05.49 – La porta stretta (Matteo 7.13,14)
“13Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che vi entrano. 14Quanto stretta è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e pochi sono quelli che la trovano!”.
Stiamo esaminando da un po’ di tempo una serie di inviti, o suggerimenti, dati da Gesù alla folla desiderosa di ascoltarlo e possiamo dire che tutti – il non dare giudizi, non accumulare tesori sulla terra e non essere “solleciti di cosa alcuna” – comportano uno spogliarsi della parte istintiva della persona. Tutto questo è in relazione coi versi di quest’oggi, quella “porta stretta” che a noi dice poco, per lo meno nella sua realtà, ma che fu compresa immediatamente dai presenti: nelle città circondate da mura c’era una porta “larga e spaziosa” che rimaneva aperta tutto il giorno e attraverso la quale si poteva transitare liberamente con le proprie masserizie; di sera e di notte, però, quella porta si chiudeva e ne restava aperta una, molto più piccola. Si trattava di quel famoso “ago” attraverso il quale un cammello passava a fatica e che troviamo menzionato in Matteo 19.24 con le parole “È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio”.
Ebbene Gesù qui parla di entrare “per la porta stretta”, passaggio possibile se non si hanno bagagli ingombranti da portarsi appresso: questi vanno lasciati fuori, anzi l’immagine suggerisce il passaggio di una persona leggera, al contrario di quanto avveniva per la porta “larga e spaziosa”, comoda da attraversare per coloro che volevano far presto, avevano cose da fare, carichi da portare comprati o da vendere, impegnati nella loro vita orizzontale accanto alla spietata implacabilità di un tempo che passa senza dare la possibilità di gustare in modo fermo e duraturo i momenti positivi che possono capitare.
L’ “Entrate” di Gesù non sottintende un arrivo, ma l’ingresso in un mondo nuovo, spirituale, quello del regno di Dio di cui un giorno disse “è dentro di voi”. E non è possibile entrare senza spogliarsi di tutto ciò che ingombra, appesantisce, rallenta proprio perché la porta è stretta. Certo allora Nostro Signore non poteva soffermarsi e spiegare nei dettagli cosa significasse passare per quell’ingresso: se aveva ancora molto da dire ai suoi discepoli, ma tacque perché non avrebbero potuto comprendere altre parole perché lo Spirito Santo non era ancora sceso, il suo compito era quello di gettare un seme che avrebbe germogliato in futuro. Ai presenti poteva solo dichiarare che, se avessero voluto, avrebbero potuto avere un futuro di eternità con Lui. Molti erano e sono quelli che passano per la porta ampia e spaziosa, pochi quelli che trovano quella stretta, là dove il trovare implica l’approfittare dell’opportunità di quel passaggio, parlando in termini umani, così scomodo, disagevole e imbarazzante. Per quel pertugio, di giorno, non passava nessuno.
È giusto porre un distinguo perché qui non si parla di operare rinunce particolari, ma di scelte che comunque gli uditori del sermone potevano capire: “Non entrare nella strada degli empi e non procedere nella via dei malvagi. Evita quella strada, non passarvi, sta’ lontano e passa oltre” (Proverbi 4.14,15). “Evita” perché la potresti trovare comoda e allettante. Ancora, “Beato l’uomo che non entra nel consiglio dei malvagi, non resta nella via dei peccatori e non siede in compagnia degli arroganti, ma nella legge del Signore trova la sua gioia, la sua legge medita giorno e notte” (Salmo 1.1), tutte figure della porta “larga e spaziosa”. La “porta stretta”, che Gesù stesso poi indicherà in lui stesso, è indicata da Isaia 55.7 quando scrive “L’empio abbandoni la sua via e l’uomo iniquo i suoi pensieri; ritorni al Signore che avrà misericordia di lui e al nostro Dio che largamente perdona”.
“Entrare per la porta stretta” possiamo dire che è uno degli inviti più pressanti del Vangelo là dove esiste un essere umano che cerca la pace non con se stesso, ma con Dio: “Convertitevi dunque e cambiate vita, perché siano cancellati i vostri peccati e possano così giungere i tempi della consolazione da parte del Signore e così Egli vi mandi Colui che aveva destinato come Cristo, cioè Gesù” (Atti 3.19,20). Non si può passare per la porta stretta senza conversione, è questa che determina il perdono di Dio perché costituisce l’unica firma che possiamo porre sul nostro contratto di salvezza. Gesù diede una rivelazione piena e totale di quanto stiamo meditando con queste parole: “Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo” (Giovanni 10.9). Lui è la porta, perfetto garante del nostro futuro perché risorto, vincendo la morte che tocca a tutti gli uomini perché tutti si portano dietro il peccato dei loro progenitori. Entrare “attraverso” significa credere in Lui non solo come personaggio storico, ma come unica alternativa, base su cui costruire, riferirsi, come persona che assiste e veglia sul cammino che viene intrapreso. Certo, come Lui disse, per essere salvati, altrimenti ogni cosa sarebbe inutile. Chi studia la mente umana sa benissimo che la mancanza di un progetto è alla base e sintomo della depressione e di malattie che progrediscono col passare del tempo e, senza la salvezza come futuro certo e il conseguente cammino verso di lei, anche la vita di chi crede rischia di essere prima sterile e poi malata. E quando un progetto umano crolla, se la persona ha riversato in quello e su quello tutte le proprie energie, il corto circuito nella mente è inevitabile e viene descritto coi termini “pianto e stridore di denti” quando si parla dei perduti che, appunto, scopriranno troppo tardi che tutto quanto avranno fatto in vita non sarà servito a nulla. Perché la perdizione ha due aspetti, il primo è quello dell’anima come punto di arrivo estremo causato dal rifiuto costante della grazia, ma il secondo, quello che si vede subito, è la mancanza di uno scopo, dell’uomo o donna che diventano dei vuoti a perdere pur vivendo. E ancora ci aiutano i Proverbi dove, in 16.25, leggiamo “C’è una vita che sembra dritta per l’uomo, ma alla fine conduce su sentieri di morte”. “Alla fine”, quando è troppo tardi per tornare indietro, “alla fine” come risultato, “salario delle proprie fatiche” perché, comunque, camminare costa energie in ogni caso, sia che si percorra una strada in salita, sia che sia comoda e pianeggiante.
Torniamo però ai nostri testi: avuta la salvezza, vediamo due verbi, “entrare” e “uscire”, strettamente collegati al “trovare pascolo” che hanno connessione con la vita delle pecore sotto il “buon pastore” che non fa mancare loro nulla e per loro dà la sua vita. Le pecore di Gesù non vengono tenute solo nell’ovile, ma vengono da lui condotte come nel Salmo 22, spesso usato a sproposito e in modo quasi scaramantico nei funerali, quando spesso si vorrebbe che la Parola di Dio intervenisse, ma è troppo tardi: “Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla. Su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce. Mi rinfranca, mi guida per il giusto cammino, per amore del suo nome. Se dovessi camminare in una valle oscura, non temerei alcun male, perché tu sei con me”. Queste parole, lette in alcune cerimonie un’infinità di volte, hanno finito per diventare una specie di modo di dire, ma ci si dimentica che sono state scritte da chi ha sperimentato veramente su di sé quella realtà.
“Entrate per la porta stretta” è un’esortazione che comporta un percorso a tappe, fatto di riflessione per chi l’ascolta perché non è qualcosa che può essere affrontato alla leggera trattandosi di scegliere se seguire Gesù o meno. Se il Vangelo si basa sul verso “Credi nel Signore Gesù e sarai salvato”, è indubbio che un aspetto fondamentale della dottrina cristiana si basi sul comportamento dell’uomo o della donna che hanno creduto come confacente alla fede che professa; viceversa avremmo superficialità approssimazione, errore. E qui ci viene in aiuto l’evangelista Luca che, riportando la frase di Gesù che stiamo esaminando, la scrive in modo leggermente diverso: “Sforzatevi di entrare per la porta stretta perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non vi riusciranno” (Luca 13.24). Qui, a differenza di Matteo, c’è l’idea di uno sforzo visto nello spogliarsi di ciò che non serve perché ostacola il passaggio, contrapposto al “cercare di entrare” da parte di molti: sono quelli che, sentito il messaggio evangelico, lo apprezzano teoricamente, ma lo vorrebbero adattare al loro impianto mentale, alle loro convinzioni, ai loro egoismi, a quel buonismo che tanto li fa apparire “giusti di fronte agli uomini”; da qui originano i tragici tentativi per entrare, pari a quelli dell’invitato alle nozze senza il vestito, o del giovane ricco che aveva osservato fin da bambino i precetti della Legge ma che non volle seguire Gesù, o delle vergini stolte che avevano portato le lampade, ma non l’olio necessario.
Qui ci si ricollega anche alle parole di Gesù a Nicodemo quando gli disse che “Se uno non nasce dall’alto, non può vedere il regno di Dio” (Giovanni 3.3,5), ma ancora di più, per noi che viviamo tempi cronologicamente e umanamente lontani dall’anno in cui Nostro Signore visse ed operò sulla terra, vale la descrizione sulla condotta cristiana che l’apostolo Paolo descrisse ai Colossesi e che accenniamo brevemente: “Se dunque siete risorti con Cristo– la professione di fede che ogni fratello o sorella ha fatto un giorno – cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio. Rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra”. Ecco, il pensiero, dono che ha l’uomo e che gli ha permesso di arrivare a scoperte avanzate in ogni campo, va indirizzato verso l’alto, “dove è Cristo”, quindi in un luogo preciso cui solo lo Spirito può condurre un cuore rinnovato. “Voi infatti siete morti– al peccato e al mondo – e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio– perché ancora non siamo con Loro -. Quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato– col Suo ritorno -, allora anche voi apparirete con lui nella gloria”. Ebbene a questo punto, se tutto quanto esposto fin’ora si è davvero verificato nella mente e nel cuore del credente, ecco rivelato l’impegno inevitabile perché, come diceva un fratello, “il cristiano è al tempo stesso sacerdote e vittima”: “Fate morire dunque ciò che appartiene alla terra – di cui siamo fatti -: impurità, immoralità, passioni, desideri cattivi e quella cupidigia che è l’idolatria– cioè avere falsi miti come riferimento -; a motivo di queste cose l’ira di Dio viene su coloro che gli disobbediscono. Anche voi un tempo eravate così, quando vivevate in questi vizi– ecco perché dobbiamo stare attenti a giudicare il nostro prossimo -. Ora invece gettate via tutte queste cose: ira, animosità, cattiveria, insulti e discorsi osceni, che escono dalla vostra bocca. Non dite menzogne gli uni agli altri– la reciprocità nella carne che rende gli uomini simili -: vi siete svestiti dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova per una piena conoscenza, a immagine di Colui che lo ha creato” (Colossesi 3.1-10).
Ecco, qui Paolo sintetizza il cammino, ricordando a chi è passato per la porta stretta che, se da un lato ha fatto bene ed è stato fautore di una scelta di cui non si pentirà “quando Cristo sarà manifestato” ma non solo, ha ancora tanto lavoro da fare visto nel far morire ciò che appartiene alla terra. Guai a pensare che, fattolo una volta, sia per sempre: il peccato infatti, non come condizione di base, ma come strumento di Satana per far cadere e compromettere la comunione col Signore, è sempre lì come possibilità di scelta: “Se non agisci bene, giace alla porta, verso di te è il suo istinto, e tu lo dominerai” (Genesi 4.7). Quante migliaia di anni separano questo verso dallo scritto paolino che abbiamo ricordato? Tanti, ma l’uomo è sempre lo stesso. “Entrare per la porta stretta”, allora equivale non solo credere nella morte e risurrezione di Cristo per i nostri peccati, ma anche accettare accogliendo questa conoscenza e metterla in pratica quotidianamente, come altrettanto quotidianamente salirà la richiesta al Padre di rimetterci i nostri debiti. E di rimetterli ai nostri debitori. Amen.
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