06.07 – TUTTO MI È STATO DATO DAL PADRE MIO (Matteo 11.25-30)

6.07 – Tutto mi è stato dato dal Padre mio  (Matteo 11.25-30)

 

25In quel tempo Gesù disse: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. 26Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. 27Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo.
28Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. 29Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. 30Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero».
”.

 

            Dopo aver definito un aspetto della benevolenza di Dio consistente nel nascondere o rivelare le Sue verità, Gesù passa, al verso 27, ad enunciare una realtà di enorme portata, distinguendosi da tutti i profeti venuti prima di Lui: ricorda la Sua posizione di “Figlio” intesa come seconda persona dell’esistere e manifestarsi di Dio, definendosi implicitamente della stessa sostanza del Padre pur restando da Lui distinto. Anche qui, come già avvenuto nel precedente studio in cui avevo diviso in quattro blocchi la parte finale dei discorso di Gesù, il verso 27 presenta parti distinte: nella prima abbiamo il potere dato a Nostro Signore dal Padre, nella seconda il rapporto di reciprocità intercorrente tra i due e infine vediamo il Cristo come unico rivelatore-mediatore tra il Padre e gli uomini. Si tratta di un verso che condensa molte verità e per questo non si può affrontare in un’unica sessione.

Riguardo alle parole “Tutto mi è stato dato dal Padre mio”, possiamo dire che chiamano in causa Gesù come Alfa e Omega, Primo e Ultimo, Principio e Fine. Il verbo “essere” viene usato al passato prossimo, “è stato” ma ha riferimento anche al presente e all’eternità di modo che sarebbe stato possibile, all’israelita che avrebbe voluto riflettere su quelle parole, meditare il significato di quelle parole nel passato e nel presente. Sappiamo che Gesù disse “Prima che Adamo fosse, io sono” (Giovanni 13.19) facendo riferimento quindi alla sua preesistenza rispetto alla creazione. Sappiamo, perché è sempre Giovanni a dirlo ed è stato il primo argomento trattato in questa lettura cronologica, che “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio (…) tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste” (1.1,2). Se la partecipazione del Figlio fu attiva e perciò indispensabile alla creazione, lo fu anche in Eden in cui possiamo vederlo raffigurato nell’albero della Vita, al centro del giardino, il solo che avrebbe potuto garantire coi suoi frutti ad Adamo ed Eva la sopravvivenza. Fatto “della stessa sostanza del Padre” di cui ci occuperemo nella prossima meditazione, vediamo che al verso ventisettesimo si esprime quasi a voler sottintendere il fatto che ci fu un momento preciso in cui gli è stato dato quel “tutto” di cui parla: è un riferimento a quel verso di Salmo 2.7 “Voglio annunciare il decreto del signore. Egli mi ha detto: «Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato. Chiedimi e ti darò in eredità le genti e in tuo dominio le terre più lontane». Le spezzerai con scettro di ferro, come vaso di argilla le frantumerai”.

Possiamo fare due riferimenti in proposito, di cui il primo è dell’apostolo Paolo che utilizzò questo Salmo per spiegare agli Ebrei proprio l’identità del Cristo: “Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padre per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo. Egli è l’irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza, e tutto sostiene con la sua parola potente. Dopo aver compiuto la purificazione dei peccati, sedette nella maestà nell’alto dei cieli, divenuto tanto superiore agli angeli quanto più eccellente del loro è il nome che ha ereditato. Infatti, a quale degli angeli Dio ha mai detto: «Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato»? E ancora: «Io sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio»? Quando invece introduce il primogenito nel mondo, dice: «Lo adorino tutti gli angeli di Dio». Mentre degli angeli dice: «Egli fa i suoi angeli simili al vento, e i suoi ministri come fiamma di fuoco», al Figlio invece dice:« Il tuo trono, Dio, sta nei secoli dei secoli»” (Ebrei 1.1-6).

La seconda nota è tratta dal commento a “Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato” che fece Papa Giovanni Paolo II all’Udienza Generale del 16 ottobre 1985: «…sono parole profetiche; Dio parla a Davide del suo discendente. Mentre, però, nel contesto dell’Antico Testamento queste parole sembravano riferirsi solo alla figliolanza adottiva, per analogia con la paternità e la figliolanza umana, nel Nuovo Testamento si svela il loro significato autentico e definitivo: esse parlano del Figlio che è della stessa sostanzadel Padre, del Figlio veramente generatodal Padre. E perciò parlano anche della reale paternità di Dio, di una paternità a cui è propria la generazione del Figlio consostanziale al Padre. Esse parlano di Dio, che è Padre nel senso più alto e più autentico della parola. Parlano di Dio, che eternamente genera il Verbo eterno, il Figlio consostanziale al Padre. In ordine a lui Dio è Padre nell’ineffabile mistero della sua divinità. “Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato”. L’avverbio “oggi” parla dell’eternità. È l’“oggi” della vita intima di Dio, l’“oggi” dell’eternità, l’“oggi” della santissima e ineffabile Trinità: Padre, Figlio e Spirito Santo, che è amore eterno ed eternamente consostanziale al Padre e al Figlio».

Ricordiamo, dando una lettura limitata di Gesù come Alfa e Omega, che fu testimone di tutti gli avvenimenti della storia avvenuta sia nel mondo spirituale che terreno: ad esempio il Luca 10.18 “Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore” e che, sempre in Luca, raccontò ai discepoli le realtà che vide sia poco prima del diluvio che della distruzione di Sodoma: “Come avvenne nei giorni di Noè, così sarà nei giorni del figlio dell’uomo: mangiavano, bevevano, prendevano moglie, prendevano marito fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca e venne il diluvio e li fece morire tutti. Come avvenne anche nei giorni di Lot: mangiavano, bevevano, compravano, vendevano, piantavano, costruivano; ma, nel giorno in cui Lot uscì da Sodoma, piovve fuoco e zolfo dai cielo e li fece morire tutti”.

 

Fatto questo brevissimo excursus relativo ai tempi antichi, vediamo quelli del presente nel senso di quando Gesù svolgeva il Suo Ministero terreno, perché quel “Tutto mi è stato dato” si riferisce sì alla dignità che aveva presso il Padre, ma sono convinto abbia avuto il suo sigillo ufficiale, terrenamente parlando, una volta ottenuta la vittoria su Satana non cedendo mai alle sue tentazioni nel deserto. Ricordiamo che in quell’occasione l’Avversario giocò il tutto per tutto su di Lui quando era totalmente debilitato dalla quarantena del digiuno. Giova ricordare che l’espressione di Matteo “Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame” (4.2) non sta ad indicare un tempo preciso, ma il numero “Quaranta” sottintende “quanto basta per”. Solo la vittoria in quella circostanza avrebbe messo Gesù nella possibilità di affrontare il Suo Ministero con tutta l’autorità datagli dal Padre. Quindi, quel “Tutto mi è stato dato”, sta anche a significare che, dopo la tentazione nel deserto, Nostro Signore ha davvero dimostrato pubblicamente di essere l’unico in grado di sconfiggere Satana: la vittoria su di lui, nel deserto e negli altri luoghi in cui fu portato, era la garanzia di tutti i miracoli e della stessa resurrezione in cui gli effetti della morte furono annullati. Infatti “…per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore!» a gloria di Dio Padre” (Filippesi 2.9-11).

Ora facciamo attenzione alla definizione di Gesù Cristo che ogni lingua deve proclamare, volente se in lui avrà creduto o nolente se lo avrà rifiutato: “Signore”. Guardiamo meglio le parole di Paolo ai versi 10 e 11 utilizzando la versione letterale di don Pietro Ottaviano: “…affinché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio di (esseri) celesti e terrestri e sotterranei e ogni lingua professi che Signore (è) Gesù Cristo a gloria di Dio Padre”: “ogni ginocchio” di qualunque entità pensante, che vive indipendentemente dalla propria area di appartenenza: celeste (quindi spirituale, gli angeli), terrestre (uomini e donne) o sotterranea (gli esseri oscuri, lontani da Dio per scelta). Cosa significhi quel “Signore”, poi, lo si individua in quel “della stessa sostanza del Padre” di cui abbiamo accennato all’inizio. Chi Lo vide in quella forma, e contemporaneamente nel ruolo distinto dal Padre, fu l’apostolo Giovanni, premiato per aver dato la propria vita al servizio del Vangelo quando fu rapito in spirito e scrisse il libro della Rivelazione, di cui ora vedremo brevemente pochi versi, tenendo presente che si tratta di una visione relativa a prima del giudizio, con la Chiesa non ancora rapita.

Giovanni, nel suo scritto, non vide Gesù come lo aveva conosciuto, non posò il suo capo sul su petto come avvenne nell’ultima cena, ma rimase spaventato nel contemplarlo. Gesù gli si presenta così: “Dice il Signore Dio: io sono l’Alfa e l’Omega, Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente” (1.8).

Giovanni racconta: “Mi voltai per vedere la voce che parlava con me, e appena voltato vidi sette candelabri d’oro e, in mezzo ai candelabri, uno simile a un Figlio d’uomo, con un abito lungo fino ai piedi e cinto al petto con una fascia d’oro. I capelli del suo capo erano candidi, simili a lana candida come neve. I suoi occhi erano come una fiamma di fuoco. I piedi avevano l’aspetto del bronzo splendente, purificato nel crogiolo. La sua voce era simile al fragore di grandi acque. Teneva nella sua destra sette stelle e dalla bocca usciva una spada affilata, a doppio taglio, e il suo volto era come il sole quando splende in tutta la sua forza. Appena io lo vidi, caddi ai suoi piedi come morto. Ma egli, posando la sua mano destra su di me, disse: «Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo, e il Vivente. Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi” (1.12-18).

Giovanni è costretto a voltarsi. Dio arriva sempre da dove uno non se lo aspetta, indipendentemente dalla posizione spirituale che ha ricevuto. Prima vede i sette candelabri d’oro, figura delle sette Chiese (1.20) e sappiamo che questo metallo è sempre riferito a YHWH. Dopo i candelabri ecco un essere dalle sembianze umane il cui vestito ricorda quello del Sommo Sacerdote, cinto in modo da richiamare la giustizia e la fedeltà con la quale esercita la sua funzione, anche qui con oro. Ricordiamo le parole “Con la sua veste lunga fino ai piedi portava tutto il mondo” (Sapienza 18.24) ed Esodo 28.4 “E questi sono gli abiti che faranno: il pettorale e l’efod, il manto, la tunica ricamata, il turbante e la cintura. Faranno vesti sacre per Aaronne, tuo fratello, e per i suoi figli, perché esercitino il sacerdozio in mio onore”. Nei capelli e nel volto c’è un richiamo alla visione di Daniele quando ci parla dell’”Antico dei giorni” e gli occhi erano “come– non gli veniva un termine esatto – fiamma di fuoco”, quel fuoco che sappiamo purifica, prova, giudica e separa la paglia, stoppa e legno dall’oro e dall’argento. I piedi, figura del cammino, di quella parte del corpo che consente uno spostarsi, erano di bronzo, figura anch’essa del giudizio, “purificato nel crogiolo”, a sostegno della perfetta santità del percorso di Gesù sulla terra e, se i piedi sono anche quelli che sorreggono la persona, ecco le basi con le quali sarà in grado di sussistere e giudicare: non solo cioè come Dio che risiede “nell’alto dei cieli”, ma in quanto Dio che si è fatto carne, uomo, e venne ad abitare in mezzo a noi. La Sua voce, poi, è un rumore bianco, cioè quel suono che comprende tutte le frequenze udibili esattamente come il bianco, somma di tutti gli altri: la totalità del messaggio, dell’appello, delle iniziative di Dio a favore dell’uomo, ma anche l’impossibilità di comprenderla senza lo Spirito Santo.

Le sette stelle da Lui tenute in mano stanno a significare il dominio e la forza sugli angeli delle sette chiese (1.20) che rappresentano la Chiesa nella sua storia attraverso i secoli; la spada affilata e a doppio taglio, definizione che i lettori della lettera agli Ebrei conoscono, è figura addirittura meno efficace della Parola stessa. Infine abbiamo il volto, abbagliante, inguardabile da occhio umano perché “come il sole che splende in tutta la sua forza”, quella della perfezione e della santità. Le parole che Gesù dice a Giovanni non lasciano dubbi sulla Sua identità: è lo stesso con cui l’apostolo ha camminato per i territori descritti nei Vangeli, lo stesso che ha visto risorto e salire al cielo e che ora non riconosce e ancora una volta ha bisogno di quel “Non temere” di cui più volte abbiamo letto e leggeremo. E tutto gli è stato dato dal Padre. Amen.

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06.06 – HAI NASCOSTO QUESTE COSE AI SAPIENTI (Matteo 11.25-30)

6.06 – Hai nascosto queste cose ai sapienti (Matteo 11.25-30)

25In quel tempo Gesù disse: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. 26Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. 27Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo.
28Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. 29Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. 30Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero».
”.

            Anche i versi di questo passo costituiscono un problema per chi cerca una lettura cronologica del Vangelo perché Luca li pone in un contesto diverso, cioè non dopo che Gersù ricevette i due discepoli di Giovanni Battista, ma quando tornarono a Lui i settantadue che aveva inviato a evangelizzare dando loro potere di guarire gli ammalati e cacciare i demoni.

Comunque sia Nostro Signore esulta e proferisce una lode al Padre. Il passo che esamineremo può essere diviso in quattro blocchi distinti: il primo è compreso dai versi 25 e 26, descrive una realtà spirituale e costituirà il cuore della nostra riflessione; il secondo, al verso 27, è una dichiarazione di autorità e di rapporto Padre – Figlio – credenti, il terzo (vv.28 e 29) è un invito ad andare a Lui e infine il quarto, al verso 30, è una definizione della vita cristiana e in cosa essa consista.

Il primo blocco parte dalla benevolenza del Padre intesa come manifestazione di sé e del Suo piano di redenzione per l’uomo, benevolenza che comprende tanto il rivelare che il nascondere. Qui si apre un capitolo immenso, difficile da spiegare in poche parole. Sembra, da quanto dice Gesù, che il fatto che un uomo creda o meno dipenda dalla scelta di Dio, ma in realtà Lui nasconde o rivela a seconda di ciò che abita la persona. Il primo esempio che mi viene in mente è quello del faraone d’Egitto che, nella sua presunzione, fu punito con l’indurimento del cuore, cioè portando all’esasperazione ciò che già comunque era in lui. Da notare che il cuore del faraone è definito in Esodo 7.14 “irremovibile” prima ancora che Dio lo indurisse ancora di più. In tutta la storia umana raccontata dalla Bibbia non esiste un solo caso di uomo o donna che si siano persi senza avere l’orgoglio e un’alta opinione di sé che li hanno accecati a tal punto da non vedere altro al di fuori della propria persona o dei suoi averi, materiali o intellettivi. E possiamo richiamare le parole “Guai a voi, ricchi” che abbiamo visto nel sermone sul monte, in cui abbiamo dimostrato che non è la ricchezza ad ostacolare la persona nel suo avvicinarsi a Dio, ma il valore che la persona le  attribuisce e l’uso che ne fa.

Andiamo ora agli scritti dell’Antico Patto, fondamentali per capire le basi di tutti i discorsi di Gesù: già Isaia scrisse “Guai a coloro che si credono sapienti e si reputano intelligenti” (5.21), dove l’errore è “credersi” e “reputarsi”, cioè attribuirsi un valore da sé stessi, probabilmente misurandosi coi propri simili e rendendosi protagonisti di una commedia tragica alla quale credere per primi. È ciò che facevano gli Scribi e i Farisei, per lo meno la maggior parte di loro, snaturando il senso della Legge che era stata loro, assieme all’esortazione alla santità dalla quale si teneva accuratamente lontano. Dando prevalenza alla lode con le labbra, ma allontanando il loro cuore da Lui, si sentirono dire “…poiché il Signore ha versato su di voi uno spirito di torpore, ha chiuso i vostri occhi, cioè i profeti, e ha velato i vostri capi, cioè i veggenti. Per voi ogni visione sarà come le parole di un libro sigillato: si dà a uno che sappia leggere– e comprendere – dicendogli «Per favore, leggilo», ma quegli risponde «Non posso, perché è sigillato», oppure si dà un libro a chi non sa leggere dicendoli «Per favore, leggilo», ma quegli risponde «Non so leggere». (…) Continuerò a operare meraviglie e prodigi con questo popolo; perirà la sapienza dei suoi sapienti e si eclisserà l’intelligenza dei suoi intelligenti” (29.10-15).

Da queste parole vediamo come Isaia delinei già la realtà di cui Nostro Signore prenderà atto nei versi di Matteo che abbiamo letto: stante l’alto concetto che avevano di loro stessi quegli uomini, ma impermeabili all’umiltà e al ravvedimento, Dio non li ha puniti con malattie o calamità, ma li ha lasciati in balia di loro stessi dando loro uno spirito di torpore privandoli di profeti e di veggenti che agissero secondo il Suo volere. E sappiamo che tra Malachia e Giovanni Battista ci furono circa 400 anni di silenzio da parte Sua. Posti di fronte all’impossibilità di capire, ecco che secondo Isaia quella gente sarà costretta a rivolgersi ad altri che non riusciranno ad aiutarli, a spiegare, far loro comprendere. Così, come al Faraone non rimase altro che un trono inutile, ai “sapienti e intelligenti” non resterà altro che un teatro vuoto. Attori senza pubblico.

Salomone scrisse che “È gloria di Dio nascondere le cose, è gloria dei re investigarle” (Proverbi 25.2), parole che ci ricordano il fatto che Israele avrebbe dovuto essere “Un regno di sacerdoti”, condizione poi passata alla vera Chiesa. Dio nasconde, i re investigano e trovano, per loro già la ricerca implica lo scoprire perché sappiamo che chi cerca trova e sarà aperto a chi bussa.

Tornando ora al Vangelo, sarà Gesù a spiegare la condizione dei capi religiosi del popolo e di quanti seguivano le loro orme quando, rispondendo ai discepoli che gli chiedevano come mai parlasse in parabole, disse “«Perché a voi è dato conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato. Infatti a colui che ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a colui che non ha, sarà tolto anche quello che ha. Per questo a loro parlo con parabole: perché guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono. Così si compie la profezia di Isaia che dice: Udrete, sì, ma non comprenderete, guarderete, sì, ma non vedrete. Perché il cuore di questo popolo è diventato insensibile, sono diventati duri di orecchi e hanno chiuso gli occhi, perché non vedano con gli occhi, non ascoltino con gli orecchi e non comprendano con il cuore e non si convertano e io li guarisca. Beati invece i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché ascoltano».” (Matteo 13.11-16).

Dio parla e non si presta attenzione, ma si può anche non capirlo perché ciò viene precluso: c’è chi sostiene che questo atteggiamento del Signore eccessivamente duro e che, in fondo, basterebbe un’illuminazione misericordiosa dall’alto perché quelle persone potessero credere, ma non è così perché, anche se illuminati parzialmente, non le saprebbero comunque gestire, portare e assimilare perché ciò che è santo non si dà ai cani e le perle non si buttano ai porci. Parlando al popolo leggiamo che Gesù disse “«È per un giudizio che io sono venuto in questo mondo, perché coloro che non vedono, vedano e quelli che vedono, diventino ciechi». Alcuni dei farisei che erano con lui udirono queste parole e gli dissero: «Siamo ciechi anche noi?». Gesù rispose loro: «Se foste ciechi, non avreste alcun peccato, ma siccome dite «Noi vediamo», il vostro peccato rimane»(Giovanni 9.39-41). Quelli che non vedono sono gli stessi che versano nella condizione dei “poveri di spirito”, che riconoscono di aver bisogno della vista esattamente come quei ciechi guariti perché lo chiesero. Sono quei “malati” che hanno bisogno dei medico e per i quali il Figlio si prodigò, donò sé stesso in sacrificio e interviene tutt’ora. Per questo Paolo spiegherà che “Se il nostro Vangelo rimane velato, lo è per coloro che si perdono. In loro, increduli, il dio di questo mondo ha accecato la mente perché non vedano lo splendore del glorioso Vangelo di Cristo, che è immagine di Dio” (2 Corinti 3.4,6). Anche qui c’è sempre una responsabilità interiore: il dio di questo mondo acceca quelli che sono suoi, non gli altri, quelli che hanno gridato di essere salvati, non riconoscendosi né nel mondo, né nell’Avversario che di fatto lo governa. Ricordiamo che Satana fu gettato sulla terra coi suoi angeli e non scagliato nello spazio, o su un pianeta dove non avrebbe potuto nuocere.

Questo dunque Dio ha fatto e fa nella sua benevolenza: ha nascosto “queste cose ai sapienti e le ha rivelate ai piccoli” e qui non può che venire in mente l’episodio in cui i discepoli volevano impedire ai bambini di andare da Gesù che disse “Chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso” (Marco 10.16). Perché? Un bambino non ha preconcetti. Un bambino è naturalmente curioso, sa di non sapere e chiede perché a un adulto in quanto si fida di lui e crede a quello che gli si dice. Ovvio che Nostro Signore qui non parla di persone ignoranti che portano avanti il loro sapere inconsistente e si arroccano su di esso, ma di disponibilità ad accogliere senza quei preconcetti che minano così tanto le possibilità di crescere davvero.

Un bambino impara, anzi è proprio nell’età più tenera che si costruisce la personalità e si pongono le basi per quello che si diventerà un giorno. Un bambino non è malizioso, non fa calcoli, cerca l’affetto di chi glielo può, purtroppo spesso “dovrebbe”, dare. Un bambino è il contrario del sapiente, del presuntuoso, del calcolatore, del ricco. Certo ci sono le eccezioni, ma non è di quelle che si parla in questo passo.

E qui torniamo alla condizione del sapiente secondo il mondo, di chi questa vita la vive bene, prevaricando gli altri, i deboli, le minoranze, chi possiede doppi pesi e doppie misure e le utilizza con disinvoltura, chi calpesta i diritti altrui, ruba, opprime, devasta, rovina non solo fisicamente persone, animali, cose o terra.

Il rivelare “queste cose ai piccoli” e contemporaneamente nasconderle agli altri è spiegato dall’apostolo Paolo in diversi passi, ad esempio nella lettera ai Romani in cui parla di Giacobbe ed Esaù, quando fu preferito Giacobbe, nonostante fosse secondogenito: “C’è forse ingiustizia da parte di Dio? No, certamente! Egli infatti dice a Mosè: Avrò misericordia per chi vorrò averla, e farò grazia a chi vorrò farla.(…) Dio quindi ha misericordia verso chi vuole e rende ostinato chi vuole” (9.14,15,18). E il “chi vuole” non è a suo capriccio, ma una reazione proporzionata all’atteggiamento di ciascuno che coi suoi pensieri e azioni gli permette di agire o meno. Possiamo infine ricordare 2 Tim 1.9: “Egli infatti ci ha salvati e ci ha chiamati con una vocazione santa, non già in base alle nostre opere, ma secondo il suo progetto e la sua grazia”. Ci vuole coraggio ad ammettere, quando si ascolta la Parola, che tutto quanto abbiamo fatto fino all’incontro con Dio avrà forse avuto un senso secondo la prospettiva umana, ma è stato in antitesi per la nostra sopravvivenza spirituale. Ci vuole coraggio per accettare il nostro stato di peccatori e soprattutto per ravvedersi, cambiare, rivisitare il nostro metro di valutazione. Ma è l’unico modo per vivere una vita degna, in prospettiva di quella futura. Amen.

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06.05 – I GUAI SULLE CITTÀ (Matteo 11.20-24)

6.05 – I guai sulle città (Matteo 11.20-24)

 

20Allora si mise a rimproverare le città nelle quali era avvenuta la maggior parte dei suoi prodigi, perché non si erano convertite: 21«Guai a te, Corazìn! Guai a te, Betsàida! Perché, se a Tiro e a Sidone fossero avvenuti i prodigi che ci sono stati in mezzo a voi, già da tempo esse, vestite di sacco e cosparse di cenere, si sarebbero convertite. 22Ebbene, io vi dico: nel giorno del giudizio, Tiro e Sidone saranno trattate meno duramente di voi. 23E tu, Cafàrnao, sarai forse innalzata fino al cielo? Fino agli inferi precipiterai! Perché, se a Sòdoma fossero avvenuti i prodigi che ci sono stati in mezzo a te, oggi essa esisterebbe ancora! 24Ebbene, io vi dico: nel giorno del giudizio, la terra di Sòdoma sarà trattata meno duramente di te!».”.

 

            Chi cerca di seguire il filo cronologico del Vangelo noterà che Luca, dopo le parole sulla generazione che si rifiutava di vedere in Gesù il Cristo, riporta l’invito a pranzo di un Fariseo in cui avvenne l’adorazione della peccatrice innominata. Matteo però, nel suo Vangelo rivolto agli ebrei, fa proseguire il discorso di Nostro Signore coi famosi “guai” verso le città mentre l’altro evangelista le colloca in occasione dell’invio dei settanta discepoli.

In questo passo Nostro Signore nomina alcune città molto significative accorpandole in due gruppi distinti: Corazìn, Betsaida e Cafàrnao (o Capernaum) da un lato, Tiro, Sidone e Sodoma dall’altro, quindi tre (numero che potremmo definire “del compimento” o “dell’autonomia”) più tre per un totale di sei, numero dell’imperfezione. Riguardo alle città del primo gruppo Matteo specifica “nelle quali era avvenuta la maggior parte dei suoi prodigi”: a Capernaum fissò la sua temporanea residenza quando, all’età di circa trent’anni, giunse dopo aver lasciato Nazareth, ricevuto il battesimo da Giovanni e percorso la Samaria. Là sappiamo che fece non solo molti miracoli di guarigione, ma soprattutto predicò la “buona novella” che può essere sintetizzata, per allora, con le parole del Battista “Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino” (Matteo 3.2), analoghe a quelle di Gesù (Matteo 4.17). Regno dei cieli che, quando sarà definitivamente compiuto, non costringerà chi crede a vivere col corpo in un altro regno, quello sulla terra, gestito dall’Avversario e dai suoi angeli.

Ora, pensando a quanto abbiamo letto finora nei Vangeli nella nostra imperfetta, presunta lettura cronologica, abbiamo visto e vedremo una quantità enorme di gente accorrere a Lui per ascoltarlo, per ottenere la guarigione da malattie di ogni sorta: non possiamo ignorare che tutto quell’agire diede come risultato la presenza di “circa 120” persone desiderosa di stare unite ad attenderlo (Atti 1.15), numero che è una promessa visto in quello degli apostoli, 12, per 10, la completezza agli occhi di Dio per l’uomo. Al di là di questo numero così simbolico, ci chiediamo dove fossero andati a finire tutti gli altri, quei ciechi guariti, quei lebbrosi che avevano potuto riacquistare una dignità e vita sociale prima di allora interdetta, quegli indemoniati così atrocemente umiliati nel corpo, ma soprattutto nella mente; pensiamo anche a tutti coloro che ebbero l’onore di conoscerlo, di parlargli, di pranzare e cenare assieme a Gesù. Certo non possiamo affermare categoricamente che tutti quelli che si erano convertiti si trovassero a Gerusalemme, ma quei “120” ci parlano di quanto sono rare la riconoscenza fattiva e la conversione per quanto sappiamo che, dalla discesa dello Spirito Santo in poi, il numero dei cristiani crebbe molto rapidamente, oserei dire in modo esponenziale.

Ai tempi di Gesù siamo in un periodo intermedio; basta pensare all’idea imperfetta che i suoi discepoli avevano di Lui, non avendo abbandonato l’idea che fosse comunque un liberatore terreno, non capendo chi fosse realmente come avverrà in seguito.

Andando a ritroso nell’ordine con cui Gesù nomina le città del primo gruppo, dopo Capernaum troviamo Bethsaida, “Casa della pesca”, che sappiamo essere quella dove operavano i primi quattro discepoli, cioè Pietro, Andrea, Giacomo e Giovanni, appunto pescatori, oltre a Filippo che lì era nato. Anche a Bethsaida, a quanto ne sappiamo e per come scrive Matteo, “era avvenuta la maggior parte dei suoi prodigi” eppure pochi lo seguirono. È allora da un lato commovente la folla che si raduna per ascoltarlo, che beneficia dei suoi insegnamenti nella Sinagoga e gli riconosce un’autorità ben diversa da quella degli Scribi e Farisei, ma dall’altro triste constatare che di tutto quanto Gesù fa per loro finisce per essere dimenticato nel momento in cui si chiama in causa la conversione e il ravvedimento. Le sue non erano parole generiche, bei discorsi di un predicatore preparato, ma tutto era sostenuto da miracoli indiscutibili a provare che chi chiamava ad una rivisitazione della propria vita era Dio stesso o, per come poteva essere visto allora, un grande profeta da Lui inviato.

Arriviamo così a Corazìn, nome che invano cercheremmo nella Bibbia e che compare solo qui e in Luca. Questa città distava tre chilometri circa da Capernaum, ma non ci è stato trasmesso nessun miracolo in lei espressamente avvenuto, a conferma del fatto che i Vangeli riportano una minima parte di quanto fatto e detto da Gesù che comunque passò da lei più volte. Corazìn, attualmente chiamata Keraze o Kerazie, è oggi solo sito archeologico, ma a quei tempi i suoi abitanti erano sia costantemente informati di quanto avveniva nella città vicina, Capernaum, sia erano stati testimoni della “maggior parte dei prodigi” operati da Nostro Signore. Ricordiamo Matteo, che ci illumina scrivendo “Gesù percorreva tutta la Galilea insegnando nelle loro sinagoghe, annunciando il vangelo del Regno e guarendo ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo. La sua fama si diffuse per tutta la Siria e conducevano a lui tutti i malati, tormentati da varie malattie e dolori, indemoniati, epilettici e paralitici; ed egli li guarì” (4.23,24).

Ecco allora che, se Capernaum e Betsaida indicano inequivocabilmente luoghi in cui Gesù aveva operato, Corazìn è l’immagine di ciò che è avvenuto realmente anche se ufficialmente non se ne sa nulla; quindi, citando queste tre città, Gesù intende dire che Lui sa ciò che non sappiamo e che il suo giudizio è perfetto, messaggio diretto soprattutto a noi che, appunto, di Corazìn non ignoriamo tutto. Se Gesù non l’avesse nominata, non sapremmo della sua esistenza a meno di non essere archeologi, storici o “addetti ai lavori”. Capernaum, Betsaida e Corazìn allora rappresentano il tutto, non solo un’area geografica precisa, definita, come intese chi ascoltò Nostro Signore allora. Queste tre città sono un riferimento e le parole di Gesù sono un atto d’accusa verso tutti quei centri abitati che, nonostante il Vangelo sia annunciato in un modo o in un altro – ma comunque annunciato – lo respingono. Certo ai tempi delle tre città il miracolo, per la mentalità di allora e il fatto che le profezie dovevano adempiersi, era teoricamente per molti una condizione basilare per poi credere, ma oggi, parlando il Vangelo comunque al cuore e rivelando lo spirito delle persone, fa le stesse cose, per quanto con manifestazioni differenti.

Ma l’atto di accusa, il messaggio agli abitanti delle tre città non si ferma qui: Gesù condanna la durezza del cuore dei loro abitanti chiamando in causa altri luoghi la cui immoralità era nota, Sodoma più di tutte. È giusto sottolineare che il vero peccato di Capernaum, Betsaida e Chorazìn non fu il non aver creduto, ma l’indifferenza a fronte di tutto quanto era stato in loro detto e operato, del prendere atto senza cambiare nulla.

Venendo ora a Tiro e Sidone, tralasciando le profezie dell’Antico Patto sulla prima, basta ricordare che erano note per la loro idolatria e libertinaggio. Era particolarmente sentito il culto ad Astarte, la dea della fertilità alla quale purtroppo lo stesso Salomone, ormai corrotto, aveva edificato degli altari.

Ora Gesù, con questo secondo gruppo di città, fa una distinzione affermando in pratica che, parlando della responsabilità di fronte a Dio, è preferibile una vita nell’ignoranza sulle esigenze del Creatore piuttosto che rimanere indifferenti e proseguire per la propria strada una volta averlo incontrato. Come quindi ha dei gradi la positività, vista nel portare frutto in un trenta, sessanta o cento, altrettanto avviene per la negatività dove sarà la coscienza di ciascuno a giudicare, condannare o attenuare la pena sempre secondo le parole di Nostro Signore in Luca 12.47,48: “Il servo che, conoscendo la volontà del padrone, non avrà disposto o agito secondo la sua volontà, riceverà molte percosse; quello invece che, non conoscendola, avrà fatto cose meritevoli di percosse, ne riceverà poche”.

Tornando un attimo a Capernaum, per contrasto, l’interrogativo “sarai forse innalzata fino al cielo?” è una demolizione del concetto campanilistico dei suoi abitanti – che abbiamo visto pretendevano di averlo in esclusiva –, dell’equazione “abbiamo Gesù, quindi meritiamo ogni onore”. “Precipiterai fino agli inferi” è la risposta, mentre Sodoma, se fosse stata testimone degli eventi verificatisi a Capernaum, esisterebbe ancora e gli abitanti di Tiro e Sidone, “vestiti di sacco e cosparsi di cenere”, si sarebbero convertiti, là dove il “sacco” era il nome che si dava a un tessuto di peli di capra e di cammello corrispondente al “cilicium” romano, così chiamato perché realizzato con tessuto da capre della Cilicia. A quel tempo gli ebrei, in tempi di lutto e profonda umiliazione, portavano una veste di quel tessuto, senza maniche, quasi come un sacco, serrato ai fianchi con una corda. A volte si cospargevano il capo con cenere o terra (Daniele 9.3; Nehemia 9.1) o si mettevano addirittura seduti su di esse (2 Samuele 13.19; Salmo 102.9; Giona 3.6).

Abbiamo quindi, nei termini “sacco e cenere” le espressioni esteriori del cordoglio, certamente reali e non messe in atto per avere quel premio fittizio che di fatto ottenevano i Farisei e di cui abbiamo parlato in uno studio precedente meditando le parole “questo è il premio che ne hanno” a cui fa da contrappunto il “Ma tu”.

Possiamo ricordare, per quanto non nominata da Gesù, ma a completamento del nostro discorso, la Ninive di cui si parla in Giona: in cui leggiamo in 1.2 l’ordine che aveva ricevuto: “Alzati, va’ a Ninive, la grande città, e in essa proclama che la loro malvagità è salita fino a me”. Alla successiva predicazione del profeta che le annunciava la sua distruzione, leggiamo “I cittadini di Ninive credettero a Dio– non a Giona – e bandirono un digiuno, vestirono il sacco, grandi e piccoli. Giunta la notizia fino al re di Ninive, egli si alzò dal trono, si tolse il manto, si coprì di sacco e si mise a sedere sulla cenere. Per ordine del re e dei suoi grandi fu poi proclamato a Ninive questo decreto: «Uomini e animali, armenti e greggi non gustino nulla, non pascolino, non bevano acqua. Uomini e animali si coprano di sacco e Dio sia invocato con tutte le forze; ognuno si converta dalla sua condotta malvagia e dalla violenza che è nelle sue mani. Chi sa che Dio non cambi, si ravveda, deponga il suo ardente sdegno e noi non abbiamo a perire». Dio vide le loro opere, che cioè si erano convertiti dalla loro condotta malvagia, e Dio si ravvide riguardo al male che aveva minacciato di fare loro e non lo fece”.

Purtroppo, la parte conclusiva del discorso di Gesù sulle città che rifiutano di convertirsi è devastante: “nel giorno del giudizio, la terra di Sodoma sarà trattata più duramente di te!”, parole che non sono pronunciate in preda all’ira o a un sentimento temporaneo di ostilità come potrebbe accadere a un essere umano, ma di verità che riguardano tutti coloro che non si ravvedono anche oggi, con l’obiettivo dell’incontro con il Padre. Amen.

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06.04 – QUESTA GENERAZIONE (Luca 7.31-35)

6.04 – Questa generazione (Luca 7.31-35)

31A chi dunque posso paragonare la gente di questa generazione? A chi è simile? 32È simile a bambini che, seduti in piazza, gridano gli uni agli altri così: «Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato, abbiamo cantato un lamento e non avete pianto!». 33È venuto infatti Giovanni il Battista, che non mangia pane e non beve vino, e voi dite: «È indemoniato». 34È venuto il Figlio dell’uomo, che mangia e beve, e voi dite: «Ecco un mangione e un beone, un amico di pubblicani e di peccatori!». 35Ma la Sapienza è stata riconosciuta giusta da tutti i suoi figli».”.

            Il testo che abbiamo letto costituisce la seconda parte di un discorso tenuto da Gesù alla folla dopo che i discepoli del Battista se ne andarono. Ora per capire meglio la parabola dei bambini e le parole successive, va tenuto presente il verso 30, “Ma i farisei e i dottori della Legge, non facendosi battezzare da lui, hanno reso vano il disegno di Dio su di loro” che dà a Nostro Signore l’occasione per delle considerazioni amare sulla “gente di questa generazione” che indica proprio quanti, tra il popolo, non solo non riconoscevano in Lui il Cristo, ma non accettavano neppure Giovanni come “l’Elia che doveva venire” nonostante tutti i riferimenti di cui potevano disporre andando ad indagare nelle loro Scritture. Come qualificare quel comportamento? Questa volta non ci sono invettive, manca il proferimento di “guai”, ma un’amara constatazione: quella generazione, che aveva il privilegio di poterlo vedere, conoscere ed ascoltare, viene paragonata a dei bambini capricciosi e malmostosi cui nulla va bene e che respingono qualunque iniziativa.

È qui importante raccordare il racconto di Luca con quello di Matteo: il primo scrive “gridano gli uni agli altri”, il secondo “stanno seduti in piazza e, rivolti ai loro compagni, gridano”. Alla fine, poi, Matteo scrive “La Sapienza è stata riconosciuta giusta per le opere che essa compie”, Luca “Ma la Sapienza è stata riconosciuta giusta da tutti i suoi figli”. L’atteggiamento infantile, in quanto tale naturale tipico nei bambini, lo è molto meno in età adulta quando dovrebbero essere stati sviluppati il senso critico e di valutazione obiettiva delle cose: questi bambini capricciosi, ma adulti, si erano così trincerati dietro scuse e comode valutazioni di cui leggeremo più volte, ad esempio quando accuseranno Gesù di cacciare i demoni con l’aiuto del loro principe.

Teniamo presente chi era Giovanni, per quello che era noto allora: si era presentato al popolo con le migliori credenziali perché era discendente da una famiglia di sacerdoti, aveva vissuto nel deserto rifiutando fin dalla giovane età il cibo comodo (il pane) e il vino che inebriava. Ebbene, Giovanni sarebbe stato stimato e rispettato se solo non avesse invitato il popolo al ravvedimento, cioè a mettere in discussione i loro pensieri e azioni facendo emergere tutto il sistema di peccato in cui vivevano. E sappiamo che per rimediare il peccato, a quel tempo, c’erano già i sacrifici, i sacerdoti, tutta un’organizzazione religiosa che già provvedeva a riparare – secondo loro – un rapporto incrinato con Dio. Loro, che si ritenevano giusti, non avevano trovato scusa migliore se non quella di dare a Giovanni dell’indemoniato. Teniamo presente che Farisei, Scribi e Dottori della Legge, erano granitici su un punto che troviamo, tra gli altri, in Giovanni 5.45-47: “Non crediate che sarò io ad accusarvi davanti al Padre; vi è già chi vi accusa: Mosè, nel quale riponete la vostra speranza. Se infatti credeste a Mosè, credereste anche a me, perché egli ha scritto di me. Ma se non credete ai suoi scritti, come potrete credere alle mie parole?”. Ecco ancora una volta il preconcetto, l’agire senza intelligenza, dando per scontato che sia sufficiente un impegno apparentemente morale sostenuto da una lettura e studio privo di spirito pur di definirsi credenti. E sì che Mosè aveva scritto “Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me. A lui darete ascolto” (Deuteronomio 18.15), là dove quel “pari a me” indica la funzione di guida perché così come Mosè avrebbe condotto il popolo fino alla terra promessa, allo stesso modo Gesù li avrebbe guidati verso il Padre in quel regno eterno preparato per loro.

Ed ecco tornare i bambini capricciosi adulti, che si aggrappano a qualunque pretesto pur di non partecipare alla vita degli altri, molto più semplici e spontanei: se la “generazione” di cui Gesù parla non gli credeva, era perché nel suo intimo non credeva neppure a quella Legge che tanto dichiaravano di osservare, essendo “un pedagogo che conduce verso Cristo” essendo Lui il suo fine.

Da notare il parallelismo che possiamo fare tra questi bambini oscuri e gli altri, che le hanno provate tutte pur di coinvolgerli, perché ci sono dei “piccoli” di cui è il regno dei cieli: “In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli” (Matteo 18.3). Non è un inno alla ingenuità, ma alla condizione di dipendenza naturale e di fiducia che un bambino nutre nei confronti dei o di un genitore col quale si sente al sicuro. È l’apostolo Paolo a spiegare cosa significhi essere veri “bambini” quando scrive “Fratelli, non comportatevi da bambini nei giudizi; siate come bambini quanto a malizia, ma uomini maturi quanto ai giudizi” (1 Corinti 14.20). Positività e negatività dell’essere infantile, positività e negatività dell’essere adulti.

Abbiamo visto la parabola dei bambini nelle piazze e le scuse del popolo per non credere al Battista dandogli dell’indemoniato, ma con Gesù non sono da meno: si attaccano al fatto che lui mangi e beva addirittura coi “pubblicani e coi peccatori”, termine questo che allude a tutti coloro che non appartenevano alla loro casta e non necessariamente a persone dedite al vizio. Ecco che l’essere dei bambini capricciosi si raccorda all’adulto schiavo dei suoi preconcetti, pronto al reperimento di qualunque scusa pur di non cedere di fronte all’immagine di se stesso che si è creata, cui si affianca la ferrea volontà di restare fermo sulle sue convinzioni. Ma rimanere fermi è impossibile perché, in realtà, si arretra sempre. Come uomini possiamo soltanto andare avanti o indietro, migliorare o peggiorare, crescere o regredire.

È bello per me considerare la positività del crescere, che ha dei sinonimi molto positivi quali “svilupparsi, migliorare, maturare, prosperare, germogliare, attecchire, fiorire” e la negatività del suo contrario: “aggravarsi, deteriorarsi, guastarsi, inasprirsi, precipitare, rovinarsi”. Leggerli tutti assieme credo renda molto bene l’idea delle conseguenze cui va incontro tanto chi va avanti, quanto chi crede di rimane fermo. E migliorarsi, per un credente, non dovrebbe essere cosa difficile, vivendo davanti a Cristo che ha dato la sua vita per lui e lo invita continuamente a un cammino in cui non lo lascia mai solo. Siamo noi che a volte ci dimentichiamo di Lui, mai il contrario.

E tornando al rimanere fermi manca l’inacidimento, quel “rancido del cuore” di cui parlava un amico: il guardare costantemente in basso, alla terra, porta l’essere umano all’insoddisfazione perenne che causa un comportamento simile a quello che quella “generazione” – non tutti – aveva nei confronti del Battista e di Gesù. È l’attaccamento alla terra che spinge l’uomo a non voler vedere il Dio che lo cerca. È l’attaccamento alla terra che porta l’umiliazione come frutto. È l’attaccamento alla terra che ci fa agitare, spaventare, gettare nel panico nel momento in cui quelli che riteniamo essere dei nostri punti fermi, vacillano per motivi più o meno gravi. Ma ancora ben più grave è quell’attaccamento alla terra che ci impedisce di credere, di cercare Gesù Cristo e di accoglierlo. Anche oggi c’è chi Lo nega a priori non solo in quanto Figlio di Dio, ma andando a minarne anche la sua esistenza storica. Qui l’attaccamento alla terra si fa dottrina, motivo di orgoglio umano senza accorgersi che in realtà si sta professando una fede, per quanto opposta. Al contrario, vediamo il cammino, la progressione, in 1 Corinti 1.30, “…voi siete in Cristo Gesù, il quale per noi è diventato sapienza per opera di Dio, giustizia, santificazione e redenzione”.

Proseguendo nel testo, vediamo che il verso 35 inizia con un “Ma”. A fronte di tutti i ragionamenti che adulti maliziosi con problemi non solo spirituali, ma di mancato sviluppo di personalità, portano avanti e sui quali si arroccano, basta un monosillabo a liquidarli. “Ma la sapienza è stata riconosciuta giusta da tutti i suoi figli”. Si può fare e dire, chiamare in causa l’arte più sottile del ragionamento, la razionalità, il calcolo, la scienza che a volte dice la verità e a volte bara pur di dimostrare ciò che non può , “MA” c’è la Sapienza, una sola, che viene “riconosciuta giusta” non da tutti, ma da chi le appartiene. Inutile contendere, inutile spiegare, ostacolare, resistere, lasciarsi coinvolgere in discussioni accademiche o da bar poco importa: la sapienza è. Esiste perché senza di Lei il mondo non potrebbe mai essere stato creato e vediamo che inevitabilmente arriviamo a Gesù Cristo, al Cristo che Salomone descrive nel libro dei Proverbi in cui, se sostituiamo “Sapienza” a Lui, ne vediamo effetti e conseguenze.

Consoni e a conclusione di queste riflessioni possiamo riportare i versi da 20 a 33 del capitolo primo: “La Sapienza grida per le strade, nelle piazze fa udire la sua voce; nei clamori della città essa chiama, pronuncia i suoi detti alle porte della città: «Fino a quando, o inesperti, amerete l’inesperienza e gli spavaldi si compiaceranno delle loro spavalderie e gli stolti avranno in odio la scienza? Tornate alle mie esortazioni: ecco, io effonderò il mio spirito su di voi e vi manifesterò le mie parole. Perché vi ho chiamati ma avete rifiutato, ho steso la mano e nessuno se ne è accorto. Avete trascurato ogni mio consiglio e i miei rimproveri non li avete accolti. Anch’io riderò delle vostre sventure, mi farò beffe quando su di voi verrà la paura, quando come una tempesta vi verrà addosso il terrore, quando la disgrazia vi raggiungerà come un uragano, quando vi colpiranno angoscia e tribolazione. Allora mi invocheranno, ma io non risponderò, mi cercheranno, ma non mi troveranno. Perché hanno odiato la sapienza e non hanno preferito il timore del Signore, non hanno accettato il mio consiglio e hanno disprezzato ogni mio rimprovero. Mangeranno perciò il frutto della loro condotta e si sazieranno delle loro trame. Sì, lo smarrimento degli inesperti li ucciderà e la spensieratezza degli sciocchi li farà perire. Ma chi ascolta me vivrà in pace e sarà sicuro senza temere alcun male»”.

Sono parole importanti, ben lontane da quelle apparentemente sagge dei cosiddetti “amici” di Giobbe perché qui non c’è un vuoto elogio del “timor di Dio” con frasi fatte e i luoghi comuni tipici dei tempi antichi, ma una serie di avvertimenti che riguardano gli stolti spirituali: la sapienza chiama “nei clamori della città” perché qui c’è l’invito a non seguire la maggioranza, non adattarsi ai suoi costumi, cercare sempre ciò che è al tempo stesso sopra e oltre. Chi segue la sapienza “vivrà in pace e sarà sicuro senza temere alcun male” a differenza di quelli che non l’avranno voluta ascoltare, per i quali abbiamo descrizioni molto dure e amare: paura, terrore, disgrazia, angoscia e tribolazione, di fronte alle quali non vi sarà alcun soccorso. I motivi sono due, l’uno la conseguenza dell’altro, che abbiamo trovato proprio nella scorsa lettura del Vangelo quando Gesù ha parlato del rendere vano il piano di Dio: “hanno odiato la sapienza e non hanno preferito il timore del Signore, non hanno accettato il mio consiglio e hanno disprezzato ogni mio rimprovero”.

Ognuno di noi mangerà il frutto della propria condotta, in bene o in male. Chi è “figlio della Sapienza” non è un orgoglioso, non s’impone, non fa “suonare la tromba davanti a sé”; al contrario, chi è figlio della sapienza umana, farà di tutto per apparire, guidare, gridare, ottenendo il seguito di chi ha bisogno di un capo, di un modello, di aderire a qualcosa per essere qualcuno. Salomone, addirittura, sapeva di un mondo futuro con il quale tutti i personaggi negativi che abbiamo visto non avrebbero avuto parte alcuna: “…in tal modo tu camminerai sulla strada dei buoni e rimarrai nei sentieri dei giusti; perché gli uomini retti abiteranno nel paese e gli integri vi resteranno. I malvagi invece saranno sterminati dalla terra e i perfidi ne saranno sradicati” (Proverbi 2.20-22).

MA la Sapienza è stata riconosciuta giusta da tutti i suoi figli”, sono le parole con le quali Gesù conclude il suo ragionamento alla folla riunita. Anche qui c’è un dato di fatto visto nei figli che la riconoscono, ma anche del richiamo, come già avvenuto sul monte, a parole che proprio quei Farisei e Dottori della Legge che lo ostacolavano in ogni modo, avrebbero dovuto conoscere ed esaminare: quelle del libro dei Proverbi che abbiamo citato e che alla Sapienza dedica i primi capitoli, per non dire tutto.

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