06.03 – L’AMBASCIATA DI GIOVANNI BATTISTA (Luca 7.18-30)

6.03 – L’ambasciata di Giovanni (Luca 7.18-30)

 

18Giovanni fu informato dai suoi discepoli di tutte queste cose. Chiamati quindi due di loro, Giovanni 19li mandò a dire al Signore: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?». 20Venuti da lui, quegli uomini dissero: «Giovanni il Battista ci ha mandati da te per domandarti: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?»». 21In quello stesso momento Gesù guarì molti da malattie, da infermità, da spiriti cattivi e donò la vista a molti ciechi. 22Poi diede loro questa risposta: «Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordiodono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciata la buona notizia. 23E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!».
24Quando gli inviati di Giovanni furono partiti, Gesù si mise a parlare di Giovanni alle folle: «Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento? 25Allora, che cosa siete andati a vedere? Un uomo vestito con abiti di lusso? Ecco, quelli che portano vesti sontuose e vivono nel lusso stanno nei palazzi dei re. 26Ebbene, che cosa siete andati a vedere? Un profeta? Sì, io vi dico, anzi, più che un profeta. 27Egli è colui del quale sta scritto:

Ecco, dinanzia te mando il mio messaggero,davanti a te egli preparerà la tua via.
28Io vi dico: fra i nati da donna non vi è alcuno più grande di Giovanni, ma il più piccolo nel regno di Dio è più grande di lui. 29Tutto il popolo che lo ascoltava, e anche i pubblicani, ricevendo il battesimo di Giovanni, hanno riconosciuto che Dio è giusto. 30Ma i farisei e i dottori della Legge, non facendosi battezzare da lui, hanno reso vano il disegno di Dio su di loro.
”.

 

Con questo episodio, ma in realtà anche nel precedente della resurrezione del figlio della vedova di Nain, inizia quello che definisco il “tratto incerto” di quella linea cronologica che ho voluto dare alla mia lettura dei Vangeli. Abbiamo infatti una serie di episodi, miracoli e insegnamenti il cui ordine non può essere stabilito con certezza a differenza di quanto avvenuto col periodo dell’infanzia di Gesù. Credo che, con la lettura che ho fin qui dato, dopo il miracolo a Nain Nostro Signore fosse rientrato a Capernaum perché altrimenti i discepoli del Battista difficilmente lo avrebbero potuto rintracciare.

Dal verso 18 acquisiamo un primo dato, cioè il rapporto tra Giovanni ed Erode Antipa che, pur tenendolo prigioniero, gli consentiva di ricevere delle visite. Nel Vangelo ci sono diversi passi che ci parlano dell’atteggiamento di questo “re” verso il Battista, che approfondiremo meglio nell’episodio della sua decapitazione; Giovanni rimproverava Erode (anche pubblicamente?) per la sua condotta adultera e al tempo stesso incestuosa (aveva sposato la moglie di suo fratello Filippo, vivente) proibita dalla legge di Mosè: Levitico 18.16 infatti recita “Non scoprirai la nudità della moglie di tuo fratello: è la nudità di tuo fratello”, e 20.10 “Se uno commette adulterio con la moglie del suo prossimo, l’adultero e l’adultera dovranno essere messi a morte”). Per questo Marco scrive “Erode aveva mandato a prendere Giovanni e l’aveva messo in carcere” (6.17) non appena, come abbiamo già visto e vedremo, era entrato nel suo territorio. Accanto a questo forte risentimento, sappiamo che “…lo temeva, sapendolo uomo giusto e santo” (19,20). In più “vigilava su di lui. Nell’ascoltarlo restava molto perplesso, tuttavia lo ascoltava volentieri” (20,21).

Si possono allora spendere due parole su Erode, che da un lato voleva far morire chi lo rimproverava e dall’altro lo temeva riconoscendogli giustizia e santità. Quando lo ascoltava, poi, si mescolavano perplessità e curiosità, essendo superstizioso e convinto che il potere umano che aveva sugli uomini, gli desse il diritto di disporre di tutto e di tutti. Antipa, per la posizione sociale che ricopriva, era convinto di essere un intoccabile, da Dio compreso, e che i rimproveri e le altre verità dettegli da Giovanni passassero in secondo piano di fronte alla sua persona. Come molti oggi, convinti di avere una libertà che non esiste.

Veniamo ora a Giovanni e alla domanda che inviò a Gesù tramite i suoi discepoli, due e non uno perché la testimonianza del singolo non era ritenuta valida (Deuteronomio 17.6): poteva dubitare il prigioniero di Erode della missione di chi aveva battezzato, dopo aver visto lo Spirito Santo scendere su di lui in forma di colomba e dopo tutto il periodo passato nel deserto istruito sulla sua funzione di precursore del Messia? Credo che il messaggio “Sei tu quello che deve venire, o ne dobbiamo aspettare un altro?” esprima certamente un dubbio, ma riveli tutta l’umanità del Battista che aveva annunciato, e annunciava ancora parlando in carcere e con Erode, Gesù come Messia. In pratica Giovanni, proprio come uomo, non aveva rinunciato all’idea di un Liberatore anche umano. Quindi da un lato Giovanni come profeta sapeva che Gesù era il Messia che aveva presentato alle folle sulle rive del Giordano, ma l’uomo che era in lui trovava difficile rapportare ciò che era la sua conoscenza del Messia con i dati che di lui gli giungevano in cella e che i suoi discepoli gli rapportavano. In poche parole con quella domanda Giovanni non voleva dire che temeva di essersi sbagliato presentando Gesù alla folla come “L’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo”, ma gli esprime i suoi dubbi in relazione all’idea che si era fatta di Lui, comune a tanti, del Re trionfante che avrebbe portato Israele (e quindi i suoi profeti, lui compreso) alla vittoria sulla terra. Giovanni, in prigione, sperava in manifestazioni eclatanti che lo togliessero da quella condizione di indubbia sofferenza nella quale versava e si chiedeva perché Erode non fosse ancora stato sconfitto. I suoi discepoli, visitandolo, gli portavano notizie di un Messia che girava per il territorio predicando e facendo miracoli, ma il dato obiettivo della vittoria sul peccato attraverso le guarigioni veniva messo in dubbio dal fatto che mancavano quelle grandi manifestazioni come ad esempio quella dell’esercito egiziano travolto dalle acque del mar Rosso, o una di quelle tante vittorie impossibili riportate da Israele sui suoi nemici di cui leggiamo nei libri storici; pensiamo solo a quella di Davide su Golia, episodio che tutti conoscono ancora oggi. Ricordiamo le parole di Giovanni 6.15 (“Gesù allora, sapendo che volevano prenderlo per farlo diventare re, se ne andò di nuovo verso la montagna, tutto solo”) che ci parlano di un re enormemente distante dal concetto umano.

Tornando al nostro episodio vediamo che a questo punto Nostro Signore non risponde subito a parole, ma agisce, rendendo i discepoli di Giovanni diretti testimoni dei fatti. L’incontro coi discepoli del Battista era evidentemente avvenuto all’aperto e forse in un intervallo tra un insegnamento e l’altro alla folla, infermi compresi. In quell’occasione Gesù prima guarì molti da malattie, presumo di vario genere fisiche e molte mentali, e poi lasciò ai discepoli il messaggio che leggiamo al verso 22 aggiungendo “E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo”, proprio perché sappiamo che il Cristo lo sarebbe stato, rappresentando quella famosa “pietra di inciampo” di cui parla Isaia 28.16 “Ecco, io pongo in Sion una pietra d’inciampo e una roccia di scandalo, ma chiunque crede in lui non sarà svergognato”. C’è quindi chi cade, ma c’è chi attraverso di lui vive.

Analizziamo meglio le parole di Gesù a Giovanni, che gli ricordano amorevolmente ciò che già sapeva, ma che la sua preoccupazione e la privazione della libertà iniziavano a far vacillare senza far venir meno la sua funzione; i miracoli che venivano fatti stavano a ricordare parte del contenuto di Isaia 35 che traccia una successione di eventi destinati a realizzarsi nei secoli e non subito, poiché il piano di Dio, prima di compiersi, richiede che il numero dei suoi eletti sia compiuto: “Dite agli smarriti di cuore: Coraggio, non temete! Ecco il vostro Dio, giunge la vendetta, la ricompensa divina, Egli viene a salvarvi. Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno le orecchie dei sordi. Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto, perché scaturiranno acque nel deserto, scorreranno torrenti nella steppa. La terra bruciata diventerà una palude, il suolo riarsi sorgenti d’acqua. I luoghi ove si sdraiavano gli sciacalli diventeranno canneti e giuncaie. Ci sarà un sentiero e una strada e la chiameranno via santa; nessun impuro la percorrerà. Sarà una via che il suo popolo potrà percorrere e gli ignoranti non si smarriranno. Non ci sarà più il leone, nessuna bestia feroce la percorrerà o vi sosterà. Vi cammineranno i redenti. Su di essa ritorneranno i riscattati dal Signore e verranno in Sion con giubilo; felicità perenne splenderà sul loro capo; gioia e felicità li seguiranno e fuggiranno tristezza e pianto”. Ecco, di queste parole Giovanni credeva si realizzassero anche gli ultimi versi, quelli che gli avevano fatto sorgere delle domande importanti, ma Gesù gli ricorda che prima di manifestarsi come vittorioso su ogni cosa, veniva il tempo per la guarigione dei ciechi, dei sordi, degli zoppi, dell’avvenire e speranza che sarebbe stato dato a tutti quanti avrebbero creduto in lui nei secoli.

Da non sottovalutare neppure la frase “ai poveri è annunciata la buona notizia”, cioè il Vangelo: ecco perché sono “beati i poveri” di cui abbiamo tanto parlato nelle riflessioni passate. Anche qui Nostro Signore fa qualcosa che era stato predetto da Isaia e che solo Lui poteva fare: “Lo Spirito del Signore Dio– quello visto da Giovanni in forma di colomba – è sopra di me, perché il Signore– non il popolo o un sommo sacerdote – mi ha consacrato con l’unzione; mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri”. Giovanni pensava probabilmente di venire liberato da Gesù, non tenendo presente che veniva prima la liberazione dei prigionieri del peccato.

Dobbiamo fare quindi molta attenzione a non scambiare Giovanni Battista per un incredulo, tenendo sempre presente la funzione e la definizione stessa che Nostro Signore dà di lui proprio in questo episodio: “Tra i nati di donna non sorse mai nessuno maggiore di Giovanni Battista, ma il minimo nel regno dei cieli è maggiore di lui”. Perché? L’essere “maggiori” qui non ha nulla a che vedere col premio, ma con la dispensazione della Legge paragonata a quella della Grazia, così diverse tra loro. Dobbiamo ricordare che nella Grazia non siamo più servi, ma figli. Che le tenebre sono passate e già risplende la vera luce. Che la presenza dello Spirito Santo è data a tutti, a patto che non lo contristino. Tutti temi importanti che se ci sarà concesso esamineremo.

I discepoli di Giovanni, dimostrando di aver recepito il messaggio, partirono alla volta della fortezza in cui il loro maestro era rinchiuso. Il fatto Gesù che avesse parlato del Battista in pubblico, gli diede l’occasione non solo di pronunciare la frase sulla posizione spirituale diversa che hanno gli appartenenti alle due dispensazioni, ma di chiarire il ruolo dello stesso: non una “canna dimenata dal vento”, cioè un isolato abbandonato a se stesso, non “un uomo vestito con abiti di lusso”, cioè un cortigiano. Con questi due paragoni il Cristo afferma allora che il Battista non era una persona di cui non ci si potesse fidare, avente un comportamento come quello della canna al vento, volta ora di qua ora di là e neppure come quello di un cortigiano, da sempre disposto ad assecondare gli umori del proprio re e ad adularlo ipocritamente, attento a non perdere il proprio ruolo. Anzi, chi era andato ad ascoltarlo e a farsi battezzare, si era presentato addirittura ad uno che era “più che un profeta”. Un bell’elogio del Precursore che, se avesse peccato di incredulità, non sarebbe mai stato fatto.

Al contrario, con la domanda “Sei tu quello che deve venire, o dobbiamo aspettarne un altro?”, Giovanni si qualifica semplicemente come un uomo di Dio colto da un dubbio sorto in base ad osservazioni che chiunque nella dispensazione della Legge avrebbe fatto. E qui sta uno degli aspetti secondo cui il minimo nel regno dei cieli è a lui maggiore: non si tratta di importanza, ma di posizione, di prospettive differenti, di visuale maggiore che ogni credente può avere perché accettare Gesù, nonostante quel che si dica, non è semplice. Altrimenti non sarebbe una beatitudine, come dalle parole “Beati coloro che non hanno visto e hanno creduto” (Giovanni 20.29).

A questo punto il racconto di Luca differisce da quello di Matteo nelle parole finali, che però si raccordano perfettamente tra loro: “Dai giorni di Giovanni Battista fino ad ora, il regno dei cieli subisce violenza e i violenti se ne impadroniscono. Tutti i profeti e la Legge infatti hanno profetato fino a Giovanni. E, se volete comprendere, è lui quell’Elia che deve venire. Chi ha orecchi, ascolti” (11.12-15). Qui si parla di “subire violenza” e di “violenti” che, se guardiamo al termine come letterale, rendono il verso impossibile a meno che si tratti di insistenza e sforzo, quello che abbiamo visto nell’invito “sforzatevi di entrare per la porta stretta”. Non a caso il verbo greco qui impiegato parla di forza ed è utilizzato nella versione dei LXX anche in Genesi 33.11: “Così quegli insistette, ed egli accettò”. È un concetto che nel Vangelo compare molte volte.

Dopo questo, Gesù passa a indicare in Giovanni “Elia che doveva venire”, non il Tisbita che tutti aspettavano e cui alludevano quando gli chiesero se fosse Elia, ricevendo risposta negativa (Giovanni 1.21), ma quello indicato da Malachia in 4.5 “Ecco, io vi mando Elia, prima che venga quel grande e spaventevole giorno del Signore” quindi colui che avrebbe preparato la strada al Messia battezzando sulle rive del Giordano.

Di Luca restano i versi 29 e 30 che ci parlano di personaggi agli antipodi: da una parte abbiamo il popolo che ascoltava Giovanni con i pubblicani; questi, facendosi battezzare, riconoscevano che Dio era giusto a differenza di loro stessi, ma dall’altra quelli che avrebbero dovuto gioire più di tutti, i Farisei e i Dottori della Legge, che lo disprezzarono rendendo “vano il disegno di Dio su di loro”, espressione ben più grave che va oltre la semplice opinione, con superficialità non degno di attenzione. Quel “rendere vano” è un oltraggio, un atto cosciente, è un costringere Dio a prendere provvedimenti di esclusione dai suoi piani. Anche oggi sono davvero tanti quelli che si comportano allo stesso modo, rifiutando il messaggio di Cristo perché vogliono sopravvivere, restare nel loro sistema di vita, grande o piccolo, importante o insignificante non importa. Senza sforzarsi, impegnarsi, chiedersi “le ragioni della loro origine e fine” o impostare un metodo per affrontare un giorno l’eternità. C’è un disegno di Dio per ogni essere umano, che contempla la vita eterna, il bando definitivo dell’umiliazione, come abbiamo letto nei versi di Isaia all’inizio: “Gioia e felicità li seguiranno, fuggiranno tristezza e pianto”. Credo che sia contro l’interesse dell’uomo non affrontare questo problema, perché sappiamo che, là dove non ci sarà gioia, si troverà il “pianto e lo stridore dei denti”. Amen.

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06.02 – IL FIGLIO DELLA VEDOVA DI NAIN (LUCA 7.1-17)

6.02 – Il figlio della vedova di Nain (Luca 7.1-17)

11In seguito Gesù si recò in una città chiamata Nain, e con lui camminavano i suoi discepoli e una grande folla. 12Quando fu vicino alla porta della città, ecco, veniva portato alla tomba un morto, unico figlio di una madre rimasta vedova; e molta gente della città era con lei. 13Vedendola, il Signore fu preso da grande compassione per lei e le disse: «Non piangere!». 14Si avvicinò e toccò la bara, mentre i portatori si fermarono. Poi disse: «Ragazzo, dico a te, àlzati!». 15Il morto si mise seduto e cominciò a parlare. Ed egli lo restituì a sua madre. 16Tutti furono presi da timore e glorificavano Dio, dicendo: «Un grande profeta è sorto tra noi», e: «Dio ha visitato il suo popolo». 17Questa fama di lui si diffuse per tutta quanta la Giudea e in tutta la regione circostante.”.

È solo Luca a riportare quest’episodio collocandolo qualche tempo dopo il miracolo della guarigione del servo del centurione. “In seguito”, con cui il verso 11 inizia, è letterale dal greco, è stato tradotto da altri con “il giorno dopo”; fatto sta che Gesù, nella sua onniscienza, decise di partire da Capernaum affrontando un cammino di otto-nove ore per raggiungere Nain, fino ad allora anonimo villaggio a Sud-Ovest, dove giunse verso sera, ora alla quale si portavano a seppellire i morti. Chi vuole cercare di leggere i Vangeli in modo cronologico, si trova comunque a dover affrontare un problema perché non è possibile quantificare quel “in seguito” e c’è chi ipotizza che il miracolo di questa resurrezione sia avvenuto in un altro periodo, cioè dopo che gli apostoli furono mandati in missione per le città della Galilea. Matteo, infatti, scrive in proposito che “Dopo che Gesù ebbe finito di dare disposizioni ai suoi dodici discepoli, se ne andò di là per insegnare e predicare nelle loro città” (11.1) per cui, se si accetta questa tesi, i “discepoli” di cui si parla in questo episodio furono altri e non i dodici. Sempre Matteo, proprio dopo questo verso, riporta l’ambasciata di Giovanni Battista che, prigioniero nel Macheronte, gli inviò due suoi discepoli a dirgli “Sei tu colui che deve venire, o dobbiamo aspettarne un altro?”.

Venendo al nostro testo la prima osservazione che possiamo fare è proprio su quanti lo seguivano: facevano questo senza sapere dove Gesù li avrebbe portati e cosa avrebbe detto. Penso che dei semplici curiosi, o gente animata dallo stesso desiderio di Erode di cui è scritto che “sperava di vedere qualche miracolo fatto da lui”(luca 22.8), si sarebbero stancati presto. Quelle persone lo seguivano certe che avrebbero avuto, presto o tardi, un insegnamento o visto cose che li avrebbero confortati, rincuorati, dato loro degli elementi per essere testimoni, vivere come parte integrante del piano di Dio. Un semplice curioso, alla luce del cammino da percorrere a piedi, come già rilevato, avrebbe presto desistito e preferendo tornarsene in città a Capernaum perché, tanto, cosa Gesù avrebbe fatto o detto se lo sarebbe potuto sempre far raccontare da altri. I presenti all’episodio dissero, “un gran profeta è sorto tra noi”, frase che denota non che quelli si fossero convertiti o avessero avuto un’illuminazione, ma che erano nella condizione di giungere alla Sua corretta conoscenza, se i loro cuori fossero stati aperti.

È così che, sul far della sera, abbiamo l’incontro del corteo della vita con quello della morte, oltre a quello di Gesù con lei che del peccato “è il salario” (Romani 6.23), cioè il suo risultato. Non così era quando, alla collocazione in Eden, l’essere umano era in origine progettato per essere eterno e santo come il suo creatore. Non può sfuggire, in questo episodio, che Nostro Signore interviene senza che alcuno glielo chieda, quasi fosse inevitabile che la sua presenza annullasse gli effetti della morte se solo avesse comandato all’anima di quel giovane di tornare in lui.

Ora la presenza di molte persone al corteo funebre, abbiamo letto “molta gente della città era con lei”, ci lascia pensare che il decesso di quel giovane lasciò molti colpiti e amareggiati essendo quella donna conosciuta. Nain era una città piccola e i presenti vollero esprimere il loro cordoglio alla vedova come meglio potevano, quasi a voler garantirle un sostegno morale per il periodo di solitudine che avrebbe dovuto affrontare, solidali con lei. Ma di più non potevano fare. Il dolore di quella vedova, la sua disperazione, trovava la sua prima spiegazione senz’altro nella perdita di quel giovane, che presumo non avesse ancora raggiunto la maggiore età (dodici – tredici anni per gli ebrei), ma anche nel fatto che il nome del marito si sarebbe estinto, visto che l’unico figlio avuto da lui era morto. E l’uomo che l’aveva sposata, evidentemente, non aveva un fratello che, secondo la legge data da Dio a Mosè, avrebbe dovuto occuparsi di lei prendendola in moglie. Ricordiamo le parole di Deuteronomio 25.5,6: “Se dei fratelli staranno insieme e uno di loro morirà senza lasciare figli, la moglie del defunto non si sposerà fuori, con uno straniero. Suo cognato verrà da lei e se la prenderà per moglie, compiendo così verso di lei il suo dovere di cognato; e il primogenito che lei partorirà porterà il nome del fratello defunto, affinché questo nome non sia estinto in Israele”.

I presenti al funerale, quindi, cercavano come meglio potevano di consolarla, se non altro con la loro muta presenza, per tutti quei pensieri che la straziavano.

E Gesù, che legge nei cuori e nelle menti degli uomini, che conosce la loro storia, “Ne ebbe grande compassione”, termine che, prima ancora di alludere a un sentimento comprensivo e soccorrevole verso uno stato penoso, è un termine che etimologicamente richiama a un “patire assieme”, a un’identificazione con chi soffre partecipando attivamente e concretamente al suo dolore. Possiamo dire che anche gli abitanti di Nain compativano quella donna, ma per quanto si condolessero con lei, non avrebbero potuto fare nulla per alleviarne la condizione. Dirle “Non piangere”, non avrebbe risolto proprio nulla, perché se l’essere umano può accettare la morte di un genitore come un fatto naturale, gestire il contrario credo sia molto più difficile, al di là della fede e del senso di realtà delle cose, benché sappiamo che dal momento in cui uno nasce può solo morire.

Il compatire di Nostro Signore, però, porta a una reazione risolutiva. Il suo “Non piangere” è diverso da quello che una persona avrebbe potuto dire a quella donna. E qui abbiamo una serie di parole e gesti assolutamente importanti: dopo l’invito a non piangere, si avvicinò e “toccò la bara”, non come le nostre, ma una tavola di legno dotata di bordo per non far cadere il cadavere, avvolto in lenzuola, durante il trasporto. Ebbene Gesù si avvicina, tocca la bara e parla dicendo “Ragazzo, dico a te, àlzati”. Si tratta di una situazione ben diversa rispetto a miracoli solo apparentemente analoghi operati dai profeti nell’Antico e Nuovo patto: le risurrezioni da loro prodotte furono sempre precedute da una preghiera, cioè quegli uomini di Dio furono degli strumenti nelle Sue mani per quel miracolo, ma non avevano in loro stessi, cioè per natura, nessuna autorità per farli, nessuna possibilità. I profeti pregarono perché la risurrezione avvenisse o furono informati da Dio su come fare per produrla, ma Gesù parla direttamente al ragazzo e gli ordina di alzarsi. “Dico a te”esattamente come ha detto a ciascuno di noi “mentre eravamo morti negli errori e nel peccato”e, come leggiamo in Efesi 5.19, “Svegliati, o tu che dormi, e Cristo ti inonderà di luce”. Non esiste Sua iniziativa che non produca un risultato.

Il “non piangere” detto a quella vedova conteneva quindi un perché, a differenza di quello che avrebbe potuto dire un uomo comune, che tuttavia sarebbe rimasto muto di fronte a una frase del tipo “dammi un motivo per non piangere”. In assenza di un intervento di Dio o del Suo aiuto l’uomo è e resterà sempre da solo. Quello che voleva dire Gesù alla vedova era: “non piangere perché ci sono io”, alludendo al pianto di disperazione che appartiene a chi non ha speranza, certezza di vita, esperienza provata di un incontro e di un cammino con lui.

Leggiamo che, dopo l’ordine di alzarsi, “il morto si mise seduto e cominciò a parlare, ed Egli lo restituì a sua madre”: Gesù usò quindi la Sua stessa parola, quella per cui “tutte le cose sono state create”e fu in grado di produrre l’impossibile, cioè il ritorno in vita di una persona deceduta, per quanto non da giorni come nel caso di Lazzaro. E di fronte a Lui è il tempo a soccombere.

L’importanza di questo miracolo è grandissima: fu è la seconda risurrezione prodotta (ricordiamo la figlia di Giairo), e quindi torna a parlarci del potere di Gesù collegato alle parole “Io sono il primo e l’ultimo, e il vivente. Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi”(Apocalisse 1.17,18). Con la resurrezione di questo giovane, il Cristo anticipa in un certo senso la propria annullando concettualmente la distanza tra un corpo morto di carne e lo spirito e l’anima che lo hanno abitata e che quindi tornano. Non è affatto poco, al di là dell’effetto che l’episodio di quel ragazzo ebbe sui presenti che dissero, superficialmente ma in base alle loro possibilità intellettive di allora, “Un grande profeta è sorto tra noi” e “Dio ha visitato il suo popolo”: Gesù in quest’episodio dimostra, al di là delle guarigioni effettuate su ogni male fisico e spirituale, di andare oltre, avendo le chiavi della vita e della morte a parte la sua persona, che risorgerà dopo tre giorni. In pratica dimostra la sua autorità totale, poiché non credo che ci sia, per quanto riguarda la nostra vita terrena, alcun punto più grande e fermo della morte che, orizzontalmente parlando, rappresenta la fine di tutto, il vero punto di non ritorno, idea che qui viene ribaltata. La risurrezione di quel giovane non fu contestata da nessuno, impossibile trovare una testimonianza discordante visto che avvenne alla presenza non solo degli abitanti di una cittadina di poco conto, ma di quanti erano al seguito di Gesù viste forse nei settanta discepoli, ma ancora di più da tutti coloro che provenivano dalle zone più svariate e che si erano messi a seguirlo, cioè la “folla”.

Se però vedessimo in questo miracolo unicamente una “buona azione” di Gesù per togliere un dolore praticamente importabile a quella donna, sbaglieremmo: fu dato un elemento importante di considerazione a tutti i presenti, e quindi anche a quelli che avrebbero letto come noi l’episodio. Fu data veridicità e garanzia di altre affermazioni che riguardano gli avvenimenti passati e futuri di cui leggiamo nella Bibbia; per il passato abbiamo, a parte le risurrezioni dei profeti, quel verso che si tende ad ignorare quando vengono descritti gli eventi che si succedettero alla morte della croce e che riporta “i sepolcri si aprirono e molti corpi dei santi, che dormivano, risuscitarono; e, usciti dai sepolcri, entrarono nella santa città e apparvero a molti” (Matteo 27.52,53).

Ma soprattutto, la resurrezione di quel giovane e di altri, assieme a quella di Gesù, rende veritiere, se ce ne fosse bisogno, le parole dell’apostolo Giovanni che, contemplando la visione dell’ultimo, definitivo Giudizio sull’umanità, scrive che “..il mare restituì i morti che esso custodiva e la morte e gli inferi resero i morti da loro custoditi e ciascuno venne giudicato secondo le sue opere. Poi la morte e gli inferi furono gettati nello stagno di fuoco. Questa è la seconda morte, lo stagno di fuoco” (Apocalisse 20.13,14). Il testo prosegue con un ultimo verso, al quale tutti coloro che non sono salvati dovrebbero prestare la massima attenzione: “E se qualcuno non fu trovato scritto nel libro della vita, fu gettato nello stagno di fuoco”.

La resurrezione del figlio della vedova di Nain, quindi, ci parla dell’amore di Gesù, che “Si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori” (Isaia 53.4) e che “fu per loro un salvatore in tutte le loro tribolazioni. Non un inviato né un angelo, ma egli stesso li ha salvati” (63.8.9). Al tempo stesso, è un episodio che attesta che, in futuro, c’è una resurrezione che attende tutti, in salvezza o in giudizio.

Leggiamo poi “Gesù lo diede a sua madre”. Avrebbe potuto ritenere conclusa la sua opera nel momento in cui il ragazzo si fosse svegliato, ma quel gesto di restituzione ebbe una valenza enorme: è una restituzione personale di un bene fino a poco prima perduto e che mai avrebbe potuto ritornare senza un suo intervento. A quella donna non solo, per quanto detto all’inizio, era stato restituito un figlio, ma la sopravvivenza, tanto importante, della sua progenie nel tempo, dell’identità sua e del marito che non c’era più.

E noi? Valgono le parole dell’apostolo Paolo “mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. A maggior ragione ora, giustificati per il suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui. Se infatti, quando eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto di più ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita” (Romani 5.8-109). Amen.

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06.01 – IL CENTURIONE DI CAPERNAUM (Luca 7.1-10)

6.01 – Il centurione di Capernaum (Luca 7.1-10)

Quando ebbe terminato di rivolgere tutte le sue parole al popolo che stava in ascolto, Gesù entrò in Cafàrnao. 2Il servo di un centurione era ammalato e stava per morire. Il centurione l’aveva molto caro. 3Perciò, avendo udito parlare di Gesù, gli mandò alcuni anziani dei Giudei a pregarlo di venire e di salvare il suo servo. 4Costoro, giunti da Gesù, lo supplicavano con insistenza: «Egli merita che tu gli conceda quello che chiede – dicevano -, 5perché ama il nostro popolo ed è stato lui a costruirci la sinagoga». 6Gesù si incamminò con loro. Non era ormai molto distante dalla casa, quando il centurione mandò alcuni amici a dirgli: «Signore, non disturbarti! Io non sono degno che tu entri sotto il mio tetto; 7per questo io stesso non mi sono ritenuto degno di venire da te; ma di’ una parola e il mio servo sarà guarito. 8Anch’io infatti sono nella condizione di subalterno e ho dei soldati sotto di me e dico a uno: «Va’!», ed egli va; e a un altro: «Vieni!», ed egli viene; e al mio servo: «Fa’ questo!», ed egli lo fa». 9All’udire questo, Gesù lo ammirò e, volgendosi alla folla che lo seguiva, disse: «Io vi dico che neanche in Israele ho trovato una fede così grande!». 10E gli inviati, quando tornarono a casa, trovarono il servo guarito.”.

Narrato da Matteo e da Luca, è un miracolo particolare perché è il primo in cui a beneficiare dell’intervento di Gesù è un pagano, per quanto, come vedremo, molto vicino all’identità religiosa di Israele. Per analizzare l’episodio occorre tenere presente più fattori: l’operato di Gesù fino a quel punto, chi fosse il centurione, il suo carattere, la sua posizione spirituale e, infine, perché la sua richiesta fu esaudita.

Capernaum fu, come sappiamo, la città in cui Gesù fissò la propria residenza per un certo tempo e in cui operò miracoli non quantificabili per quantità. Sappiamo che nella Sinagoga guarì un indemoniato (Luca 4.31-37), un paralitico calato dal tetto perché raggiungerLo sarebbe stato altrimenti impossibile (Marco 2.1-12), la suocera di Pietro e l’uomo dalla mano rattrappita (Marco 3.1-11), ma non ci vengono riportati tutti gli altri, racchiusi nella frase “…gli presentarono tutti i malati, colpiti da varie infermità e dolori, indemoniati, epilettici e paralitici, ed egli li guarì” (Matteo 4.24). Luca ci dice che “La sua fama si diffondeva in ogni luogo della regione all’intorno” (4.37) e che “le folle lo cercavano e lo raggiunsero e lo trattenevano perché non andasse via da loro” (4.42).

Ora a Capernaum c’era un centurione romano, appartenente a una legione imperiale le cui coorti erano stanziate in varie zone della Galilea di cui Erode Antipa era il tetrarca. Erode aveva un suo esercito, composto da Galilei, che però a quel tempo era dislocato sulle frontiere di Edom, pronto a entrare in guerra col di lui suocero Areta. Per ricordare ad Antipa che, nonostante la sua alta carica, dipendeva comunque da Roma, il proconsole di Siria aveva inviato truppe romane con la funzione di mantenere l’ordine pubblico. Il centurione era il comandante dell’unità di base dell’esercito, la centuria, formata da 80 – 100 uomini. Polibio, per quanto vissuto circa 150 anni prima, scrive “I centurioni devono essere non tanto uomini audaci e sprezzanti del pericolo, quanto invece in grado di comandare, tenaci e calmi, che inoltre non muovano all’attacco quando la situazione è incerta, né si gettino nel pieno della battaglia, ma al contrario sappiano resistere anche se incalzati e vinti, e siano pronti a morire sul campo di battaglia”. Spesso il centurione era un aristocratico, solitamente giovane perché si trovava al primo grado della carriera militare, ma questa posizione sociale non lo favoriva in caso di guerra, poiché era sempre posto in prima linea per infondere coraggio ed esempio ai suoi soldati.

Ora il centurione del nostro episodio viveva a Capernaum da tempo, quello necessario per guardarsi attorno e capire la popolazione con cui aveva a che fare: gente difficile, ostile, che lo guardava, per lo meno all’inizio, con disprezzo perché rappresentante di un governo straniero. Il fatto che leggiamo al “…ama il nostro popolo ed è stato lui a costruirci la sinagoga”, oltre ad altri particolari che vedremo, ci dice che, poco a poco, quell’uomo iniziò ad interessarsi e ad interagire con l’ebraismo, pur non convertendosi ad esso. Da come si esprimerà con Gesù, possiamo dedurre che il far costruire la sinagoga di Capernaum, fornendo evidentemente le risorse economiche e le maestranze, non fu un atto calcolato per ingraziarsi gli abitanti, ma un’azione proveniente dal cuore, toccato dalla profonda diversità del monoteismo giudaico rispetto alle credenze del paganesimo.

Ebbene quel centurione, abituato a comandare e a gestire l’autorità del suo grado, aveva un servo col quale intercorreva un rapporto particolare. Luca annota che quel servo “gli era molto caro”, segno che doveva appartenere alla casa del centurione dalla nascita perché proprio quelli venivano trattati con affetto e indulgenza. Spesso, poi, gli schiavi nati in casa finivano per diventare compagni di gioco dei figli dei padroni e nascevano amicizie che duravano tutta la vita cosicché, una volta cresciuti, il padrone finiva per trattare lo schiavo come un suo eguale. Pare difficile leggere diversamente il rapporto tra questi due uomini soprattutto considerando che un centurione, uomo di guerra in prima fila, era chiamato e abituato a gestire i suoi sentimenti anteponendo autorità e comando.

Leggiamo che il centurione aveva “udito parlare di Gesù”, supponiamo nei dettagli visto che era il responsabile dell’ordine pubblico di quella città: non solo era a conoscenza dei miracoli che Nostro Signore aveva fatto, ma anche il contenuto della sua predicazione che pensiamo approvasse, come emerge dai dettagli di Luca. Matteo scrive che andò di persona, Luca che gli inviò degli anziani del popolo: il primo evangelista pone l’accento sulle sue parole, identificando gli inviati come espressione diretta del mittente, il secondo sul fatto che quegli anziani presero a cuore il problema di quell’uomo conoscendolo come “giusto”e vicino a loro.

Vediamo ora il contenuto della richiesta: per prima cosa, il centurione espone il suo caso: “Signore, il mio servo è in casa, a letto, paralizzato e soffre terribilmente” (Matteo 8.6), parole che escludono una semplice richiesta di guarire una persona che, in quanto malata, procurava un disagio perché non in grado di svolgere il proprio compito. Quel “soffre terribilmente” esprime tutta la preoccupazione e l’immedesimazione verso il servo con parole essenziali come diretto ed essenziale era il carattere di quell’uomo.

C’è un dato molto importante in proposito: abbiamo una richiesta, ma che si limita a presentare una situazione, “soffre terribilmente”, cioè manca l’ordine di una convocazione forzata che, per la posizione che il centurione aveva, avrebbe sempre potuto ordinare inviando dei soldati al posto degli anziani. Tra le righe, quindi, ancora una volta leggiamo “se tu vuoi, puoi” e non “vieni qui e fai quello che ti ordino”. L’anonimo centurione sa di rivolgersi non a un medico, che si chiama quando si ha bisogno perché quello è il suo lavoro, ma a un inviato di Dio e al Figlio di Dio stesso nel quale evidentemente credeva, come rileviamo dalle parole che gli disse tramite alcuni amici che gli mandò mentre Gesù si stava incamminando verso la sua abitazione: “Signore, non disturbarti! Io non sono degno che tu entri sotto il mio tetto; per questo io non mi sono ritenuto degno di venire da te, ma di’ soltanto una parola e il mio servo sarà guarito”.

La prima parte, “non sono degno”, è simile a quanto disse Giacobbe in preghiera in Genesi 32.10 “Io sono indegno di tutta la bontà e di tutta la fedeltà che hai usato verso il tuo servo”, o di Isaia 6.5 quando, alla visione di Dio e dei suoi Angeli, disse “Ohimè, io sono perduto, perché sono un uomo dalle labbra impure e in mezzo a un popolo dalle labbra impure io abito” oppure, per gli scritti del Nuovo Patto, a quelle di Giovanni Battista che, parlando di Colui che sarebbe arrivato dopo, disse “Io non sono degno neppure di slegare il laccio del sandalo” (Giovanni 1.27). Ricordiamo anche Pietro, quando disse a Gesù “Signore, tu lavi i piedi a me?”. Sono espressioni che denotano la coscienza di quanto sia distante la persona che le pronuncia dalla santità di Dio, indegna di ricevere le sue attenzioni, al quale comunque si rivolge sperando, conscio del fatto che possa provvedere.

Il centurione, inoltre, dimostra di conoscere non solo la potenza di Gesù cui sarebbe bastato dire “una parola” perché il suo servo guarisse, ma di collocarlo in un ambito preciso; ricordiamo il Salmo 33.8,9 “Tema il signore tutta la terra, tremino davanti a lui gli abitanti del mondo. Perché egli parlò, e tutto fu creato. Comandò, e tutto fu compiuto”. Alla potenza di Gesù, il centurione riconosce anche il suo potere liberatorio: “Nell’angustia gridarono al Signore, ed egli li salvò dalle loro angosce. (…) Mandò la sua parola, li fece guarire e li salvò dalla fossa” (Salmo 107.13 e v.20). Quel centurione non si riteneva “degno”, sapeva di non essere una pecora“perduta della casa di Israele”, ma, come la donna cananea più avanti, era consapevole di essere una creatura, di avere un’anima che il Signore cercava, in un certo senso ricambiato. Gli riconosceva anche il potere sugli elementi, conscio della distanza tra umano e spirituale che li divideva, come dice al verso ottavo, “anch’io sono un subalterno”, cioè nonostante l’autorità che il Governo di Roma gli aveva dato e il fatto che potesse disporre delle persone, a sua volta era sottoposto ad altri e comunque nulla poteva di fronte a una malattia, cosa che non era per Gesù. Il discorso del centurione in questo verso è militare: se lui era al tempo stesso un’autorità ed era a sua volta sottoposto ad altri, così Gesù avrebbe potuto dire alla morte e alla malattia “Va’”, e questa si sarebbe allontanata dal suo servo. La conoscenza di quel centurione certo era imperfetta, ma aveva capito le cose essenziali che lo portarono non solo all’esaudimento della preghiera, ma a un riconoscimento pubblico: “All’udire questo, Gesù lo ammirò”. Perché Dio ascolti, non è bisogno quindi essere dei “grandi uomini”, dei perfetti, degli asceti, dei santi irraggiungibili cui solo a loro è permesso chiedere, ma delle persone normali, che riconoscono in Cristo il risolutore, Colui che può, a cui appartiene quell’ “oltre” per noi irraggiungibile.

Avrà saputo quel centurione della guarigione del figlio dell’ufficiale reale, avvenuta in Cana di Galilea? Forse, ma in ogni caso dimostra di aver compreso che la volontà di Cristo andava al di là del fatto che fosse presente o meno nella casa. Come noi, che siamo testimoni della sua grazia e del suo amore senza averlo visto, ma con la consapevolezza che è con noi tutti i giorni, fino alla fine. Amen.

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05.53 – RICCHI E POVERI NEL VANGELO (Luca 6.20-26)

05.53 – Ricchi e poveri nel Vangelo (Luca 6. 20-26)

20Ed egli, alzàti gli occhi verso i suoi discepoli, diceva: «Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio. 21Beati voi, che ora avete fame, perché sarete saziati. Beati voi, che ora piangete, perché riderete. 22Beati voi, quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e vi insulteranno e disprezzeranno il vostro nome come infame, a causa del Figlio dell’uomo. 23Rallegratevi in quel giorno ed esultate perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nel cielo. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i profeti. 24Ma guai a voi, ricchi, perché avete già ricevuto la vostra consolazione.25Guai a voi, che ora siete sazi, perché avrete fame.
Guai a voi, che ora ridete, perché sarete nel dolore e piangerete. 26Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i falsi profeti.
”.

 

Non credo sia giusto concludere il discorso di Gesù sul monte senza occuparci di questo particolare di Luca relativo alle beatitudini. Del sermone sul monte Luca ci dà un rapporto più breve eppure non meno edificante, per quanto la questione se si tratti di un unico sermone o di due, uno detto “del monte” e l’altro “della pianura”, sia ancora aperta. Non è quindi possibile stabilire con assoluta certezza se Luca e Matteo ci propongano due versioni di uno stesso discorso, oppure se vi siano stati due momenti e due predicazioni distinte, per quanto dai contenuti simili fra loro. Pare giusto ricordare gli argomenti a favore dell’una o dell’altra tesi. A favore della teoria sul fatto che entrambi gli evangelisti si rifacciano ad un unico evento abbiamo che:

  • Inizio e fine di entrambi sono praticamente identici;
  • I princìpi ricordati da Luca si trovano nello stesso ordine generale di Matteo e spesso con quasi gli stessi termini;
  • Entrambi gli evangelisti ricordano lo stesso miracolo, cioè la guarigione del servo del centurione, come accaduto poco dopo il sermone, quando il Signore entrò in Capernaum.

A favore della teoria che vede due discorsi in due luoghi diversi abbiamo:

  • La diversità del luogo. Il sermone di Matteo fu pronunciato sopra un monte, quello di Luca in una pianura, o su un terreno ondulato che Gesù aveva raggiunto.
  • La diversità di tempo. Se Matteo cita la guarigione di un lebbroso, e subito dopo quella del servo del centurione, Luca menziona quella del solo servo del centurione.
  • Nonostante sappiamo che la narrazione evangelica non segua un ordine cronologico rigoroso, è da notare che Matteo pone la sua chiamata molto tempo dopo il discorso sul monte, mentre Luca la mette prima. Se avessimo due versioni di uno stesso sermone, come scrive Steward, “sembra incredibile che Matteo non solo ometta l’ordinazione degli apostoli (che sarebbe accaduta prima), ma posponga perfino la propria vocazione”.
  • La differenza di uditori. Oltre alla moltitudine proveniente dalla Giudea e Galilea, Matteo parla di molti provenienti dalla Perea e dalla Decapoli, ebrei. Luca, però aggiunge come presenti al sermone anche dei pagani dalle coste di Tiro e Sidone.
  • La diversità di contenuto. Luca non riporta la maggior parte del contenuto di Matteo e fa precedere certe parti del sermone da frasi che, pur non essendovi nel primo Vangelo, si raccordano alle sue in modo naturale.

Cosa possiamo concludere? Come esiste effettivamente il dubbio dei due luoghi, è pur vero che i sinottici collaborano tra loro con intersezioni stupende, soffermandosi su particolari degli stessi episodi che variano anche molto tra loro. Tra gli esegeti, alcuni antichi e moderni non si pongono neppure il problema che i discorsi di Gesù alle folle fossero stati due, come hanno fatto i primi scrittori greci. Il primo a porsi delle domande in merito fu Sant’Agostino.

Venendo al nostro testo, Luca come Matteo inizia con le beatitudini, non otto, ma quattro. Il numero otto in realtà rimane invariato, ma lo si raggiunge considerando quattro beatitudini ed altrettanti guai, quindi possiamo dire quattro benedizioni e quattro maledizioni che contrappongono le realtà dell’uomo spirituale e di quello naturale. Se, come è stato giustamente osservato, “il discorso della montagna vuole essere, per contenuto e scenario, il contrappunto messianico alla legge mosaica”, (Ricciotti), vediamo la delicatezza con la quale Gesù affronta l’argomento, andando dritto alla persona, alla sua psicologia, alla sua realtà invitando i uditori e lettori ad un attento esame. E, per noi che abbiamo cercato di sviluppare il discorso della “casa”, che può essere costruita sulla sabbia (terra) o sulla roccia, capire la benedizione o maledizione del povero e del ricco dovrebbe essere agevole.

Troviamo scritto: “La parola del Signore sarà loro come insegnamento dopo insegnamento, insegnamento dopo insegnamento, linea dopo linea, linea dopo linea, un poco qui, un poco là” (Isaia 28.13). È un testo tradotto da Giovanni Diodati, che preferisco a quello della CEI che, semplificando per i lettori, parla di “precetto su precetto” e “norma su norma”; comunque questa interpretazione tende a mettere un accento sulla progressività del cammino del credente nella dottrina e nella conoscenza e si raccorda alla costruzione della casa, dallo scavo delle fondamenta alla posa di mattone dopo mattone. Perché, finite le fondamenta, c’è tutto il resto da costruire.

Così arriviamo al quattro, che abbiamo già visto essere il numero dell’equilibrio, quello che consente all’uomo di stare, o sentirsi, al sicuro. Quattro beatitudini: i poveri, gli affamati, chi è nel pianto, chi è disprezzato e perseguitato a causa del Vangelo. Quattro maledizioni: i ricchi, i sazi, chi ride, chi gode di buona fama presso il consorzio umano terreno. L’errore più grossolano che si può commettere cercando di spiegare questi punti è quello di cadere nel sentimentalismo, vedendo i “poveri” materiali destinatari di beatitudini future e i “ricchi” di disprezzo, collegandoli magari tutti a quello della parabola del “ricco e Lazzaro”: sappiamo che Gesù qui non parla tanto di povertà o ricchezza materiale, quanto della condizione d’animo e del cuore.

E questo lo ricaviamo da un banale pronome, “voi”. Nostro Signore non dice “Beati” o “Guai ai”, ma “Beati voi” o “Guai a voi”, cioè si rivolgeva al pubblico eterogeneo che era convenuto là per ascoltarlo. Gesù parla come profeta e Dio inviato dal Padre – attenzione – dopo che si era manifestato in quello stesso luogo e a quella stessa gente prima guarendo le malattie e cacciando gli spiriti impuri che tormentavano alcuni di loro (Luca 6.18-19). Leggiamo: “C’era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente (…) che erano venuti per ascoltarlo ed essere guariti dalle loro malattie; anche quelli che erano tormentati da spiriti impuri venivano guariti. Tutta la folla cercava di toccarlo, perché da lui usciva una forza che guariva tutti”.

Ecco. Io credo che tutti i presenti, indistintamente, ne fossero coscienti o meno, fossero potenzialmente dei poveri. Lo dimostrava il loro stesso trovarsi lì: “venuti per ascoltarlo” perché evidentemente il loro cuore e la loro mente non si era fino a quel momento saziata, mancava loro qualcosa, attendevano. “Essere guariti dalle loro malattie” perché la medicina, per quanto allora poco sviluppata, si era rivelata impotente a risolvere i loro problemi, come accade anche oggi nonostante il progresso e sia possibile connettere al corpo un arto artificiale e farlo funzionare collegando nervi trapiantati e reinnestati. Avevano bisogno di Cristo e solo loro sapevano se il loro essere là era dovuto alla volontà di risolvere un problema di contingenza o di eternità.

Chi è povero non guarisce dalla sua povertà con l’elemosina o un dono – ricordiamo le parole “I poveri con voi li avrete sempre”, (Marco 14.7) – chi ha fame l’avrà anche terminati gli effetti di un ricco pasto, chi piange tornerà a farlo e il perseguitato difficilmente troverà pace. Chi però si riconosce in queste categorie, o meglio nelle prime tre perché la quarta richiede un discorso a parte, in Cristo ha l’opportunità di ribaltare completamente la propria posizione: non sarà più uno dei tanti, ma diventerà un figlio di Dio, con tutte le prospettive di cui parla tutta la Bibbia, dalla Genesi all’Apocalisse. Sarà inserito nel Piano del Creatore perché gli avrà confessato il suo bisogno e desiderio.

Tutto poi è aumentato, stabilito, reso “ufficiale” dal numero quattro: le beatitudini e le maledizioni sono rivolte a chi si trova nella totalità della condizione del povero o del ricco. Eppure anche questa è una lettura frettolosa, per quanto veritiera; in realtà si riferisce alla condizione dell’uomo naturale nella sua essenza. L’apostolo Paolo un giorno scrisse “Io so che in me, cioè nella mia carne, non abita alcun bene” (Romani 7.18), descrizione perfetta della sua e nostra essenza: “in me, cioè nella mia carne” è riferito alle sue e nostre possibilità, capacità di realizzare qualcosa di positivo in termini spirituali. Sotto questo aspetto, e solo in questo, Paolo era povero. E infatti non mendicava, ma lavorava per mantenersi, facendo il tappezziere. La povertà è quindi interiore e solo in Dio può risolversi. Al termine della parabola dell’uomo ricco leggiamo: “Così è chi accumula tesori per sé, e non arricchisce davanti a Dio” (Luca 12.21). Ed ecco il guaio del ricco ipocrita che porta avanti se stesso, i suoi desideri, attaccato a ciò che possiede, materialmente o interiormente, e che difende non volendoli lasciare. Gli basta essere così, si compiace della stima dei suoi simili che ragionano secondo metri umani che umiliano.

Vediamo, nella parabola dell’uomo ricco, che tutti i progetti di quell’uomo s’infrangono di fronte alla chiamata di Dio “Stolto, questa stessa notte ti sarà ridomandata la tua anima, e di chi sarà ciò che hai ammassato?” (Luca 12.20). Quella persona viveva una sua stabilità, la stessa della casa sulla sabbia: era convinto di poter sussistere all’infinito, illuso che i suoi possedimenti e guadagni potessero garantirgli una sopravvivenza non volendo accettare il fatto che, un giorno, non solo avrebbe dovuto perdere tutto, ma affrontare la prova finale, la stessa degli elementi naturali che si abbatterono sulla casa costruita sulla sabbia, senza fondamenta. Quella del ricco di cui parla Gesù, è così la soddisfazione piena nelle cose terrene rifiutando l’idea che queste abbiano un termine, come testimoniano le agende ricche di impegni per i domani che non ci appartengono e non è detto ci siano concessi, che ne potremo disporre. Eloquente Proverbi 10.15: “I beni del ricco sono la sua roccaforte”, cioè una città fortificata, ritenuta inespugnabile fino a prova contraria. E la storia, antica e moderna, ci insegna quanto l’idea della roccaforte sia soggetta a mutare. Ancora: “Non affannarti per accumulare ricchezze, sii intelligente e rinuncia. Su di esse volano i tuoi occhi, ma già non sono più” (Proverbi 23.4). È quel “già non sono più” che ci parla del fatto che il tempo scorre senza che ce ne accorgiamo, perché abbiamo in noi il ricordo dell’eternità per la quale eravamo stati progettati e, se gli anni si succedono l’uno dopo l’altro, l’uomo fondamentalmente rimane sempre lo stesso, se guarda all’orizzontalità della vita e alla terra. Ecco perché, per chi non è ricco in Dio e tiene all’adulazione e considerazione dei suoi simili, verrà la rovina esattamente come quella casa costruita senza saggezza.

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