anche i “poveri in spirito”, “coloro che sono nel pianto”, quelli che “hanno fame e sete della giustizia”. Nostro Signore non fa qui riferimento a un gruppo di persone dalle spiccate qualità morali o spirituali, ma a dei deboli, senza forze, spossati da qualcosa che non viene specificato.

Si tratta di un invito, il “Venite a me voi tutti”, che viene citato spesso per dichiarare la disponibilità del Cristo all’accoglienza delle anime, ma lo si utilizza come slogan pubblicitario per depressi quasi a sostenere la promessa di un miracolo il Signore deve operare per forza, della serie “Hai promesso, adesso mantieni”. Senza nulla togliere al valore dell’invito di Gesù, va detto che il primo riferimento di questo verso riguarda tutti coloro che, desiderando di cuore vivere cercando un rapporto sincero con YHWH, si ritrovavano oppressi dalla Legge e ancora di più da tutte quelle osservanze aggiunte dai Farisei in oltraggio al comandamento “Non aggiungerete nulla a ciò che io vi comando e non toglierete nulla, ma osserverete i comandamenti del Signore, vostro Dio, che io vi prescrivo” (Deuteronomio 4.2).

Va sempre tenuto presente che la Legge data da Dio a Mosè, per quanto imperfetta in relazione alla Grazia, allora non aveva bisogno di nulla in più né in meno, pena la perdita dell’equilibrio che possedeva. Chi viveva in quella dispensazione operava in un tempo di transizione caratterizzato dall’attesa (di quella della Grazia) e provava su di sé la stanchezza di un cammino che poteva essere alleggerito dalle promesse comunicate dai profeti, ma si trattava comunque di un cammino faticoso, di un giogo pesante da portare.

La vita nella dispensazione della Legge era caratterizzata dall’osservanza di 613 precetti tra positivi (“farai”) e negativi (“non farai”) e le parole di Dio a Mosé “Il mio volto camminerà con voi e vi darò riposo” (Esodo 33.14) erano riferite al fatto che, se Israele avesse caratterizzato la propria vita modellandola sui comandamenti ricevuti, avrebbe potuto realizzare il regno di Dio sulla terra ed essere luce alle nazioni già da allora. Però fallirono. Ed ecco perché, oggi, possiamo riflettere sul riposo che dà Gesù Cristo partendo proprio dagli scritti dell’Antico Patto. Leggiamo un attimo Isaia 48.18: “Io sono il Signore, tuo Dio, che ti insegno per il tuo bene, che ti guido per la strada su cui devi andare. Se avresti prestato attenzione ai miei comandi, il tuo benessere sarebbe come un fiume, la tua giustizia come le onde del mare”. Così non avvenne e non ascoltarono neppure il Figlio, anzi lo fecero crocifiggere dai romani, questo perché arroccati solo sugli egoismi e falsa giustizia data dalle loro tradizioni umane. Non seppero fermarsi né guardare. Geremia 6.16 scrive “Fermatevi sulle strade e guardate, informatevi sui sentieri del passato, dove sta la buona strada percorretela, così troverete pace per la vostra vita”.

Connettendo i due gruppi di versi, possiamo fare delle considerazioni valide anche per noi: l’invito di Geremia è fermarsi, guardare, informarsi, percorrere la buona strada, azioni possibili se le si affrontano in successione. Ci si ferma perché evidentemente ci si trova in una situazione di insicurezza, si guarda per capire nel passato per fare un inventario alla ricerca di eventuali errori, ci si informa nell’ipotesi che qualcosa sia sfuggito, si confessa la propria ignoranza se si vuole trovare la buona strada da percorrere, perché, andando all’Isaia citato, è solo il Signore che insegna per il nostro bene e può guidare sulla buona strada, quella che possiamo sempre perdere.

Tornando ora ai tempi di Gesù, quel popolo amato da Dio la sua strada l’aveva persa da tempo e i pochi che nella loro semplicità avrebbero voluto vivere una condizione spirituale – per quanto consentito dalla Legge – si ritrovavano oppressi e stanchi, con un cammino terribilmente rallentato proprio dalle loro guide: “Legano infatti pesanti fardelli e li pongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito” (Matteo 23.4). Gesù, quindi, con le parole “Venite a me voi tutti” si rivolge proprio quelli che desideravano trovare riposo, ma non ci riuscivano esattamente come quei ciechi, zoppi, paralitici, muti e i tanti altri, oppressi dal peccato, che avrebbero voluto vivere una vita non umiliante e l’ottennero solo grazie a Lui.

Con le Sue parole Nostro Signore sapeva benissimo di venire capito da chi avrebbe voluto davvero: sarebbe bastato connettere le sue parole a quelle di Isaia 10.27 che, parlando della fine della dominazione assira, scrive “In quel giorno sarà tolto il tuo fardello dalla tua spalla e il suo giogo cesserà di pesare sul tuo collo”; ecco allora che le Sue parole potevano essere recepite immediatamente e collegate al senso di liberazione che si prova quando viene tolto un peso dalla spalla e un giogo dal collo. Tra l’altro Gesù, con il suo invito, si dichiara implicitamente Uno con il Padre perché, se compiva miracoli, poteva anche dare quel riposo spirituale che molti cercavano. Per essere guariti bastava chiedere, naturalmente riconoscendolo, e per trovare riposo in Lui sarebbe stato necessario prendere su di sé il Suo giogo. Sono queste parole vitali per la persona perché implicano tutto un processo da mettere in atto: “Se qualcuno vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà”(Matteo 16.24,25); sono parole che Marco riporterà in modo identico in 8.34 e alle quali Luca, dopo “la sua croce” precisa “ogni giorno” (9.23).

Per quanto si tratti di parole che verranno analizzate più avanti, vediamo che prima di tutto chi segue il Signore deve rinnegare se stesso, cioè annullarsi, rinunciare a quello che è la propria vita elementare, animale, carnale. Non è chiesto ascetismo, ma la semplice conoscenza e consapevolezza di ciò che davvero è utile per vivere cristianamente, il confronto con Colui che guida, col Pastore che cammina davanti. Rinunciare a qualcosa spinti dall’entusiasmo, e quindi dalla temerarietà, è uno degli errori più grandi che possiamo commettere, ma non se questa azione è sorretta dalla comprensione del principio in base al quale uno sceglie di estromettersi da un dato contesto con la consapevolezza di cosa abbandona. La ragione di tanti fallimenti che costellano la vita del credente risiede proprio qui, oltre che nella propria natura umana.

Il prendere la nostra croce e seguirlo, poi, non credo alluda all’accettazione passiva e rassegnata delle avversità della vita, ma alla testimonianza da rendere ogni giorno indipendentemente dal fatto che possiamo parlare o meno di Gesù agli altri: la “croce” in tal senso la portiamo e presentiamo prima di tutto a Colui che vede, giudica, valuta e sa. La “croce” è la responsabilità cristiana che abbiamo verso noi stessi prima di tutto perché solo se l’avremo adempiuta in noi la potremo presentare agli altri. E nel seguirlo la croce si rinnova “ogni giorno”, come ci riporta Luca, proprio perché non va lasciata mai, se vogliamo essere dei discepoli.

L’esortazione successiva è poi “Imparate da me”, con cui siamo avvertiti del fatto che non può esservi altro modello, altro riferimento al di fuori di Lui. Soffermandoci un attimo su queste parole, va specificato che l’insegnamento di Gesù avviene non basandosi nel seguire alla lettera le Sue parole, ma ascoltandolo, privilegio dato a ogni vero credente attraverso lo Spirito Santo che agisce se non è contristato. Già nel libro dei Proverbi è espresso questo principio, per quanto in modo velato: “Fino a quando, o inesperti, amerete l’inesperienza e gli spavaldi si compiaceranno delle loro spavalderie e gli stolti avranno in odio la scienza? Tornate alle mie esortazioni; ecco, io effonderò il mio spirito su di voi e vi manifesterò le mie parole” (1.22,23).

Gesù parla di un giogo, figura di accettazione e sottomissione. Parla di un “Mio” giogo perché ce ne sono altri ingannevoli che l’essere umano accetta quasi inconsapevolmente, quello dell’Avversario sempre pronto a mascherare, nascondere, sedurre presentandosi come non è. E in quell’ “imparate da me” c’è tutta la Sua presenza e assistenza promessa. Così parlò infatti Pietro a Gerusalemme nel Tempio: “Mosè disse: «Il Signore vostro Dio farà sorgere per voi, dai vostri fratelli, un profeta come me; voi lo ascolterete in tutto quel che vi dirà. E avverrà: chiunque non ascolterà quel profeta, sarà estirpato di mezzo al popolo». E tutti i profeti, a cominciare da Samuele e da quanti parlarono in seguito, annunciarono anch’essi questi giorni”. (Atti 3.22,23).

Dopo l’esortazione ad imparare da lui, Gesù descrive sinteticamente le sue qualità non per autocelebrarsi, ma per dare un ulteriore riferimento biblico ai suoi uditori: “mansueto ed umile di cuore” sono le caratteristiche con le quali si mostrava e si mostra in quel e questo tempo, a differenza del rigore e del giudizio con il quale verrà conosciuto al suo ritorno. “Mansueto ed umile di cuore” per il tempo della Grazia non ancora concluso e per quanto lo possiamo conoscere: l’apostolo Paolo un giorno esortò la Chiesa di Corinto “…per la dolcezza e la mansuetudine di Cristo” (2 Corinti 10.1) e perché quelli erano i segni per individuarlo ancora prima del suo essere vittorioso su tutti i popoli: “Ecco, venne a te il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina” (Zaccaria 9.9), come si verificò nella sua ultima entrata in Gerusalemme. Ci sono poi i versi di Filippesi più volte citati e di cui ricordiamo le azioni: “svuotò se stesso”, “umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte, e a una morte di croce”. Pietro poi scrive che “Cristo patì per voi lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le sue orme: egli non commise peccato e non si trovò inganno sulla sua bocca. Insultato, non rispondeva con insulti; maltrattato, non minacciava vendette, ma si affidava a colui che giudica con giustizia” (2 Pietro 2.21,23). Già nel versi che abbiamo citato possiamo vedere cosa significhi “imparate da me”.

Restano da affrontare i due ultimi punti: “…darò riposo alle anime vostre” è la conseguenza del rivolgersi a Cristo a prescindere dal peso che ci opprime: è l’andare a chi ha detto “Io darò riposo” di cui ci occuperemo nella prossima riflessione. Notiamo che non è promessa una pausa, un sollievo temporaneo, ma il riposo all’anima, cioè al nostro essere nella sua totalità che in questo mondo non riesce, né può, trovare. E naturalmente sono parole che si riferiscono al presente, cioè alla vita sulla terra, ma anche alla vita futura, enormemente più importante perché è il luogo in cui il riposo dell’uomo collimerà pienamente con quello di Dio: “Dovremmo dunque avere il timore che, mentre rimane ancora in vigore la promessa di entrare nel suo riposo, qualcuno di voi ne sia giudicato escluso. Poiché anche noi, come quelli, abbiamo ricevuto il Vangelo: ma a loro la parola udita non giovò affatto, perché non sono rimasti uniti a quelli che avevano ascoltato con fede. Infatti noi, che abbiamo creduto, entriamo in quel riposo, come egli ha detto: «Così ho giurato nella mia ira: non entreranno nel mio riposo” (Ebrei 4.1-13).

Infine abbiamo la descrizione del giogo che Gesù raccomanda all’uomo di prendere, “dolce” e dal peso “leggero” a differenza da quello imposto dagli Scribi e Farisei. Se pensiamo a tutte le persone che si sono allontanate da Lui dopo aver scoperto ciò che dovevano abbandonare o anche ascoltando il solo imperativo “rinneghi se stesso”, il verso sembra un paradosso, ma ci si dimentica che tutte le fatiche che si fanno per raggiungere uno scopo ricompensano abbondantemente del cammino intrapreso. Così scriveva Salomone nonostante la dispensazione in cui viveva: “Beato l’uomo che ha trovato la sapienza, l’uomo che ottiene discernimento: è una rendita che vale più dell’argento e un provento superiore a quello dell’oro. La sapienza è più preziosa di ogni perla e quanto puoi desiderare non l’eguaglia. Lunghi giorni sono nella sua destra e nella sua sinistra sono ricchezza e onore; le sue vie sono deliziose e tutti i suoi sentieri conducono al benessere” (Proverbi 3.13-17).

Il giogo è “dolce” e il peso “leggero” perché non siamo degli schiavi, ma dei figli conosciuti da un Padre che non dà mai oltre a quello che possiamo portare, al contrario di quanto vorrebbero imporre gli uomini, come dalle parole “Ora dunque perché tentate Dio, imponendo ai discepoli un giogo che né i nostri padri né noi siamo in grado di portare?» (Atti 15.10). La leggerezza del peso di Gesù sta proprio in questo: l’asperità del cammino la vediamo nel momento in cui guardiamo qualcosa di estraneo alla nostra persona spirituale e stacchiamo la nostra mano dalla Sua per prendere una strada diversa, salvo poi perderci e ritrovarci umiliati. Come bambini capricciosi.

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