05.52 – LA CASA SULLA ROCCIA (Matteo 7.24-28)

05.52 – La casa sulla roccia (Matteo 7.24-28)

4Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, sarà simile a un uomo saggio, che ha costruito la sua casa sulla roccia. 25Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ma essa non cadde, perché era fondata sulla roccia. 26Chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica, sarà simile a un uomo stolto, che ha costruito la sua casa sulla sabbia. 27Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa cadde e la sua rovina fu grande». 28Quando Gesù ebbe terminato questi discorsi, le folle erano stupite del suo insegnamento: 29egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come i loro scribi.”.

Con questa parabola si conclude la redazione di Matteo sul discorso della montagna. Sono le ultime parole di Gesù alla folla con cui conclude la serie di insegnamenti che abbiamo visto finora per quanto rimanga da analizzare la versione di Luca che presenta particolari molto interessanti. Nostro Signore, con “chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica”, si riferisce quindi a tutto quello che ha detto nel suo discorso, fatto con un’autorità diversa da quella dei molti predicatori che i presenti avevano già ascoltato (v.29).

Matteo e Luca così si integrano perfettamente tra loro, riportando le realtà meteorologiche dei territori dai quali provenivano; scrive Luca (6.47-50 “Chiunque viene a me e ascolta le mie parole e le mette in pratica, vi mostrerò a chi è simile: è simile a un uomo che, costruendo una casa, ha scavato molto profondo e ha posto le fondamenta sulla roccia. Venuta la piena, il fiume investì quella casa, ma non riuscì a smuoverla perché era costruita bene. Chi invece ascolta, ma non mette in pratica, è simile a un uomo che ha costruito una casa sulla terra, senza fondamenta. Il fiume la investì e subito crollò; e la distruzione di quella casa fu grande” (Luca 6.47-50). Matteo conosce le piogge invernali in Palestina che formano improvvise correnti di acqua erodendo anche i fianchi delle colline. Il suolo viene spazzato via e con lui case che non sono state costruite sul terreno solido. Luca, invece, conosce di più la tecnica di costruzione greca negli stessi territori, che si realizzava con scavi profondi prima di passare alla realizzazione degli edifici.

Ancora una volta Gesù parla ai suoi uditori usando un termine che conoscevano molto bene, la “roccia”, che al di là di essere eloquente per la parabola, ha riferimento a Deuteronomio 32.4: “Egli è la roccia: perfette le sue opere, giustizia tutte le sue vie; è un Dio fedele e senza malizia, Egli è giusto e retto”. Lo stesso termine lo troviamo nelle parole pronunciate da Davide quando fu liberato da Saul e dai suoi nemici in 2 Samuele 22.2,3. In questo passo rileviamo, oltre alla “roccia”, altre caratteristiche che Davide aveva avuto modo di riconoscere in Dio: “Signore, mia roccia, mia fortezza, mio liberatore, mio Dio, mia rupe in cui mi rifugio; mio scudo, mia potente salvezza e mio baluardo, mio nascondiglio che mi salva”. Da notare il fatto che la vittoria riportata è attribuita all’assistenza che YHWH gli aveva accordato e non al suo eroismo e invincibilità, come troveremmo in un poema profano di un altro popolo. Davide è un servitore, altri ne avrebbero fatto un superuomo, un eroe.

Quindi, per gli uditori di Gesù, fu subito chiaro che costruire “la casa sulla roccia” chiamava direttamente in causa il Creatore, Colui che veniva definito “Il Santo, che benedetto sia”. Matteo parla di “casa” e di “roccia”: ebreo, scrive per gli ebrei a cui bastano i due termini per capire molto di più rispetto ai lettori di Luca, che sceglie di scrivere indipendentemente dalla nazione di appartenenza dei suoi lettori.

Dobbiamo però andare alla base di tutto il discorso, e cioè la casa, che non è qualcosa che si sceglie di costruire, ma che si edifica inevitabilmente: “casa” come luogo in cui abitare, vivere, “casa” come figura di noi stessi, della nostra persona e quindi anima. Ricordiamo l’esempio, sempre fornito da Nostro Signore, sul demonio scacciato senza che la persona da lui abitata abbia provveduto a ravvedersi: “Quando lo spirito immondo esce dall’uomo, si aggira per luoghi aridi in cerca di riposo e, non trovandone, dice «Ritornerò nella mia casa da cui sono uscito». Venuto, la trova spazzata e adorna. Allora va, prende con sé altri sette spiriti peggiori di lui ed essi entrano e vi alloggiano e la condizione finale di quell’uomo diventa peggiore della prima” (Luca 11.24,25).

Ecco allora che Gesù, parlando di “casa”, intende la costruzione del nostro essere, della nostra persona(lità), di tutta la struttura che comprende anima e spirito, che può essere diversa, una volta incontratolo, da quella che avevamo prima. C’è chi, dopo questo incontro, la lascia invariata, chi la rinforza e chi addirittura ne costruisce un’altra ex novo tale sarebbe il dispendio di energie per ristrutturarla. E così ricomincia da capo, dopo aver fatto tabula rasa sulle nostre aspettative, relazioni sociali, interessi.

Riflettiamo un attimo sulla condizione in cui versa l’uomo naturale: dominato dalla carne, incapace di pensieri davvero spirituali, imposta la propria vita sulla base delle necessità che persegue, solitamente, con fermezza e volontà. Se però quest’uomo incontra a un certo punto della sua vita Gesù Cristo e ascolta, tramite la lettura del Vangelo o l’esposizione di una persona preparata e di esperienza, il Suo messaggio, scopre, attraverso i versi di Matteo e Luca che abbiamo letto, che le esigenze di Dio sono altre e che tutto quanto ha fatto finora è completamente inutile per la sua realizzazione di persona spirituale, non gli garantisce alcuna possibilità di sopravvivenza una volta abbandonata la vita che conosce. Scopre finalmente di essere incompatibile con Lui ed è costretto a cambiare, abbandonare, se non tutto, gran parte di ciò che possedeva, che gli apparteneva come essere unicamente carnale. E qui parlo del mondo interiore.

La “casa”, allora, va ricostruita o rivista radicalmente e qui si compie il miracolo in quell’uomo “saggio”: sceglie di costruire non più dove capita ma, trovata la roccia, edifica su di lei – specifica Luca – scavando “molto profondo”, cioè con fatica, ma anche col desiderio di apprendere ciò che fino ad allora gli era ignoto. Nella Scrittura infatti il termine “profondità” è sempre usato per indicare ciò che non può essere conosciuto, raggiunto dall’uomo carnale. Ricordiamo Paolo in Romani 11.33 “O profondità della ricchezza, della sapienza e della conoscenza di Dio! Quanto insondabili sono i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!”. Ricordiamo la benedizione – beatitudine espressa in Efesi 3.18: “…perché siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e di conoscere l’amore di Cristo che supera ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio”.

Ancora, nello scavo in profondità dobbiamo individuare la verifica puntuale, anche sulla nostra persona perché tutto parte da lì in quanto il peggior nemico lo troviamo proprio in noi stessi, nella nostra carne che vuole prevalere sempre sullo spirito. Ricordo le parole, più volte citate in queste riflessioni, che Dio disse a Caino sul peccato accovacciato alla porta e la necessità di dominarlo. A fine giornata, dovremmo sempre fare un inventario delle nostre azioni e scelte per verificare dove abbiamo sbagliato e farne tesoro per correggerle in futuro. Abbiamo gestito correttamente il rapporto col nostro prossimo? Quanto abbiamo dato del nostro tempo al Signore e abbiamo cercato la comunione con Lui? Abbiamo portato avanti Lui o noi stessi? Quanto ha pesato il nostro egoismo sulle nostre azioni? Lo abbiamo cercato? Il mattone, o la pietra che abbiamo posto per la nostra costruzione, è stato spirituale? Abbiamo difeso la sostanza, o l’apparenza? Dove siamo stati deboli e dove forti? Cosa abbiamo dato di noi?

Chi quindi costruisce saggiamente, sceglie la roccia come punto per ancorarvi le fondamenta e poi scava consapevole della loro importanza, perché senza di loro qualsiasi opera edile importante è impossibile. Le fondamenta hanno il compito di assorbire i carichi delle strutture in elevazione, trasmettere i carichi da loro al terreno e ancorare l’edificio al suolo: va da sé che una procedura costruttiva che rispetti questi criteri è destinata a durare nel tempo e a resistere alle forze ostili. Ricordiamo una frase dell’apostolo Paolo ai credenti di Corinto: “Nessuno può porre altro fondamento che quello già posto, cioè Cristo Gesù” (1 Corinti 3.11). Inevitabilmente si parte da lì, se si vuole che la nostra costruzione regga. E va da sé che, se uno edifica su Cristo come roccia e fondamento, non userà fieno o paglia per materiale.

A questo punto Luca parla di una piena che arriva, ma non riesce a smuovere la casa, Matteo di pioggia, fiumi e venti che si abbatterono su di lei: molti tendono a vedere in questi elementi le avversità della vita ma personalmente, pur condividendo l’interpretazione, aggiungerei l’ultima prova che il cristiano si troverà ad affrontare, cioè la verifica che Dio farà sul suo operato. Ricordiamo che la casa costruita rappresenta di tutto il nostro essere: nelle fondamenta vedo quello in cui crediamo, i nostri valori; nella sua struttura ciò che abbiamo realizzato, i nostri progetti, le nostre azioni e la testimonianza che avremo reso, più che a parole, con i fatti che poi, alla fine, saranno i soli a parlare per noi. Così come leggiamo che “il fuoco farà la prova delle opere di ciascuno”, qui abbiamo la forza dell’acqua e dei venti che si abbatte sulla casa senza riuscire a smuoverla.

Le stesse forze si riversano sulla costruzione dell’uomo stolto, che ha edificato sulla sabbia (Matteo) o sulla terra senza fondamenta (Luca), ma con risultati diametralmente opposti. Da notare che entrambe sono case, apparentemente simili tra loro. Il nostro “bagaglio storico” è diverso, eppure ci accomuna. Il luogo in cui una persona dimora dice molto di lui, della sua personalità: all’interno pone ciò che lo interessa, la sua storia, i ricordi, si tende a realizzarla in un certo senso a nostra immagine. Può essere funzionale, essenziale, minimale, ordinata, disordinata, ma anche piena di soprammobili, alla moda, sfarzosa, studiata per impressionare chi vi entra, dare un’immagine. Una casa rivela noi stessi e i nostri scopi, la visione che abbiamo della vita.

Ebbene, la descrizione che dà Nostro Signore del destino delle due case è essenziale, privo di orpelli: “non riuscì a smuoverla” per la prima, “la sua rovina fu grande” per la seconda. Sono due dati di fatto, impossibile interpretarli diversamente. In un caso l’occupante continua a viverci dentro, nell’altro rimane senza un luogo, all’aperto, al freddo e non è più la casa ad essere esposta agli elementi naturali, ma lui stesso che tra l’altro non potrà incolpare nessuno della propria rovina. Si sarà fatto del male da solo. Tra l’altro, entrambi i proprietari occupano l’interno fino a un momento preciso, quello della prova finale rappresentata dagli elementi che si abbattono sulla loro dimora. Ed entrambi, fino a quel momento, si sentono al sicuro. Quando c’è un crollo, c’è sempre una ragione.

Chi ascolta le mie parole e le mette in pratica” è una frase che possiamo dire fu spiegata da Giacomo diversi anni dopo quando scrisse “Siate di quelli che mettono in pratica la parola, e non ascoltatori soltanto, illudendo voi stessi” (1.22): la stessa illusione di chi, costruendo sulla terra o sulla sabbia, era convinto di vivere tranquillo all’interno della propria dimora. L’illusione è quella condizione che ha caratterizzato la vita dell’uomo stolto ed è al tempo stesso il pericolo più grande in cui l’uomo può incappare; ricordiamo che Satana illuse Eva che, prendendo il frutto, sarebbe diventata come Dio ed in cambio ottenne la morte e la fine della sua dignità di essere spirituale. Anche lì la sua rovina fu grande.

Ma per noi, che viviamo la dispensazione della Grazia e non della Coscienza, l’illusione maggiore è quella di pensare che Dio sia tanto buono che alla fine perdonerà tutti perché l’inferno si trova su questa terra: “Non sapete che gli ingiusti non erediteranno il regno di Dio?” (1 Corinti 6.9). A seguire, il verso prosegue con un elenco di persone nelle quali si individuano tutti coloro che avranno portato avanti esclusivamente loro stessi a danno di altri: immorali, idolatri, adùlteri, depravati, sodomiti, ladri, avari, ubriaconi, calunniatori, rapinatori.

Ecco perché, per evitare la “grande rovina”, Gesù invita i suoi uditori ad ascoltare e mettere in pratica le sue parole.

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05.51 – FALSI DISCEPOLI (Matteo 7.15-23)

05.51 – Falsi discepoli (Matteo 7.15,23)

 

15Guardatevi dai falsi profeti, che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro sono lupi rapaci! 16Dai loro frutti li riconoscerete. Si raccoglie forse uva dagli spini, o fichi dai rovi? 17Così ogni albero buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi; 18un albero buono non può produrre frutti cattivi, né un albero cattivo produrre frutti buoni. 19Ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco. 20Dai loro frutti dunque li riconoscerete.
21Non chiunque mi dice: «Signore, Signore», entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli. 22In quel giorno molti mi diranno: «Signore, Signore, non abbiamo forse profetato nel tuo nome? E nel tuo nome non abbiamo forse scacciato demòni? E nel tuo nome non abbiamo forse compiuto molti prodigi?». 23Ma allora io dichiarerò loro: «Non vi ho mai conosciuti. Allontanatevi da me, voi che operate l’iniquità!».
”.

 

Leggevo un commento a 2 Timoteo 2.17, che abbiamo citato la volta scorsa, a proposito di Imeneo e Fileto e sull’insegnamento del falso profeta paragonato, per come si diffonde, a una cancrena. Scrive William MacDonald: “Pensando a Imeneo, a Fileto e ai loro falsi insegnamenti, ancora una volta Paolo si rende conto che per la Chiesa sono in arrivo giorni bui. La chiesa locale ha raccolto degli increduli fra i suoi membri. La cristianità è una massa eterogenea e la confusione che ne risulta è devastante”. Credo che le parole dell’ultima frase siano molto adatte ai nostri tempi più che a quelli di allora anche se i “giorni complicati” sono iniziati proprio con la prima Chiesa e l’avvento delle prime eresie in cui, fondamentalmente, il metodo filosofico antropocentrico ha iniziato a confondersi con il messaggio cristiano puro (e semplice). Giuda al verso quarto della sua lettera scriveva “Si sono infiltrati in mezzo a voi alcuni individui, per i quali già da tempo sta scritta questa condanna, perché empi, che stravolgono la grazia del nostro Dio in dissolutezze e rinnegano il nostro unico padrone e signore Gesù Cristo”.

Personalmente nelle Chiese mi capita di vedere disinformazione e errore che originano da un non voler vedere la luce per appropriarsene sul serio. Si confonde l’invito di appartenere a Cristo per essere salvati con quello di far parte di una comunità a prescindere perché bisogna “stare insieme”, fare gruppo, possibilmente manifestando agli altri un modo di vivere particolare finendo per lasciare Gesù fuori dalla porta perché c’è altro da portare avanti. Allora si ricorre a manifestazioni esteriori, pubblicitarie, si propaganda il proprio gruppo facendo leva su di esso e non su Cristo, di cui comunque oggi tutti hanno sentito parlare, ma che ben pochi cercano. E la possibilità di cadere in errore sarebbe inevitabile se non ci fosse quest’informativa di Gesù: il falso profeta, se da un lato viene a noi in veste di pecora ma dentro è lupo rapace, dall’altro si riconosce dai suoi frutti che sono l’opposto di quelli portati da quello vero: “Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli” (Giovanni 15.8). Per collocare il profeta sotto la giusta ottica, poi, occorre distaccarsi dalla visione mondana che lo vede dichiarare ciò che avverrà in futuro, poiché il profeta nella Scrittura è colui che parla correttamente di Dio e, se gli viene ordinato o ha un’illuminazione, ne rivela i piani, le prospettive, l’essenza.

Esiste una differenza tra il significato del termine che troviamo in un dizionario (persona che, per ispirazione divina, predice il futuro o rivela fatti ignoti alla mente umana, o è dotata di capacità divinatorie) e quello originale greco composto dal prefisso “pro” (davanti, prima) e “femì” (parlare, dire); il profeta è quindi colui che, nell’esercizio delle sue funzioni, “parla davanti” a un’assemblea, una o più persone, e contemporaneamente a Dio portandone la responsabilità. Impossibile farlo correttamente senza lo Spirito. Essere dei profeti veri corrisponde al portare, come abbiamo letto, “molto frutto” e lo si può fare anche attraverso una condotta onesta e irreprensibile; essere dei profeti falsi significa agire per scopi non riferibili a quelli della parola di Dio.

Il falso profeta è un “lupo rapace” perché trasmette elementi dottrinali non corretti a chi non ha sufficienti riferimenti per orientare la propria vita spirituale e lo conduce in errore. A volte si tratta di contenuti che si infrangono palesemente con il buon senso del messaggio cristiano, altre volte sono subdoli e potrebbero apparire apparentemente logici, come quel miscuglio tra Legge e Grazia che alcuni giudei portavano avanti nelle prime Chiese costringendo i pagani a circoncidersi ritenendolo un adempimento che condizionasse la salvezza. E rimango negli scritti del Nuovo Patto per non allargare troppo il campo. Possiamo però ricordare Geremia 23.16 “Non ascoltate le parole dei profeti che profetizzano per voi; essi vi fanno vaneggiare, vi annunciano fantasie del loro cuore– impuro -, non quanto viene dalla bocca del Signore”.

Per i frutti, poi, possiamo andare alla lettera ai Galati in passi più volte ricordati quando l’apostolo Paolo sottolinea la differenza tra quelli della carne e quelli dello spirito (5.18-12). Le “opere” (quindi i frutti) della carne sono da Paolo individuati nella “fornicazione” (l’assenza di fedeltà che può essere verso la propria moglie o il proprio marito, ma anche il politeismo come pluralità di servitù), “impurità” (la presenza come scelta di elementi del mondo che si rimpiangono e praticano accanto a una condotta apparentemente cristiana), “dissolutezza” (eccessi provocati dalla libidine e dal vizio, che contempla non solo quello sessuale), “idolatria” (ammirazione, devozione o dedizione gelosa e fanatica), “stregonerie” (l’appoggiarsi a pratiche estranee alla preghiera e allo spirito), “inimicizie” (rancori portati verso gli altri perché osano porsi in contrasto al nostro volere della carne), “discordia” (diversità di intenti tale da alimentare rivalità o provocare frequenti contese), “gelosia” (sentimento tormentoso spesso patologico provocato dal timore, dal sospetto o dalla certezza di perdere qualcosa o una persona che amiamo per opera di altri), “dissensi” (porsi contro un’idea a prescindere portando avanti unicamente se stessi), “divisioni” (i cosiddetti “partiti” nelle Chiese in cui si creano gruppi che parteggiano per uno e ostacolano le iniziative dell’altro), “fazioni” (la formazione di gruppi in cui i membri sono coesi in acceso contrasto con altri gruppi), “invidie” (il non sopportare che l’altro prosperi o consegua dei risultati positivi, che poi è il sentimento di Caino), “ubriachezze” (il volersi saziare a tutti i costi con un surrogato dello Spirito, alternative portate avanti volendole legittimare a tutti i costi) “orge e cose del genere” (feste sfrenate a sfondo sessuale).

Dal verso 16 al 20 del nostro testo, Gesù paragona gli uomini ad alberi e, come sappiamo, propone ai suoi uditori un tema conosciuto: la volta scorsa abbiamo avuto l’esempio del giusto che “fiorirà come la palma” (Salmo 92) e, in opposizione, del “tamerisco nella steppa”. Il giusto che medita la Legge del Signore è poi paragonato a “…un albero piantato lungo corsi d’acqua, che dà frutto a suo tempo: le sue foglie non appassiscono e tutto quello che fa, riesce bene” (Salmo 1.3). Se quindi il falso profeta può mentire e irretire con discorsi pseudo-spirituali difficili da individuare, non può fare altrettanto coi suoi frutti. E abbiamo letto che “ogni albero che non dà buon frutto è tagliato e gettato nel fuoco”: è la fine della pula, della zizzania, del tralcio che non rimane attaccato alla vite, di quella terra che, irrigata, produce rovi e spine.

Il verso 19, sulla fine che fanno gli alberi che non danno frutti buoni, è usato da Gesù come “ponte” verso un’altra categoria di persone, quelle che frutto non ne portano nonostante siano a dimora nel terreno di Dio, come ci insegna la parabola del fico sterile in Luca 13.6-9: “Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: «Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo. Taglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?». Ma quello gli rispose: “«Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai»”.

E qui entriamo in un ambito purtroppo amaro e difficile, che Gesù ricorda molte volte in discorsi e parabole e che nel sermone sul monte annuncia per la prima volta: si può appartenere alla Chiesa nominalmente, per scopi personali, ci si può travestire, occupare indegnamente un posto. Quel “Signore, Signore” al verso 21, riferito probabilmente alla preghiera pubblica e a tutte le volte in cui il nome di Dio viene pronunciato dai falsi discepoli, denota un’assenza, un vuoto, una mancanza di partecipazione: “Non quelli che ascoltano la Legge sono giusti davanti a Dio, ma quelli che la mettono in pratica saranno giustificati” (Romani 2.13), frase da un discorso di Paolo sulla sensibilità dei cuori. In realtà, la “Legge” di cui parla l’apostolo è la Parola, come poi Giacomo avrà modo di precisare in 1.22,23: “Siate di quelli che mettono in pratica la Parola, e non ascoltatori soltanto, illudendo voi stessi; perché se uno ascolta la Parola e non la mette in pratica, costui somiglia a un uomo che guarda il proprio volto allo specchio: appena si è guardato, se ne va, e subito dimentica com’era. Chi invece fissa il suo sguardo sulla legge perfetta, la legge della libertà, e le resta fedele, non come ascoltatore smemorato ma come uno che la mette in pratica, questi troverà la sua felicità nel praticarla”.

Ecco, “fare la volontà del Padre” implica aderire a quel percorso che inizia dal credere “in Colui che mi ha mandato” e poi prosegue con una crescita proporzionale ai doni ricevuti, al posto nel “Corpo di Cristo che è la Chiesa” dove chi è grano rimane tale e non può essere zizzania, dove chi è albero può anche temporaneamente non portare frutto, ma lo darà opportunamente concimato dal perfetto operaio della vigna. “Vedremo se porterà frutti per l’avvenire, se no lo taglierai” sono parole che mettono l’accento, più sul tagliare, sull’amore e la pazienza di Dio che desidera un albero fruttifero e non legna da ardere di cui mi viene da pensare – se mi si passa il termine – ne abbia fin troppa. Notiamo poi che il frutto è qualcosa di tangibile e non può trovarsi nelle parole “Signore, Signore” che chiunque è in grado di pronunciare.

C’è poi un giorno, la cui data è nascosta a tutti ma che “solo il Padre conosce”, in cui tutti gli uomini incontreranno Cristo in salvezza o in giudizio: “molti mi diranno in quel giorno” parole tese a giustificarsi o a implorare che sia loro aperta la porta della Grazia che hanno rifiutato in vita. In questo caso, però, sono quelli che vogliono ricordare al Signore un operato preciso. Leggiamo che i falsi discepoli e profeti avranno parlato di Lui usando il suo nome, scacciato demòni e compiuto molti prodigi: si tratta di fenomeni del tutto involontari, come ad esempio avvenne per il Sommo Sacerdote Caiafa che, tra i principali fautori della morte provvisoria di Gesù, disse al Sinedrio “Voi non capite nulla! Non vi rendete conto che è conveniente per voi che un solo uomo muoia per il popolo, e non vada in rovina la nazione intera!”,parole che Giovanni annota così:“Questo però non lo disse da se stesso, ma, essendo sommo sacerdote quell’anno, profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione. E non soltanto per la nazione, ma per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi. Da quel giorno dunque decisero di ucciderlo” (Giovanni 11.49-53). Pensiamo anche a quelle manifestazioni miracolose che si verificano, e che abbiamo ricordato ultimamente, tese ad instaurare nella mente altrui false convinzioni religiose o, nel caso di specie, a quegli esorcisti itineranti in Atti 13, che però nulla poterono di fronte a un indemoniato più forte di loro.

Il cristiano deve sapere che ogni intervento soprannaturale di cui può essere testimone non è detto che venga inequivocabilmente da Dio e troppo spesso ci si dimentica che, se Satana si presentasse in tutta la sua potenza negativa, avrebbe ben pochi seguaci. Così, chi si traveste da pecora, troverà la sua condanna nell’ultimo verso del nostro passo: “Non vi ho mai conosciuto. Allontanatevi da me, voi che operate l’iniquità”.

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05.50 – I FALSI PROFETI (Matteo 7.15-20)

05.51 – Falsi profeti (Matteo 7.15-20)

 

15Guardatevi dai falsi profeti, che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro sono lupi rapaci! 16Dai loro frutti li riconoscerete. Si raccoglie forse uva dagli spini, o fichi dai rovi? 17Così ogni albero buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi; 18un albero buono non può produrre frutti cattivi, né un albero cattivo produrre frutti buoni. 19Ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco. 20Dai loro frutti dunque li riconoscerete.”.

 

Quando i servi del padrone di casa nella parabola della zizzania andarono ad avvisarlo del fatto che, nel campo di grano da lui seminato, erano apparse anche piantine diverse, questi rispose “Un nemico ha fatto questo” (Matteo 13.28). Non troviamo nelle parole di quell’uomo stupore, non uno scatto d’ira, ma soltanto un’affermazione che sembra a sostegno di un fatto inevitabile, conosciuto, previsto: “Un nemico ha fatto questo”. Il grano seminato era buono, ma una persona avversa, per minare il progetto del padrone di quel campo, aveva deciso di seminarvi un’erbacea destinata a far molto danno perché la zizzania si confonde facilmente con il grano e, soprattutto, produce una farina ad alto potere intossicante. Gesù spiegò poi ai discepoli la parabola con queste parole: “Colui che semina il buon seme è il Figlio dell’uomo. Il campo è il mondo. Il seme buono sono i figli del regno, la zizzania sono i figli del maligno e il nemico che l’ha seminata è il diavolo. La mietitura rappresenta la fine del mondo e i mietitori sono gli angeli. Come dunque si raccoglie la zizzania e si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo”.

Le parole dei versi che oggi esaminiamo credo coinvolgano anche questa parabola sotto il profilo dell’inevitabilità perché tutto quanto viene prodotto a danno dell’opera di Dio viene da Satana, da quel “nemico” che da quando fu creato Adamo con sua moglie ha sempre cercato in tutti i modi di rovinare la loro relazione con Lui. Certo non solo di loro due, ma di tutta la discendenza che ne sarebbe derivata, nella quale anche noi rientriamo.

È bello considerare che Nostro Signore, al verso 15, non mette solo genericamente in guardia i suoi uditori dai “falsi profeti”, ma dia in realtà uno spaccato storico dell’opera di Satana riguardo all’inquinamento del “campo di Dio” comprendendo passato, presente e futuro perché si tratta di personaggi che sono sempre esistiti, esistono ed esisteranno: pensiamo ai molti impostori apparsi ai tempi dell’Antico Patto, quindi al passato, al presente relativo con tutti quelli che pretendevano di essere il Messia in opposizione a Gesù, Unico autorizzato a rivelare il Padre, e per il futuro all’opera terribile che verrà fatta tanto nel campo generico del mondo, quanto in mezzo al gregge. “Vengono a voi in veste di pecore, ma dentro sono lupi rapaci”.

Gesù, nei versi in esame, si presenta così come unico Profeta abilitato a rivelare Dio Padre e anticipa al tempo stesso quanto poi dirà ai suoi discepoli sugli eventi futuri, dalla sua resurrezione al suo ritorno: “Sorgeranno molti falsi profeti e inganneranno molti; per il dilagare dell’iniquità si raffredderà l’amore di molti. Ma chi avrà perseverato fino alla fine, sarà salvato. Questo vangelo del Regno sarà annunziato a tutto il mondo, perché ne sia data testimonianza a tutti i popoli, e allora verrà la fine” (Matteo 24.11-12). Il falso profeta, che nella sua forma peggiore e potenza sorgerà negli “ultimi tempi”, agisce in ambito spirituale col fine di distogliere l’attenzione dell’essere umano dal Dio vero e unico col fine di perderlo. Si tratta di un tema dalla vastità enorme, che comprende falsa scienza e vera ignoranza, superstizione e soprattutto sfrutta la mancanza di conoscenza, a volte colpevole, di chi dovrebbe avere una fede radicata in quella Parola che non può sbagliare.

Già gli uditori di Gesù presenti sul monte, come già rilevato in altre volte occasioni, avevano gli elementi per comprendere le sue parole perché possedevano un riferimento non solo nella storia del loro popolo, ma soprattutto nella Legge di Mosè, dove in Deuteronomio 13.2-4 si legge “Qualora sorga in mezzo a te un profeta o un sognatore che ti proponga un segno o un prodigio, e il segno e il prodigio annunciato succeda, ed egli di dica «Seguiamo dèi stranieri, che tu non hai conosciuto, e serviamoli», tu non dovrai ascoltare le parole di quel profeta o di quel sognatore, perché il Signore, vostro Dio, vi mette alla prova per sapere se amate il Signore, vostro Dio, con tutto il cuore e con tutta l’anima”.

Il falso profeta, allora, è qualcosa di più complesso di un persecutore rozzo e ignorante; non è una persona immediatamente riconoscibile come negativa, ma può presentare le sue dottrine col sostegno di miracoli, come ad esempio avvenuto – andando indietro nel tempo – con i sacerdoti del Faraone che, per un certo tempo, riuscirono a compiere gli stessi prodigi di Mosè. E dando uno sguardo a quanto avvenuto nella Chiesa, non occorre andare ai periodi recenti della storia contemporanea, dove possiamo trovare i Testimoni di Geova o i Mormoni come espressione severa di travisamento dottrinale, ma basta trovare le tracce che i falsi profeti, o persone a loro collegabili, hanno lasciato negli scritti del Nuovo Patto: troviamo ad esempio Diòtrefe, personaggio particolare poi imitato da molti nel corso della storia, che cercava il primato nella sua Comunità. Giovanni nella sua terza lettera, scrive ”Ho scritto qualche parola alla Chiesa, ma Diòtrefe, che ambisce il primo posto tra loro, non ci vuole accogliere. Per questo, se verrò, gli rinfaccerò le cose che va facendo, sparlando di noi con discorsi maligni. Non contento di questo, non riceve i fratelli e impedisce di farlo a quelli che lo vorrebbero e li scaccia dalla Chiesa” (3 Giovanni vv.9-10).

Diòtrefe è allora l’immagine della persona presuntuosa e ambiziosa, di chi ha bisogno di un pubblico indipendentemente dalla qualità del messaggio e teme il confronto con esperienze e rivelazioni diverse e migliori, impedendo lo sviluppo della verità. Diòtrefe temeva le parole che Giovanni e i suoi collaboratori avrebbero potuto portare alla Chiesa di cui era certamente un anziano. Questo personaggio è però l’antitesi del pastore perché ha trasferito tutti gli inutili difetti umani in un campo spirituale e, con la propria condotta, fa solo danni non ammettendo la pluralità dei doni e arrestando la crescita della Chiesa.

Altro esempio negativo lo troviamo in Imeneo e Filéto e questa volta è l’apostolo Paolo a scrivere; “Evita le chiacchiere vuote e perverse, perché spingono sempre più all’empietà quelli che le fanno; la parola di costoro infatti si propagherà come una cancrena. Fra questi vi sono Imeneo e Fileto, i quali hanno deviato dalla verità, sostenendo che la resurrezione è già avvenuta e così sconvolgono la fede di alcuni” (2 Timoteo 2.16-18). In realtà, leggendo le lettere di Paolo come degli altri autori, vediamo che molto spesso si trovano nelle condizioni di confutare dottrine estranee; a volte sono errori apparentemente di poco conto, altre sono negazioni della divinità di Gesù e della sua opera di salvezza.

Il falso profeta viene in veste di pecora, ma dentro è un lupo malvagio: si dichiara quindi credente, ma agisce traviando i membri di una Chiesa a partire dai più immaturi. Riconoscere il falso profeta è piuttosto semplice, come scrive l’apostolo Giovanni: “Carissimi, non prestate fede ad ogni spirito, ma mettete alla prova gli spiriti, per saggiare se provengono veramente da Dio, poiché molti falsi profeti sono venuti nel mondo. In questo potete riconoscere lo Spirito di Dio: ogni spirito che riconosce Gesù Cristo venuto nella carne, è da Dio; ogni spirito che non riconosce Gesù, non è da Dio. Questo è lo spirito dell’anticristo che, come avete udito, viene, anzi è già nel mondo” (1 Giovanni 4.1-3). Lo spirito dell’anticristo sappiamo che si manifesterà ufficialmente nell’epoca stabilita da Dio, eppure ci viene detto che “anzi è già nel mondo”: come è indicativo quell’”anzi”! Ci parla veramente del fatto che presso il Signore “un giorno è come mille anni e mille anni sono come un giorno”, che tanto lo Spirito di Dio che quello a lui avverso agiscono al di là del tempo che scandisce le nostre giornate, gli anni e i secoli. Se c’è la salvezza, così importante, che si costruisce giorno per giorno quanto a identità del credente perché i doni la arricchiscono, c’è anche la perdizione, così terribile, e anche lei subisce lo stesso scorrere perché si forma poco a poco, in modo tanto impercettibile quanto inevitabile per chi non crede ponendosi come ostacolo allo sviluppo della fede.

Il falso profeta non è necessariamente una persona che propone insegnamenti sbagliati o alternativi alla fede genuina, ma è anche chi non fa nulla o agisce per scopi personali nonostante il ruolo da lui rivestito nella Chiesa; ricordiamo Isaia  56.10-11 a proposito dei “guardiani” di Israele, che per noi potrebbero raccordarsi proprio agli “anziani”, “pastori” o “sacerdoti” delle varie Chiese: “I suoi guardiani sono tutti ciechi, non capiscono nulla. Sono tutti cani muti, incapaci di abbaiare; sonnecchiano accovacciati, amano appisolarsi. Ma questi cani avidi, che non sanno saziarsi, sono pastori che non capiscono nulla”. Tutto questo si collega alle parole di Paolo agli anziani di Efeso: “Io so che dopo la mia partenza verranno fra voi lupi rapaci, che non risparmieranno il gregge; perfino in mezzo a voi sorgeranno alcuni a parlare di cose perverse, per attirare discepoli dietro di sé” (Atti 20.29-30).

Proprio per questo motivo il credente è chiamato a vagliare ogni messaggio che gli viene proposto non solo perché in esso possono nascondersi dei contenuti erronei volti a traviarlo senza che se ne accorga, ma anche perché sono possibili interventi soprannaturali per far deviare le masse dalla fede; lo abbiamo già letto e Gesù stesso avvisò i Suoi con queste parole: “…sorgeranno falsi cristi e falsi profeti e faranno segni e prodigi per ingannare, se possibile, gli eletti. Voi, però, fate attenzione! Io vi ho predetto tutto” (Marco 13.21-23).

I “segni e prodigi” sono forse i più pericolosi perché riguardano il campo dell’inspiegabile e sono quelli che, da sempre, spingono gli uomini a credere perché vanno a coinvolgere la loro parte più emotiva e primitiva. Anche qui però la Parola di Dio ha lasciato elementi importanti perché il gregge ne faccia tesoro e non cada nel laccio dell’Avversario; ricordiamo le parole ai Galati “Ma se anche noi stessi, oppure un angelo dal cielo vi annunciasse un vangelo diverso da quello che avete ricevuto, sia anàtema” (1.8). Dalle parole “noi stessi” e “un angelo dal cielo” possiamo capire fino a quanto può spingersi il piano di perdizione nei confronti di chi, divenendo figlio di Dio, si è fatto inevitabilmente bersaglio di Satana; poiché il successo della distruzione delle relazioni si misura anche nella quantità, ecco che l’interesse è rivolto alle masse proprio sfruttando la loro facilità ad essere manipolate e a credere ciò che viene loro propinato: “Nessuno che si compiace vanamente del culto degli angeli e corre dietro alle proprie immaginazioni, gonfio di orgoglio nella sua mente carnale, vi impedisca di conseguire il premio” (Colossesi 2.18). E qui penso alle apparizioni e ai falsi miracoli avvenuti in campo solo apparentemente cristiano che hanno traviato molti.

Ancora, sulla seduzione, sappiamo che “Anche Satana si traveste da angelo di luce. Non è perciò gran cosa se anche i suoi ministri si mascherano da ministri di giustizia; ma la loro fine sarà secondo le loro opere” (2 Corinti 11.14-15).

È allora doveroso che ogni cristiano si chieda sempre se quanto pratica rientra in ciò che il “Vangelo originale” contempla oppure no, se crede in cose aggiunte e appartenenti alla tradizione degli uomini o se legittimamente procedenti da Dio. Non si tratta di aderire a una Chiesa piuttosto che a un’altra, ma di buona pratica, quella essenziale, logica, giusta, che ci mette nelle condizioni di amare il Signore sempre di più e sempre di più essere amati. Perché come credenti siamo chiamati ad essere dei cercatori di verità e a camminare di conseguenza. Concludo presentando due realtà che ci descrivono il Salmo 92 e il profeta Geremia: “Il giusto fiorirà cine palma, crescerà come cedro del Libano; piantati nella casa del Signore, fioriranno negli atri del nostro Dio”. Al contrario: “Maledetto l’uomo che si confida nell’uomo e pone nella carne il suo sostegno, allontanando il suo cuore dal Signore. Sarà come un tamerisco nella steppa; non vedrà venire il bene, dimorerà in luoghi aridi nel deserto, in una terra di salsedine, dove nessuno può vivere”.

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05.49 – LA PORTA STRETTA (Matteo 7.13,14)

05.49 – La porta stretta (Matteo 7.13,14)

 

13Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che vi entrano. 14Quanto stretta è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e pochi sono quelli che la trovano!”.

 

Stiamo esaminando da un po’ di tempo una serie di inviti, o suggerimenti, dati da Gesù alla folla desiderosa di ascoltarlo e possiamo dire che tutti – il non dare giudizi, non accumulare tesori sulla terra e non essere “solleciti di cosa alcuna” – comportano uno spogliarsi della parte istintiva della persona. Tutto questo è in relazione coi versi di quest’oggi, quella “porta stretta” che a noi dice poco, per lo meno nella sua realtà, ma che fu compresa immediatamente dai presenti: nelle città circondate da mura c’era una porta “larga e spaziosa” che rimaneva aperta tutto il giorno e attraverso la quale si poteva transitare liberamente con le proprie masserizie; di sera e di notte, però, quella porta si chiudeva e ne restava aperta una, molto più piccola. Si trattava di quel famoso “ago” attraverso il quale un cammello passava a fatica e che troviamo menzionato in Matteo 19.24 con le parole “È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio”.

Ebbene Gesù qui parla di entrare “per la porta stretta”, passaggio possibile se non si hanno bagagli ingombranti da portarsi appresso: questi vanno lasciati fuori, anzi l’immagine suggerisce il passaggio di una persona leggera, al contrario di quanto avveniva per la porta “larga e spaziosa”, comoda da attraversare per coloro che volevano far presto, avevano cose da fare, carichi da portare comprati o da vendere, impegnati nella loro vita orizzontale accanto alla spietata implacabilità di un tempo che passa senza dare la possibilità di gustare in modo fermo e duraturo i momenti positivi che possono capitare.

L’ “Entrate” di Gesù non sottintende un arrivo, ma l’ingresso in un mondo nuovo, spirituale, quello del regno di Dio di cui un giorno disse “è dentro di voi”. E non è possibile entrare senza spogliarsi di tutto ciò che ingombra, appesantisce, rallenta proprio perché la porta è stretta. Certo allora Nostro Signore non poteva soffermarsi e spiegare nei dettagli cosa significasse passare per quell’ingresso: se aveva ancora molto da dire ai suoi discepoli, ma tacque perché non avrebbero potuto comprendere altre parole perché lo Spirito Santo non era ancora sceso, il suo compito era quello di gettare un seme che avrebbe germogliato in futuro. Ai presenti poteva solo dichiarare che, se avessero voluto, avrebbero potuto avere un futuro di eternità con Lui. Molti erano e sono quelli che passano per la porta ampia e spaziosa, pochi quelli che trovano quella stretta, là dove il trovare implica l’approfittare dell’opportunità di quel passaggio, parlando in termini umani, così scomodo, disagevole e imbarazzante. Per quel pertugio, di giorno, non passava nessuno.

È giusto porre un distinguo perché qui non si parla di operare rinunce particolari, ma di scelte che comunque gli uditori del sermone potevano capire: “Non entrare nella strada degli empi e non procedere nella via dei malvagi. Evita quella strada, non passarvi, sta’ lontano e passa oltre” (Proverbi 4.14,15). “Evita” perché la potresti trovare comoda e allettante. Ancora, “Beato l’uomo che non entra nel consiglio dei malvagi, non resta nella via dei peccatori e non siede in compagnia degli arroganti, ma nella legge del Signore trova la sua gioia, la sua legge medita giorno e notte” (Salmo 1.1), tutte figure della porta “larga e spaziosa”. La “porta stretta”, che Gesù stesso poi indicherà in lui stesso, è indicata da Isaia 55.7 quando scrive “L’empio abbandoni la sua via e l’uomo iniquo i suoi pensieri; ritorni al Signore che avrà misericordia di lui e al nostro Dio che largamente perdona”.

Entrare per la porta stretta” possiamo dire che è uno degli inviti più pressanti del Vangelo là dove esiste un essere umano che cerca la pace non con se stesso, ma con Dio: “Convertitevi dunque e cambiate vita, perché siano cancellati i vostri peccati e possano così giungere i tempi della consolazione da parte del Signore e così Egli vi mandi Colui che aveva destinato come Cristo, cioè Gesù” (Atti 3.19,20). Non si può passare per la porta stretta senza conversione, è questa che determina il perdono di Dio perché costituisce l’unica firma che possiamo porre sul nostro contratto di salvezza. Gesù diede una rivelazione piena e totale di quanto stiamo meditando con queste parole: “Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo” (Giovanni 10.9). Lui è la porta, perfetto garante del nostro futuro perché risorto, vincendo la morte che tocca a tutti gli uomini perché tutti si portano dietro il peccato dei loro progenitori. Entrare “attraverso” significa credere in Lui non solo come personaggio storico, ma come unica alternativa, base su cui costruire, riferirsi, come persona che assiste e veglia sul cammino che viene intrapreso. Certo, come Lui disse, per essere salvati, altrimenti ogni cosa sarebbe inutile. Chi studia la mente umana sa benissimo che la mancanza di un progetto è alla base e sintomo della depressione e di malattie che progrediscono col passare del tempo e, senza la salvezza come futuro certo e il conseguente cammino verso di lei, anche la vita di chi crede rischia di essere prima sterile e poi malata. E quando un progetto umano crolla, se la persona ha riversato in quello e su quello tutte le proprie energie, il corto circuito nella mente è inevitabile e viene descritto coi termini “pianto e stridore di denti” quando si parla dei perduti che, appunto, scopriranno troppo tardi che tutto quanto avranno fatto in vita non sarà servito a nulla. Perché la perdizione ha due aspetti, il primo è quello dell’anima come punto di arrivo estremo causato dal rifiuto costante della grazia, ma il secondo, quello che si vede subito, è la mancanza di uno scopo, dell’uomo o donna che diventano dei vuoti a perdere pur vivendo. E ancora ci aiutano i Proverbi dove, in 16.25, leggiamo “C’è una vita che sembra dritta per l’uomo, ma alla fine conduce su sentieri di morte”. “Alla fine”, quando è troppo tardi per tornare indietro, “alla fine” come risultato, “salario delle proprie fatiche” perché, comunque, camminare costa energie in ogni caso, sia che si percorra una strada in salita, sia che sia comoda e pianeggiante.

Torniamo però ai nostri testi: avuta la salvezza, vediamo due verbi, “entrare” e “uscire”, strettamente collegati al “trovare pascolo” che hanno connessione con la vita delle pecore sotto il “buon pastore” che non fa mancare loro nulla e per loro dà la sua vita. Le pecore di Gesù non vengono tenute solo nell’ovile, ma vengono da lui condotte come nel Salmo 22, spesso usato a sproposito e in modo quasi scaramantico nei funerali, quando spesso si vorrebbe che la Parola di Dio intervenisse, ma è troppo tardi: “Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla. Su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce. Mi rinfranca, mi guida per il giusto cammino, per amore del suo nome. Se dovessi camminare in una valle oscura, non temerei alcun male, perché tu sei con me”. Queste parole, lette in alcune cerimonie un’infinità di volte, hanno finito per diventare una specie di modo di dire, ma ci si dimentica che sono state scritte da chi ha sperimentato veramente su di sé quella realtà.

Entrate per la porta stretta” è un’esortazione che comporta un percorso a tappe, fatto di riflessione per chi l’ascolta perché non è qualcosa che può essere affrontato alla leggera trattandosi di scegliere se seguire Gesù o meno. Se il Vangelo si basa sul verso “Credi nel Signore Gesù e sarai salvato”, è indubbio che un aspetto fondamentale della dottrina cristiana si basi sul comportamento dell’uomo o della donna che hanno creduto come confacente alla fede che professa; viceversa avremmo superficialità approssimazione, errore. E qui ci viene in aiuto l’evangelista Luca che, riportando la frase di Gesù che stiamo esaminando, la scrive in modo leggermente diverso: “Sforzatevi di entrare per la porta stretta perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non vi riusciranno” (Luca 13.24). Qui, a differenza di Matteo, c’è l’idea di uno sforzo visto nello spogliarsi di ciò che non serve perché ostacola il passaggio, contrapposto al “cercare di entrare” da parte di molti: sono quelli che, sentito il messaggio evangelico, lo apprezzano teoricamente, ma lo vorrebbero adattare al loro impianto mentale, alle loro convinzioni, ai loro egoismi, a quel buonismo che tanto li fa apparire “giusti di fronte agli uomini”; da qui originano i tragici tentativi per entrare, pari a quelli dell’invitato alle nozze senza il vestito, o del giovane ricco che aveva osservato fin da bambino i precetti della Legge ma che non volle seguire Gesù, o delle vergini stolte che avevano portato le lampade, ma non l’olio necessario.

Qui ci si ricollega anche alle parole di Gesù a Nicodemo quando gli disse che “Se uno non nasce dall’alto, non può vedere il regno di Dio” (Giovanni 3.3,5), ma ancora di più, per noi che viviamo tempi cronologicamente e umanamente lontani dall’anno in cui Nostro Signore visse ed operò sulla terra, vale la descrizione sulla condotta cristiana che l’apostolo Paolo descrisse ai Colossesi e che accenniamo brevemente: “Se dunque siete risorti con Cristo– la professione di fede che ogni fratello o sorella ha fatto un giorno – cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio. Rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra”. Ecco, il pensiero, dono che ha l’uomo e che gli ha permesso di arrivare a scoperte avanzate in ogni campo, va indirizzato verso l’alto, “dove è Cristo”, quindi in un luogo preciso cui solo lo Spirito può condurre un cuore rinnovato. “Voi infatti siete morti– al peccato e al mondo – e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio– perché ancora non siamo con Loro -. Quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato– col Suo ritorno -, allora anche voi apparirete con lui nella gloria”. Ebbene a questo punto, se tutto quanto esposto fin’ora si è davvero verificato nella mente e nel cuore del credente, ecco rivelato l’impegno inevitabile perché, come diceva un fratello, “il cristiano è al tempo stesso sacerdote e vittima”: “Fate morire dunque ciò che appartiene alla terra – di cui siamo fatti -: impurità, immoralità, passioni, desideri cattivi e quella cupidigia che è l’idolatria– cioè avere falsi miti come riferimento -; a motivo di queste cose l’ira di Dio viene su coloro che gli disobbediscono. Anche voi un tempo eravate così, quando vivevate in questi vizi– ecco perché dobbiamo stare attenti a giudicare il nostro prossimo -. Ora invece gettate via tutte queste cose: ira, animosità, cattiveria, insulti e discorsi osceni, che escono dalla vostra bocca. Non dite menzogne gli uni agli altri– la reciprocità nella carne che rende gli uomini simili -: vi siete svestiti dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova per una piena conoscenza, a immagine di Colui che lo ha creato” (Colossesi 3.1-10).

Ecco, qui Paolo sintetizza il cammino, ricordando a chi è passato per la porta stretta che, se da un lato ha fatto bene ed è stato fautore di una scelta di cui non si pentirà “quando Cristo sarà manifestato” ma non solo, ha ancora tanto lavoro da fare visto nel far morire ciò che appartiene alla terra. Guai a pensare che, fattolo una volta, sia per sempre: il peccato infatti, non come condizione di base, ma come strumento di Satana per far cadere e compromettere la comunione col Signore, è sempre lì come possibilità di scelta: “Se non agisci bene, giace alla porta, verso di te è il suo istinto, e tu lo dominerai” (Genesi 4.7). Quante migliaia di anni separano questo verso dallo scritto paolino che abbiamo ricordato? Tanti, ma l’uomo è sempre lo stesso. “Entrare per la porta stretta”, allora equivale non solo credere nella morte e risurrezione di Cristo per i nostri peccati, ma anche accettare accogliendo questa conoscenza e metterla in pratica quotidianamente, come altrettanto quotidianamente salirà la richiesta al Padre di rimetterci i nostri debiti. E di rimetterli ai nostri debitori. Amen.

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05.48 – QUESTA È LA LEGGE E I PROFETI (Matteo 7.12)

05.48 – La Legge e i Profeti (Matteo 7.12)

12Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la legge e i profeti”.

Personalmente trovo questo verso, così chiaro, parente stretto di quello che dice “con il giudizio col quale giudicate, sarete giudicati voi e con la misura con la quale misurate sarà misurato a voi” (Matteo 7.2): se infatti ogni uomo tende a giudicare gli altri, ma non se stesso, allo stesso modo sa come vorrebbe essere trattato, ma così non agisce verso il suo prossimo. Sono contraddizioni, o forse difese, o ancora regole che il mondo ha stabilito per sopravvivere come se Dio non esistesse. Al limite, i più buoni hanno stravolto il senso delle parole che abbiamo letto trasformandolo nell’adagio “Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”, come riassunto del messaggio evangelico, molto più comodo e altrettanto meno impegnativo.

Il verso 12 ha un’importanza particolare: scritto in maniera identica da Matteo e Luca, è rivolto in modo specifico alla maggioranza degli ebrei che osservavano la legge morale e cerimoniale e trascuravano il principio dell’amore per il loro prossimo vanificando così la posizione che avrebbero voluto avere davanti a Dio. Più volte abbiamo parlato dei danni prodotti della religione fine a se stessa e spiegato quel “voglio misericordia e non sacrificio” più volte ricordato dai profeti. Citando Levitico 19.18 “Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso”, vediamo che “il tuo prossimo” sono “i figli del tuo popolo” e non le genti che vivevano, o avrebbero vissuto, nei territori limitrofi: Israele era il popolo eletto così come oggi lo è la Chiesa i cui componenti rischiano di vanificare la loro partecipazione alle adunanze e la loro testimonianza quando fanno attenzione ad osservare – ad esempio – i “dieci comandamenti” e poi non pensano che “chi ama l’altro ha adempiuto la legge” (Romani 13.10).

Addirittura l’amore può essere spento e soffocato quando si agisce per essere a posto con la propria coscienza e non perché il nostro sentire spirituale ci porta ad agire: “Lo scopo del comando è però la carità, che nasce da un cuore puro, da una buona coscienza e da una fede sincera. Deviando da questa linea alcuni si sono perduti in discorsi senza senso, pretendendo di essere dottori della Legge, mentre non capiscono né quello che dicono, né ciò di cui sono tanto sicuri” (1 Timoteo 5-7). Guardando a queste parole, vediamo che il comandamento esiste per un motivo e non è un ordine dato senza possibilità di essere discusso come può avvenire in ambito militare; ogni comandamento viene dato con lo scopo che l’uomo possa chiedersi il perché, usare la propria intelligenza per capire che, in realtà, è un “pedagogo verso Cristo, perché fossimo giudicati per la fede” (Galati 3.24). Gesù sapeva benissimo che le persone alle quali parlava ed insegnava erano sotto la Legge, dispensazione temporanea nell’attesa “della fede che doveva essere rivelata” (Ibid., v.23), per cui aveva l’autorità per dichiarare in cosa consistessero in realtà Legge e Profeti.

Teniamo presente le parole del verso 12 e riflettiamo su ciò che Lui ha fatto: con la Sua morte e resurrezione ha aperto la dispensazione della Grazia dandoci una prospettiva. È andato al di là del principio del fare agli altri quello che vorremmo ci fosse fatto perché nessuno avrebbe mai pensato né ad una porta aperta verso il cielo, né tantomeno di venire invitato ad entrarvi. È il Dio che si identifica nella creatura a tal punto da dare se stesso per lei. È il Dio che, nonostante il peccato, ha fatto sì che questo fosse vinto e lo ha fatto, una volta avvenuto, in modo tale che esattamente come in Eden l’uomo potesse scegliere: se Adamo avrebbe potuto vivere l’eternità non cibandosi del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male, l’uomo che vive nella dispensazione della Grazia può entrare in essa accettando Gesù Cristo come il suo unico salvatore e quindi vivendo in modo adeguato alla sua fede in Lui. È una scelta, allora come oggi, ed è un cammino. È triste constatare, guardando al percorso fatto dai due popoli nelle due dispensazioni, Israele e la Chiesa, come entrambi abbiano fallito nella testimonianza, salvo rari casi. Questo è successo, e succede sempre, ogni volta che anteponiamo noi stessi a Dio e vogliamo conservare quello che rimane della nostra natura.

Per molto tempo ho sentito dire che chi ha creduto in Cristo non ha bisogno di fare nulla perché è stato già trasformato dalla Grazia, ma il verso “se uno è in Cristo è una nuova creatura” si riferisce al risultato della fede della persona e non al fatto che viene catapultato in una sorta di Eden e in uno spazio spirituale nuovo a prescindere dove ogni cosa è bella e tutto è pace. La presenza o l’assenza dell’amore verso i fratelli è indice di salute o di una grave febbre spirituale, come scrive l’apostolo Giovanni nella sua prima lettera. Lì infatti leggiamo: “Carissimi, non vi scrivo un nuovo comandamento, ma un comandamento antico, che avete ricevuto da principio– che si trova nella Legge data da Dio a Mosè e da lui al popolo -. Il comandamento antico è la parola che avete udito– quindi la Legge e i Profeti -. Eppure vi scrivo un comandamento nuovo– nel senso di rivelazione -, e ciò è vero in lui e in voi, perché le tenebre stanno diradandosi e in lui già appare la luce vera. Chi dice di essere nella luce e odia il suo fratello, è ancora nelle tenebre. Chi ama il suo fratello, rimane nella luce e non vi è in lui alcuna occasione d’inciampo. Ma chi odia il suo fratello, è nelle tenebre, cammina nelle tenebre e non sa dove va, perché le tenebre hanno accecato i suoi occhi” (2.7-11).

Ora questa lettera è stata scritta non a persone da evangelizzare, ma a dei pagani convertiti al cristianesimo nell’Asia minore, quindi a dei salvati o presunti tali. Con le parole che abbiamo letto Giovanni non vuole escluderli dalla comunione con corpo e il sangue di Cristo, ma intende farli riflettere sulla posizione che hanno; in sintesi, non possiamo dirci nella luce se in noi manca l’amore per il prossimo, cioè per il fratello prima di tutto. E in questo tutti sono chiamati in causa, dai conduttori (o Anziani, o Pastori, o Sacerdoti a seconda della denominazione) a chi dichiara di aver creduto perché tutti, una volta ricevuto il battesimo consapevole, sono responsabili gli uni degli altri. Perché essere credenti comporta proprio il progressivo svuotamento di sé per arrivare al discernimento di ciò che è davvero necessario al nostro sostentamento, materiale e spirituale. Un giorno un fratello scrisse “Il risultato è proporzionale alla nostra autentica resa. Maggiore è la finzione, l’ipocrita recitazione di un ruolo, maggiore è la distanza da Cristo e dalla Croce”. Sembra, e lo è, l’enunciato di una legge fisica. Una fisica spirituale. Ecco perché le invettive di Gesù riguardarono sempre non i peccatori, le prostitute, i pubblicani e via dicendo, ma gli Scribi e i Farisei che, nonostante avessero gli strumenti per capire, si guardavano bene dal farlo perché avrebbero dovuto mettere in discussione tutta la loro vita, ravvedendosi.

Affrontando il nostro verso vediamo che quel “tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi” non richieda una grande intelligenza per essere compreso. Lo sappiamo già. Quel “tutto quanto” sono quelle “cose buone” che riusciamo a dare in quanto “malvagi”e che ora possono essere veramente “buone” in quanto date, fatte, da figli di Dio in possesso dello Spirito. Impossibile barare, saremmo come quelli che, di fronte al povero, gli dicono “vai in pace” e non gli danno di che sostenersi, non si prendono cura di lui, non fanno proprio il suo caso. Il mondo dominato dal peccato con uomini agli antipodi da Dio lo rileviamo nel rapporto di Oxfam diffuso alla vigilia del Forum economico di Davos nel 2017 in cui viene detto che otto miliardari posseggono la stessa ricchezza netta (426 miliardi di dollari) di metà della popolazione più povera del mondo, vale a dire 3,6 miliardi di persone.

Non è facile l’esercizio della pietà in un mondo di persone che scelgono volutamente di vivere di espedienti e spesso sono ricattatori morali di professione: occorre cercare, occorre vedere, serve il discernimento spirituale, la necessità di fare del bene mirato e non generalizzato, perché il dono arricchisca chi lo fa e chi lo riceve. Ricordiamo le parole di Giacomo: “Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano, e uno di voi dice loro «Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi», ma non date loro il necessario per il corpo, a che cosa serve?” (2.15,16).

Anche voi fatelo a loro”: quell’ “anche” determina l’assoluta identità reciproca, dev’essere una norma, un’inevitabile, insopprimibile gesto che sta a significare l’avvenuta comprensione del principio in base al quale chi è stato salvato da Dio non può non venire aiutato, il mettersi al suo posto.

Il “Voi” e “loro” di questo verso non sono soltanto dei pronomi, ma indicano due aree di competenza, due zone che da sempre sono distinte perché da sempre “io – noi”, “tu – voi”, “lui – loro” sono usati per dividere, distinguere, mettere in chiaro aree, competenze, territori che non possono essere invasi, ma che qui non esistono più. Perché il “voi” si fonde nel “loro”, forma un tutt’uno per quanto l’individuo in quanto tale rimanga sempre; si tratta di un raccordo alle parole dell’apostolo Paolo che scrisse “…non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Galati 2.20).

Possiamo concludere questa riflessione citando un episodio celebre, che sempre Matteo riporta, in cui un Dottore della Legge fu scelto dai Farisei per porre una domanda trabocchetto a Gesù su quale fosse il comandamento più importante della Legge. Non erano tanto i dieci quelli a cui quel Dottore alludeva, ma i 613 dei quali 248 positivi (“farai”) e 365 negativi (“non farai”). La risposta fu “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Da questi due comandamenti dipendono tutta la legge e i profeti” (22-36-40).

L’amore però non è un qualcosa che può suscitarsi a comando, nessuno può amare qualcuno perché gli viene detto di farlo, ma è un sentimento possibile solo quando esiste un rapporto di conoscenza e tanto più questo è stretto, tanto più questo è grande. E l’amore vero consiste nell’annullarsi nell’altro, è fidarsi, è sentirsi al sicuro, protetti, utilizzando chiaramente intelligenza e discernimento. Si può amare Dio, e lo si ama, quando si è da Lui trovati e ci si scopre onorati e colmi di gratitudine per questo. E crescendo nell’amore per lui, è inevitabile trovarsi con coloro che hanno ricevuto le medesime attenzioni. Ecco perché i due comandamenti formano un tutt’uno, ecco perché il secondo, che per questa nostra riflessione Gesù riassume con le parole “questa infatti è la legge e i profeti”, è il più grande, conduce a Cristo e da Lui proviene. Amen.

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