05.47- CHIEDETE E VI SARÀ DATO (Matteo 7.7-11)

05.47 – Chiedete e vi sarà dato (Matteo 7.7-11)

 

7Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. 8Perché chiunque chiede riceve, e chi cerca trova, e a chi bussa sarà aperto. 9Chi di voi, al figlio che gli chiede un pane, darà una pietra? 10E se gli chiede un pesce, gli darà una serpe? 11Se voi, dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele chiedono!”.

 

Con questo invito Gesù torna all’insegnamento sulla preghiera, anche se vista in modo diverso da quello esposto sul Padre Nostro al capitolo quinto. Stupisce nei versi che abbiamo letto la distanza intercorrente tra i due atteggiamenti e al tempo stesso l’identità dei rapporti: chi chiede ottiene, chi cerca trova, a chi bussa viene aperto proprio in virtù della relazione figlio – padre che si instaura: “A quanti lo hanno accolto, ha dato il potere di diventare figli di Dio” (Giovanni 1.12), verso che da un lato esprime l’universalità della condizione e dall’altro circoscrive la qualifica ricevuta; non tutti gli uomini sono figli di Dio, non tutti gli uomini sono fratelli.

L’apostolo Paolo approfondirà il concetto scrivendo “Quindi non sei più schiavo, ma figlio e, se figlio, sei anche erede per grazia di Dio” (Galati 4.7), realtà che esclude un rapporto a termine, ma ha una prospettiva di eternità: “Voi non siete più stranieri né ospiti, ma concittadini dei santi e famigliari di Dio” (Efesi 2.19). È importante soffermarsi su questi principi, perché determinano lo stato di “nuova creatura” in cui si trova chi ha creduto accettando Gesù nella propria vita, venendo cancellato il proprio passato proprio alla luce della nuova dignità ricevuta: “Un tempo, per la vostra ignoranza di Dio – perché non lo conoscevamo – voi eravate sottomessi a divinità che in realtà non lo sono – divinità presunte o create da noi, come il denaro e tutti gli altri falsi miti –. Ora che invece avete conosciuto Dio, anzi da lui siete stati conosciuti – proprio per il rapporto nuovo che si è venuto a creare –, come potete rivolgervi di nuovo a quei deboli e miserabili elementi, ai quali di nuovo come un tempo volete servire?” (Galati 4.8,9).

Con questi versi l’apostolo Paolo ricorda almeno due importanti verità: primo, la condizione di estraneità alla realtà di Dio per l’ignoranza in cui vivevamo e, secondo, la necessità di perseverare nella nuova vita ricevuta rimanendo con la mente uniti alla Verità. Si tratta di un metodo che molti nelle chiese della Galazia avevano smesso di perseguire tornando a “quei deboli e miserabili elementi” di cui un tempo erano servi, influenzati dal giudaismo e da quanti volevano mettere sullo stesso piano Legge e Grazia.

Ho tratteggiato questo piccolo quadro per sottolineare che le tre azioni descritte da Gesù al verso settimo, “Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto”, sono al tempo stesso un invito e una norma di relazione con promessa; impossibile non ottenere chiedendo, non trovare cercando, che non ci venga aperta la porta qualora noi bussiamo a quella della Grazia: non siamo stranieri né ospiti, come abbiamo letto, ed è soprattutto quel cercare e trovare che ci ricorda quando noi, alla ricerca di una ragione di vita o consapevoli dell’inquietudine derivante dalla presa d’atto che nulla di quanto ci circondava poteva saziarci, ci siamo messi alla ricerca di una ragione superiore chiedendo a quel Dio che non conoscevamo, di rivelarsi. E qui ciascun credente potrebbe narrare la sua esperienza e la scoprirebbe diversa da quella del proprio fratello, o sorella. Personalmente amo ricordare quel passo di Isaia che dice “Cercate il Signore mentre lo si può trovare, invocatelo mentre è vicino” (Isaia 55.6), oppure la verità stabilita in Salmo 145.18 “Il Signore è vicino a chiunque lo invoca, a quanti lo invocano con sincerità”. Perché? Perché anche oggi, nonostante i tempi moralmente difficili, esiste chi lo cerca con quella sincerità che esclude doppi fini. Si cerca il Signore perché non si hanno alternative, perché viene in momento in cui scopriamo di essere soli nonostante amici, compagne, fidanzate o mogli, perché la sazietà non può venire dal nostro simile, né da quanto il mondo può offrire.

Dobbiamo sempre considerare che la folla presente sul pianoro del monte aveva tutti gli elementi per non considerarlo uno dei tanti predicatori che saltuariamente comparivano in quella regione; Luca infatti, al quale dedicheremo qualche riflessione una volta concluse quelle su Matteo, inquadra l’ambiente con parole illuminanti: “C’era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e Sidone, che erano venuti per ascoltarlo ed esser guariti dalle sue malattie; anche quelli che erano tormentati da spiriti immondi, venivano guariti. Tutta la folla cercava di toccarlo, perché da lui usciva una forza che guariva tutti” (Luca 6.17,18). E Luca era medico. E chi era presente aveva dovuto fare della strada, anche molta, per trovare Gesù. Aveva dovuto cercarlo. Aveva dovuto iniziare un percorso per uno scopo, per vedere se effettivamente quell’uomo che parlava di Dio con autorità e faceva miracoli avrebbe potuto fare qualcosa per loro individualmente.

Ecco allora che le promesse delle tre azioni contenute nell’invito di Gesù sono a largo raggio e coinvolgono tutti quelli che si pongono delle domande e insistono fino a quando non hanno ottenuto delle risposte, fino a quando non hanno trovato. Esattamente come tutti quegli uomini e donne che, nell’episodio descritto da Matteo e Luca, erano presenti dopo aver tanto camminato ed aver fatto la fatica di salire su quel monte. Certo, tutta la Bibbia narra di uomini che hanno avuto questa esperienza, hanno cercato e trovato ma, anche, sono stati trovati perché scelti, eletti come Saulo di Tarso che così spesso citiamo. Su tutto, però, si elevano le parole di Proverbi 8.17 in cui leggiamo “Io amo quelli che mi amano, e quelli che mi cercano mi trovano”. Gesù non poteva non lasciarsi trovare e, guarendo, dimostrare andare ben oltre il fatto di essere un bravo filosofo o un buon parlatore.

È però necessario soffermarci sulla prima promessa, “chiedete e vi sarà dato”, perché ho notato che spesso si tende a confonderla e ad usarla ingenuamente, infantilmente, come un ricatto: in pratica, chiedere a Dio per noi stessi aggrappandoci al testo letterale senza riflettere sulla portata di quanto domandiamo, della serie “hai promesso, adesso mi dai”. Allora si scambia la fede con l’autoconvincimento, forti ad esempio del testo che recita “Tutto quello che chiederete con fede nella preghiera, lo otterrete” (Matteo 21.22) oppure Marco 11.24 “Tutto quello che chiederete nella preghiera, abbiate fede di averlo ottenuto e vi accadrà”. Altri, quasi scaramanticamente, concludono le loro preghiere pubbliche “Nel nome di Gesù” perché così è stato scritto e Lui stesso lo ha raccomandato dicendo “E qualunque cosa chiederete nel mio nome, la farò, perché il Padre sia glorificato nel Figlio. Finora non avete chiesto nulla nel mio nome; chiedete e otterrete, perché la vostra gioia sia piena” (Giovanni 16.23,24).

Chiedere qualcosa “nel nome” di Gesù però non significa usare il suo Nome quasi fosse una formula magica, ma proporre una preghiera che abbia in Cristo il suo Amen, cioè risponda al Suo e al nostro essere. È un esame perché il Nome, come sappiamo, non può essere detto invano. Ecco, qui cominciamo a intravedere il senso della promessa “chiedete e vi sarà dato”; quando infatti Nostro Signore si trovò a spiegare ai discepoli il loro ruolo e condizione nella storia, disse “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga, perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda” (Giovanni 15.16). Il verso successivo poi, è illuminante: “Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto”. Qui sta la promessa, la preghiera, l’esistenza cristiana, senza sminuire le preghiere che vengono rivolte al Padre per avere l’aiuto, il soccorso anche materiale. Non mi stancherò mai di ricordare l’esempio di Salomone, premiato da Dio con la sapienza e la regalità perché gliela chiese al posto di onori e ricchezze nonostante, essendo giovane, fosse sicuramente sensibile ad esse. Ecco perché dovremmo chiedere al Padre l’intelligenza e il discernimento prima di qualsiasi altra cosa, rendendoci docili al suo insegnamento. Giacomo, “fratello del signore” scrive “Se qualcuno di voi è privo di sapienza, la domandi a Dio, che dona a tutti con semplicità e senza condizioni, e gli sarà data. La domandi però con fede, senza esitare, perché chi esita somiglia all’onda del mare, mossa e agitata dal vento. Un uomo così non pensi di ricevere qualcosa dal Signore: è un indeciso, instabile in tutte le sue azioni” (Giacomo 1.5). La fede quindi non è autoconvincimento o determinazione, ma il semplice sapere che ci rivolgiamo a Colui che può. È una scelta, la stessa che fecero tutti coloro che, nel Vangelo, si rivolsero a Gesù per guarire. La fede è consapevolezza, la gioia di sapere che quanto chiediamo viene valutato da Dio che, conoscendoci a differenza nostra, ci dà quello di cui abbiamo bisogno e non ciò che crediamo sia importante per noi. Chi esita, come abbiamo letto, non è chi ha timore di non ricevere, ma chi ora chiede e ora si ritrae, chi prega tanto per farlo e sa già in partenza che, eventualmente ottenendo, non saprebbe cosa farsene perché non ha prospettive. Ecco perché Giacomo scrive “Un uomo così non pensi di ricevere qualcosa dal Signore”.

Ai versi 9 e 10 Gesù fa riflettere sulla relazione padre – figlio nel mondo naturale: nessun genitore darebbe una pietra a un figlio che gli chiede del pane, o una serpe al posto di un pesce (Luca scrive “O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione?”), nonostante sia “malvagio”, cioè “non buono” secondo le aspettative di Dio che, parlando dopo il giudizio del diluvio, disse “Non maledirò più il suolo a causa dell’uomo, perché ogni intento del cuore umano è incline al male fin dall’adolescenza; né colpirò più ogni essere vivente come ho fatto” (Genesi 8.21). Allora Gesù invita i suoi uditori a riflettere sul fatto che, se l’uomo nonostante la sua impurità interiore è in grado di provvedere dando “buone cose” ai propri figli, Dio che è perfetto potrà andare ben oltre. Rileggendo il testo, “Se vuoi, dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliene chiedono”.

Cose buone” provengono da un padre umano imperfetto per il sostentamento dei figli, “Cose buone” provengono dal Padre perfetto che è nei cieli. Luca va più nello specifico e scrive “Quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono” nel senso dei doni, delle rivelazioni, illuminazioni, di tutto ciò che serve ad orientamento in una terra che non è nostra e nella quale ogni vero cristiano non può che trovarsi a disagio, talvolta anche profondo. Ed è poi da sottolineare che anche qui si ritorna all’inizio della nostra lettura, del “chiedere e ricevere” perché il Padre dà in dono le “cose buone” quando gli vengono richieste: a una richiesta di chi è figlio corrisponde un “dare” perfetto, cioè secondo le nostre capacità, possibilità che abbiamo di gestire quanto ci viene donato. Infatti: “E questa è la fiducia che abbiamo in lui: qualunque cosa gli chiediamo secondo la sua volontà, Egli ci ascolta. E se sappiamo che ci ascolta in tutto quello che gli chiediamo, sappiamo di avere già da Lui quanto abbiamo chiesto” (1 Giovanni 5.14). È questa una certezza che abbiamo e che ci aiuta di molto a vivere nel deserto affollato e rumoroso che è la terra. Amen.

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05.46 – CANI E PORCI (Matteo 7.6)

05.47 – Cani e porci (Matteo 7.6)

 

6Non date le cose sante ai cani e non gettate le vostre perle davanti ai porci, perché non le calpestino con le loro zampe e poi si voltino per sbranarvi”.

 

“Cani e porci” è un detto popolare usato per indicare la presenza delle persone più disparate in un determinato contesto e affonda le sue origini in questo passo, anche se stravolgendone il significato: con l’esortazione qui contenuta Gesù intende riferirsi ad una categoria specifica di persone, non generalizzando come fanno molti che ritengono “cani” e “porci” tutti quanti non la pensano come loro da un punto di vista religioso.

Il cane e il maiale erano secondo la Legge, e quindi al tempo di Nostro Signore, animali considerati impuri al pari di altri, ma a differenza – ad esempio – di un coniglio, vivevano una realtà diversa: alcuni cani erano tenuti nelle case (pensiamo alla parabola del ricco e Lazzaro e le parole di Gesù alla donna sirofenicia), altri venivano allevati per la caccia o perché rappresentavano un valido aiuto ai pastori, ma per lo più, quando si parlava negativamente di loro, li si associava a quelli selvatici, che vivevano in branco presso i depositi di spazzatura fuori dalle mura delle città, spesso feroci e pericolosi. Il cane, anche oggi, a differenza del gatto non può andare libero nei centri abitati e, se in branco, può aggredire e uccidere, per non citare alcune razze suscettibili a moti incontrollabili di aggressività che spesso si concludono tragicamente anche perché affidati a proprietari che non fanno prevenzione e controllo su di loro. Il cane non era trattato come da noi oggi, ma con una distanza che impediva una sua “umanizzazione” sia perché animale, sia perché impuro, cioè non ci si poteva cibare della sua carne. Ritenuto imprevedibile come tutti gli esseri non dotati di ragione, pericoloso nonostante le eccezioni, è figura dell’impurità abbinata al disordine morale, all’irrazionalità e alla violenza; ricordiamo le parole del Gesù glorificato in Apocalisse 22.15 “Fuori i cani, i maghi, gli immorali, gli omicidi, gli idolatri e chiunque ama e pratica la menzogna”. In questo verso vediamo che i “cani” sono i primi a venire cacciati fuori dalla Città di Dio: sono quelli che non hanno dignità, quel rimasuglio impuro e immondo che non sono maghi, cioè coloro che incantano e distolgono l’attenzione che dovrebbe essere indirizzata verso Dio. Non sono immorali, cioè privi di quel senso che naturalmente guida la coscienza nell’uomo ed è in lui presente a prescindere dal fatto che creda o meno. Non sono neppure omicidi o idolatri, cioè chi serve altri (potere, ricchezze, condizione sociale eccetera) come se fosse Dio. Il cane, poi, sbrana e l’oltraggio più grande in tal senso lo ricevette Iezebel, le cui vicende sono narrate nel primo libro dei Re: Moglie di Akhab re d’Israele, favorì il culto di Baal mantenendo 450 suoi profeti e cercando di sterminare quelli di Dio, su di lei si abbatté il giudizio anticipato da Elia: “I cani divoreranno la carne di Izebel(…) e il cadavere di Izebel sarà(…) come letame sulla superficie del suolo, in modo che non si potrà dire «Questa è Izebel». Così avvenne: ““Egli disse: «Buttatela giù!» Quelli la buttarono; e il suo sangue schizzò contro il muro e contro i cavalli. Ieu le passò sopra, calpestandola; poi entrò, mangiò e bevve, quindi disse: «Andate a vedere quella maledetta donna e sotterratela, poiché è figlia di un re». Andarono dunque per sotterrarla, ma non trovarono di lei altro che il cranio, i piedi e le mani. E tornarono a riferir la cosa a Ieu, il quale disse: «Questa è la parola del SIGNORE pronunciata per mezzo del suo servo Elia il Tisbita, quando disse: “I cani divoreranno la carne di Izebel nel campo d’Izreel; e il cadavere di Izebel sarà, nel campo d’Izreel, come letame sulla superficie del suolo, in modo che non si potrà dire: ‘Questa è Izebel'”»(2 Re 9:33-37).

Il cane è anche sinonimo di falsità e quando in Filippesi 3.2 andiamo alle raccomandazioni dell’apostolo Paolo, leggiamo “Guardatevi dai cani, guardatevi dai cattivi operai, guardatevi da quelli che si fanno mutilare”, cioè l’esortazione è diffidare ancora una volta dei profani e impuri. “Quelli che si fanno mutilare” è poi un riferimento a coloro che portavano avanti la circoncisione come requisito per appartenere al popolo di Dio e guardavano ancora con disprezzo chi non era circonciso.

Il maiale, invece, considerato impuro come il cane, era più sinonimo di sporcizia e degradazione. Non lo si trovava certo nelle case, ma in branco, non venendo allevato. Vero è che abbiamo l’episodio dell’indemoniato di Gadara in cui sono citate persone che pascolavano i porci, ma era un territorio dalla popolazione mista, non appartenente a Israele; piuttosto, si può citare la parabola del figliol prodigo, che capisce il suo errore e a quale livello di bassezza era arrivato nel momento in cui fu mandato a pascolare i porci e avrebbe voluto saziarsi con le carrube che quelli mangiavano (Luca 15.15,16). Si può ricordare il detto di Proverbi 11.2 “Una bella donna a cui manca la discrezione è come un anello d’oro nel muso di un porco”, che rappresenta l’assurdo, l’inutilità, contrasto e svilimento assieme. Anche il profeta Isaia impiega questi animali per sottolineare l’ipocrisia di chi è religioso solo esteriormente: “Così dice il Signore: «Il cielo è il mio trono, la terra lo sgabello dei miei piedi. Quale casa mi potreste costruire? In quale luogo potrei fissare la mia dimora? Tutte queste cose ha fatto la mia mano ed esse sono mie – oracolo del Signore –. Su chi volgerò lo sguardo? Sull’umile e su chi ha lo spirito contrito e su chi trema alla mia parola. Uno sacrifica un giovenco e poi uccide un uomo. Uno immola una pecora e poi strozza un cane. Uno presenta un’offerta e poi sangue di porco. Uno brucia incenso e poi venera l’iniquità. Costoro hanno scelto le loro vie, essi si dilettano dei loro abomini; anch’io sceglierò la loro sventura e farò piombare su di loro ciò che temono»” (Isaia 66.1-4). Le due facce dell’ipocrita sono l’opposto dell’umile, di chi ha lo spirito contrito e di chi trema alla Parola del Signore, tutti e tre comportamenti che provengono dall’acquisizione del principio di ciò che siamo realmente.

Ebbene, Gesù con il verso oggetto di meditazione parla di non dare “ciò che è santo ai cani”, esempio immediatamente compreso dai suoi uditori perché si rifà ai sacerdoti, cui spettava ciò che rimaneva dei sacrifici; leggiamo in Numeri 18.8-10 “Il Signore parlò ancora ad Aaronne: «Ecco, io ti do il diritto su tutto ciò che si preleva per me, cioè su tutte le cose consacrate dagli israeliti; le do a te e ai tuoi figli, a motivo della tua unzione, per legge perenne. Questo ti apparterrà fra le cose santissime, fra le loro offerte destinate al fuoco: ogni oblazione, ogni sacrificio per il peccato e ogni sacrificio di riparazione che mi presenteranno; sono tutte cose santissime che apparterranno a te e ai tuoi figli. Le mangerai in un luogo santissimo; ne mangerà ogni maschio. Le tratterai come cose sante”. Ricordiamo quando Davide mangiò i pani di presentazione, episodio ricordato in un altro studio: “Il sacerdote– Achimelec – gli diede il pane sacro perché non c’era altro pane che quello dell’offerta, ritirato dalla presenza del Signore, per mettervi pane fresco nel giorno in cui quello veniva tolto” (1 Samuele 21.7), non fu un gesto che sicuramente rientrò nel caso qui proposto da Gesù.

“Dare ciò che è santo ai cani”, allora, significa per un credente sapersi fermare nella sua testimonianza e valutare attentamente le persone a cui questa si indirizza. Del resto le istruzioni di Gesù ai dodici prima di inviarli a predicare, furono molto chiare: “In qualunque città o villaggio entrate, domandate chi là sia degno e rimanetevi finché non sarete partiti. Entrando nella casa, rivolgetele il saluto. Se quella casa ne è degna, la vostra pace scenda su di essa, ma se non ne è degna, la vostra pace ritorni a voi. Se qualcuno poi non vi accoglie e non dà ascolto alle vostre parole, uscite da quella casa o da quella città e scuotete la polvere dei vostri piedi. In verità vi dico: nel giorno del giudizio la terra di Sodoma e Gomorra sarà trattata meno duramente di quella città” (Matteo 10.11-15). Sono parole importanti: c’è una pace che scende se accolta e torna se rifiutata, un rimanere di chi annuncia la parola o un allontanamento, un dono di salvezza o un sigillo a giudizio.

E la stessa cosa vale per il saggio e lo stolto: “Chi corregge lo spavaldo ne riceve disprezzo e chi riprende il malvagio ne riceve oltraggio. Non rimproverare lo spavaldo per non farti odiare; rimprovera il saggio ed egli ti sarà grato. Dà consigli al saggio, ed egli diventerà ancora più saggio; istruisci il giusto ed egli aumenterà il sapere” (Proverbi 9.7.9).

Se ciò che è santo si riferisce alla dottrina e ai misteri di Dio rivelati, le “perle” rappresentano la saggezza ad essa collegata. La perla, per come viene prodotta da alcuni molluschi, è anche figura della sofferenza e dello sforzo personale di chi vuol rimanere unito a Lui, con Lui camminare e vivere. Preziosa e rara, ha connessione con la “Sapienza” cui sono dedicati i primi capitoli del libro dei Proverbi, “Albero di vita per chi l’afferra, fonte di beatitudine per chi ad essa si stringe” (3.18). La Sapienza a sua volta altri non è che la figura di Gesù Cristo, ed è scritto che “ha più pregio delle perle” (3.15) e Giobbe disse “Coralli e perle non meritano menzione: l’acquisto della sapienza non si fa con le gemme” (28.18).

Al non dare ciò che è santo ai cani si accompagna la proibizione di dare le “nostre perle” ai porci, quindi abbiamo una fonte, cioè che appunto è santo, e una sua conseguenza vista nel risultato della vicinanza ad essa. Del resto fu detto “Chi ha sete venga a me e beva. Chi crede in me, come dice la Scrittura, fiumi d’acqua viva sgorgheranno dal suo seno” (Giovanni 7.38).

Ciò che è santo ai cani e perle ai porci sono quattro elementi simili tra loro (in coppia, vale a dire ciò che è santo con le perle e i cani con i porci), ma assolutamente opposti ai quali non è consentito incontrarsi pena il catastrofico risultato di un calpestio oltraggioso e poi dello sbranamento, che troviamo figurativamente descritto nella parabola delle nozze quando, di fronte agli inviti del Re, “Non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero” (Matteo 22.5-6). Si noti poi che il nostro verso riporta il “calpestio” e il “voltarsi per sbranare” come azione inevitabile, in linea col carattere dell’animale. Il calpestare è indice di disprezzo. Calpestando una cosa la si affonda fino a farla scomparire e qui suonano – o dovrebbero suonare per molti anche oggi – degne di seria preoccupazione le parole dell’Autore alla leggera agli Ebrei: “Quando uno ha violato la legge di Mosè, viene messo a morte senza pietà sulla parola di due o tre testimoni. Di quanto peggiore castigo pensate che sarà giudicato meritevole chi avrà calpestato il Figlio di Dio e ritenuto profano quel sangue dell’alleanza, dal quale è stato santificato, e avrà disprezzato lo Spirito della grazia? Conosciamo infatti colui che ha detto «A me la vendetta! Io darò la retribuzione!». E ancora: «Il Signore giudicherà il suo popolo». È terribile cadere nelle mani del Dio vivente!” (10.26-31).

Tornando al nostro verso, Gesù invita chi crede in Lui ad esercitare giudizio e discernimento: non suggerisce ai suoi uditori il silenzio né proibisce di parlare a chiunque, ma specificamente ai cani e ai porci, esseri ben precisi figura di altrettanti, uomini e donne, aventi il loro stesso carattere e pericolosità.

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05.45 – NON GIUDICATE PER NON ESSERE GIUDICATI (Matteo 7.1-5)

05.45 – Non giudicare per non essere giudicati (Matteo 7.1-5)

 

1Non giudicate, per non essere giudicati; perché con il giudizio col quale giudicate sarete giudicati voi 2e con la misura con la quale misurate sarà misurato a voi. 3Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo? 4O come dirai al tuo fratello «Lascia che tolga la pagliuzza dal tuo occhio», mentre nel tuo c’è la trave? 5Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello”.

 

Quello del giudicare è un tema su cui Nostro Signore ha più volte accennato nel sermone sul monte, illustrando il rapporto molto stretto che intercorre tra il metro che l’uomo usa per valutare e trattare il prossimo e quello che il Padre ha, di riflesso, nei confronti di chi agisce in tal senso. “Non giudicate per non essere giudicati” oppure, come afferma Luca nel parallelo, “non condannate e non sarete condannati” (Luca 6.37). I versi che abbiamo letto da 3 a 5, poi, illustrano un modo di fare purtroppo istintivo in ciascuno di noi e non a caso Esopo, scrittore e favolista greco vissuto nel 500 a.C., affermò che Giove avesse stabilito che ogni uomo portasse addosso due bisacce, una davanti e una dietro, la prima riempita di tutti i difetti, errori e vizi degli altri uomini e la seconda di tutte le qualità negative del portatore. Ora, essendo per impossibile guardare nella borsa portata di spalle, cioè quella contenenti i propri difetti, gli uomini erano portati a scrutare in quella che avevano davanti, quella contenente le mancanze e le deficienze degli altri. Così una caratteristica della nostra natura è quella di essere sempre pronti a criticare ogni minimo errore altrui, ma tenendosi accuratamente lontani dal valutare i propri.

Nel passo in esame però, Gesù non vuole parlare di un’usanza purtroppo frequente, ma delle conseguenze che l’azione del giudizio comporta sotto l’aspetto dell’universalità del peccato. Mi spiego meglio:  queste parole sono rivolte a tutti indipendentemente dal fatto che credano in Lui o meno perché il giudicare gli altri è un’azione che purtroppo viene istintiva per cui Nostro Signore attacca il metodo, denuncia un costume dando al tempo stesso un avvertimento. Quello che leggiamo nei versi di Matteo è importante a tal punto da spingere l’apostolo Paolo a trattare nella sua lettera ai Romani lo stesso argomento; alla fine del capitolo primo parla della corruzione del costumi insita nel paganesimo, ma all’inizio del secondo irrompe con un preciso avvertimento rivolto a chi si reputa migliore di loro: “O uomo, chiunque tu sia che giudichi, non sei scusabile perché, giudicando gli altri, tu condanni te stesso perché, pur giudicando, fai le stesse cose.(…) E credi che, giudicando quelli che fanno ciò che tu fai, potrai scampare dal giudizio di Dio?” (2.1,3). Ecco allora che tanto Gesù quanto Paolo non fanno riferimento al giudizio che viene espresso nei tribunali, o nella Chiesa che dovrebbe essere governata da persone mature e in grado di distinguere il bene dal male, ma proprio a quell’atteggiamento che scaturisce dall’ignoranza, dal voler vivere comodi nella propria piccolezza, da una voluta, mancata crescita spirituale. E tutto questo porta al trionfo della carne, terreno prediletto dell’Avversario. Non è condannando gli altri che possiamo trovare giustificazione ai nostri o al nostro stato di peccatori, ma caso mai ricercando in noi quei germi causa di comportamenti errati. Quando ero immaturo, anch’io ero pronto a giudicare i miei fratelli, ma lo facevo senza pensare che guardare le mancanze degli altri era un modo per non confrontare le mie alla luce della Parola di Dio.

Il giudicare cui fanno riferimento Nostro Signore e gli apostoli quando trattano l’argomento è proprio l’assenza di amore, della responsabilità che comporta l’essere credenti e si estende a tante altre cose perché il giudizio non è un’azione, ma un modo di essere, di vedere le cose, è un’impostazione di mentalità e quindi di vita. A conferma Giacomo, ponendo una situazione del tutto differente a quella del valutare gli altri alla luce della Parola di Dio, scrive così: “Supponiamo che entri in una vostra adunanza qualcuno con un anello al dito, vestito splendidamente, ed entri anche un povero con un vestito logoro. Se voi guardate a colui che è vestito splendidamente e gli dite «Tu siediti qui, comodo» e al povero dite «Tu mettiti in piedi lì» oppure «Siediti qui ai piedi del mio sgabello», non fate in voi stessi preferenze e non siete giudici dai giudizi perversi?” (2.3,4). E poco più aventi: “Parlate e agite come persone che devono essere giudicate secondo una legge di libertà, perché il giudizio sarà senza misericordia contro chi non avrà usato misericordia; la misericordia invece ha sempre la meglio sul giudizio” (vv.12,13). Una “legge di libertà” non è quella che tiene conto rigidamente di un principio, ma lo valuta e lo adatta alla realtà della persona, tiene cioè conto del vissuto di essa e degli elementi che hanno prodotto una determinata situazione. La “legge di libertà” non contempla il tollerare condotte o uno stile di vita basato sul peccato, ma tutto ciò che può essere messo in atto per l’accoglienza e la comprensione prima di quel famoso “sìati come il pagano e il pubblicano”, quello sì giudizio che penalizza la vita di chi non può più frequentare la comunità perché messosi contro di lei con azioni o metodi di pensiero a lei estranei. La misericordia, poi, è all’opposto del giudizio: la prima è un sentimento di compassione (cum-patire, cioè patire assieme identificandosi) attivo, il secondo comporta una sentenza che, se definitiva, non consente possibilità di appello. Se pensiamo alla grazia che Dio ha fatto all’uomo, che ha mostrato la Sua misericordia “facendosi carne e venendo ad abitare fra noi”, va da sé comprendere che il giudizio non ci compete.

Impegnàti quotidianamente a vivere, spesso non si pensa che si può sempre morire. Impegnàti quotidianamente a vivere spesso facendo le cose di sempre e con gli stessi impegni, sociali o di lavoro, prendiamo appuntamenti per i giorni che verranno e così lo scorrere del tempo sembra appartenerci con tutto ciò che ci circonda, compresi gli altri che giudichiamo senza riflettere. Più guardiamo per terra, più ne assorbiamo piccolezze e miserie. Molti, addirittura, preferiscono percorrere la facile ed ovvia strada dello sguardo basso, orizzontale, e in basso restano. Da qui deriva un facile giudicare e un facile misurare il cui esercizio viene fatto in modo quasi scontato. Illuminante in proposito l’episodio della donna adultera che molti volevano lapidare convinti di adempiere alla Legge e le parole di Gesù: “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei” (Giovanni 8.7); il risultato fu “Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani fino agli ultimi” (v.9). Questo significa che c’è una coscienza che si può ascoltare, che guardarsi dentro è possibile e non lo si fa per pigrizia, perché giudicare gli altri è sempre più comodo che non rivolgere la stessa attenzione verso se stessi. A quell’imminente lapidazione erano presenti uomini di tutte le età e capirono che l’essere “senza peccato” era una condizione che contemplava due condizioni: la prima era l’essere esenti dalla colpa di adulterio, che può essere consumato materialmente o anche solo pensato, la seconda l’essere esenti da qualsiasi colpa, quindi santi, puri. E nessuno dei presenti si reputò tale. Fu così che nessuno fu in grado di lanciare per primo la sua pietra. Chi guarda dentro di sé scopre di avere un lavoro da fare a tal punto da non avere tempo per giudicare gli altri.

C’è però un errore ancor più grossolano che si può commettere ed è quello di avere la pretesa di togliere la pagliuzza dall’occhio altrui senza far caso che proprio noi abbiamo una trave. L’originale greco usato per “pagliuzza” è “kàrfos” che significa “piccola cosa secca, scheggia” per cui sta a significare le colpe minime, al contrario della trave. C’è poi il termine “Ipocrita” che Gesù spesso usa nei confronti dei Farisei e chi si identifica in loro: sappiamo che questi giudicavano il loro prossimo dall’alto della loro presunta santità. Si crogiolavano in lei a motivo dell’assiduità con cui pregavano e studiavano le Scritture, crescendo nella conoscenza, ma proporzionalmente anche nella ristrettezza mentale visto che non instauravano un rapporto col loro Dio e sconfessavano con le azioni ciò che professavano con le labbra. Ricordiamo infatti le parole “Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Fate dunque e osservate tutte le cose che vi diranno – perché teoricamente giuste– ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno” (Matteo 23.2,3). E per noi, oggi, i Farisei rappresentano quei credenti che studiano con impegno le Scritture, ma finiscono per inorgoglirsi e non mettono in pratica quello che scoprono, stabilendo princìpi che loro per primi non applicano. “Ipocrita” è la parola che come sappiamo indicava anticamente l’attore, chi recita quindi una parte e rappresenta un carattere che non ha.

Eppure, tolta la trave, si avrà la possibilità di veder bene e si sarà in grado di togliere il “kàrfos”. Abbiamo allora l’obbligo di chiederci sempre se non abbiamo un peccato non confessato e non lasciato davanti al Signore, perché altrimenti non saremmo in grado di insegnare e correggere costruttivamente gli altri. Diventeremmo dei teorici, persone dalle buone parole disgiunte dalla realtà, costruttori di ostacoli per noi stessi e il prossimo. Lasciare un peccato o una metodologia errata spaventa sempre la persona quanto è diventata parte integrante di lei ed è per questo che molti credenti sono solo degli ascoltatori della Parola di Dio, ma quasi mai dei fautori di essa: rimane lì, genera un misticismo carnale, vuoto, privo della pur minima consistenza. Soddisfacendo la parte più superficiale dell’anima, però, a molti va bene così.

Chi ha tempo per giudicare gli altri, solitamente non ha altro di meglio da fare. Si chiude nel proprio castello di convinzioni. È quasi sempre religioso e prende i modelli di comportamento come norme che vorrebbe vedere applicate dagli altri ma, come i personaggi citati da Nostro Signore, se ne tiene accuratamente alla larga convinto che basti conoscerli senza sperimentarli. Queste persone non sanno che “giudicare” significa fondamentalmente “discernere”, azione possibile solo dopo un lungo tirocinio spirituale, soprattutto dopo esperienze anche penose in cui si sono sperimentate cadute per debolezza, inavvertenza, ignoranza e, purtroppo, presunzione, leggerezza ed egoismo infantile che, negli adulti, è molto difficile eradicare. Così scrive l’apostolo Paolo nella sua prima lettera ai Corinzi: “L’uomo naturale non comprende le cose dello Spirito di Dio. Esse sono follia per lui e non è capace di intenderle, perché se ne può giudicare solo per mezzo dello Spirito. L’uomo spirituale invece giudica ogni cosa, senza poter essere giudicato da nessuno.” (2.14,15).

Giudicare ogni cosa. Scrive Giovanni Diodati a commento di questo verso “È discernere tutto ciò che è della verità di Dio intorno alla sua salvezza, senza che la sua fede soggiaccia ad alcun giudizio umano, essendo fondata sopra la certissima testimonianza dello Spirito Santo”. È anche, a mio parere, quella capacità di filtrare attraverso l’ottica dello Spirito quegli avvenimenti e quelle persone che ci coinvolgono ogni giorno. L’altro giudizio, quello sul prossimo, se va oltre il “discernimento degli spiriti” o quegli interventi che le persone possono sempre chiedere per avere un parere spirituale da uomini di fede ed esperienza provate, è un sostituirsi a Dio, definito “giusto giudice”. Per giudicare occorre conoscere il cuore umano e quindi ciò che ha portato o porta una persona ad agire in un certo modo. E tornando ai versi di Paolo, possiamo vedere che il giudizio corretto è quello dell’uomo spirituale, mentre quello naturale, proprio perché le cose dello Spirito di Dio non le comprende, non può far altro che sbagliare, e quindi giudicare gli altri a proprio esclusivo danno. L’uomo “naturale” si ritiene giusto senza esserlo. Fa del male, ma si meraviglia e offende quando lo riceve a sua volta. Privo di vita al di là del battito cardiaco, non sa agire in una dimensione diversa né gli interessa perché crede che Dio non esista e si affida a una falsa scienza per argomentare l’assenza e l’inesistenza del Creatore e del Suo piano di salvezza.

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05.44 – LE SOLLECITUDINI ANSIOSE – seconda e ultima parte (Matteo 6.25-34)

05.45 – Le sollecitudini ansiose II (Matteo 6.25-34)

 

25Perciò io vi dico: non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito? 26Guardate gli uccelli del cielo: non seminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro? 27E chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita? 28E per il vestito, perché vi preoccupate? Osservate come crescono i gigli del campo: non faticano e non filano. 29Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. 30Ora, se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno, non farà molto di più per voi, gente di poca fede? 31Non preoccupatevi dunque dicendo: «Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?». 32Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno. 33Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. 34Non preoccupatevi dunque del domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. A ciascun giorno basta la sua pena.

 

Credo, nello scorso episodio della nostra lettura dei Vangeli, di avere sufficientemente reso l’idea di ciò che significa rifiutare l’ansia derivante dalla preoccupazione costante per la nostra sopravvivenza: non si tratta di ricorrere alla “meditazione” intesa come pratica per estendere o controllare l’attività della mente, di scaricare tensioni irrisolte con l’attività fisica o fare rilassanti passeggiate nei boschi, ma di entrare in un ambito spirituale preciso, dominato dalla certezza e dalla consapevolezza dell’appartenenza a Dio in cui si crede e dal quale si dipende. Non sto parlando di uno “stato mentale” raggiunto, ma di un modo di vivere diverso che non ci si può autoimporre, ma si realizza come conseguenza di una pratica di vita, di un guardare all’esistenza in modo differente che esclude i mantra, le luci soffuse in una stanza per “fare atmosfera”, ma consiste in una camera e una porta chiusa: “Invece, quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà” (Matteo 6.3).

L’ansia, in un soggetto sano, è uno stato che emerge dal rimuginare continuo su un problema che, nella sua mente, tende a farsi dominante. Nostro Signore non affronta lo stato ansioso a livello medico ma, come già visto in altre circostanze, preventivo e andandone all’origine. La preoccupazione “per la vostra vita” non è qui riferita al mangiare e al vestire, ma include anche tutte le altre problematiche esattamente come il “sudore del volto” preannunciato ad Adamo, che va ben oltre a quello provocato dalla fatica per provvedere al sostentamento quotidiano dell’uomo. La preoccupazione sorge istintivamente in noi, è un meccanismo di allarme come la paura, comune a tutti gli animali, che spinge chi la prova a mettersi in salvo o a lottare: la preoccupazione è uno stato d’animo che, quando persiste, spiritualmente è un campanello d’allarme perché ci indica che il nostro sguardo verticale è minoritario rispetto a quello orizzontale. La preoccupazione, soprattutto nei tempi in cui viviamo, è un fatto naturale.

La terra. Già il fatto che ogni cosa sia soggetta alla forza gravitazionale testimonia di per sé che a lei siamo ancorati, corporalmente e mentalmente. Ogni istante siamo costretti a confrontarci con problemi di varia entità che vanno risolti, ogni giorno porta “la sua pena” cui è sensibile il trinomio cuore-occhi-mente, ma a ben guardare il sentimento della preoccupazione, pur naturale, è fuori luogo perché l’essere umano che crede nel Padre e nel Figlio ha in loro un formidabile punto di riferimento, conoscendo Lui in anticipo cosa stiamo per chiedergli e di cosa abbiamo bisogno. Ricordiamo le parole “Il Padre sa” e “Non valete forse voi più di loro?”.

Vorrei però spostare l’attenzione su un verso molto importante, e cioè “Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani”, pronunciate come sappiamo a degli ebrei che si ritenevano superiori agli altri popoli perché eletti da Dio. Esistevano cioè solo loro; gli altri erano – e restano tuttora – goym, plurale di goy cioè “popolo”, “nazione” che troviamo per la prima volta in Genesi 10.5: “Da costoro– i figli di Sem, Cam e Jafet – derivarono le genti disperse per le isole, nei loro territori, ciascuna secondo la propria lingua e secondo le loro famiglie, nelle rispettive nazioni”. Per quanto l’atteggiamento ebraico nei confronti delle altre etnie dipenda da un maggiore o minore integralismo, l’idea di base è che questi siano di per sé impuri per quanto si affermi che i giusti di tutte le nazioni abbiano un posto nel mondo a venire. Da un lato si dice “Non devi essere ebreo per trovare il favore negli occhi di Dio”, dall’altro il Talmud paragona chi non è ebreo all’asino.

Ciò che allora Gesù vuol dire è molto semplice: non è la tua origine che fa di te una persona grata a Dio, ma ciò che sei veramente dentro di te. E l’apostolo Pietro dovette avere una visione per capire che, come dirà poi in Atti 10.34, “Dio non ha riguardo per la qualità delle persone”, alludendo alla loro origine ebraica o non. I presenti al sermone sul monte, come detto più volte, avevano tutti un’infarinatura biblica, frequentavano la Sinagoga ascoltando gli insegnamenti dei vari maestri che si succedevano nel commentare i passi scelti, ma quando si trattava di affrontare i problemi, ecco che la preoccupazione diventava ben presto ansia e si rivelava così tutta la natura umana, identica a quella dei pagani cioè di quei popoli che, pur avendo una religione, andavano alla ricerca “di tutte queste cose”, cioè l’accumulare, l’arricchirsi, la sollecitudine ansiosa per ciò che avrebbero mangiato e di ciò di cui si sarebbero vestiti. E questo vale sotto l’aspetto fisico e psichico.

I Testimoni di Geova, per i quali vale il verso “Guai a voi, (…), che percorrete il mare e la terra per fare un solo proselito e, quando lo è divenuto, lo rendete degno della Geenna due volte più di voi” (Matteo 23.15), spesso mettono dei banchetti con opuscoli e libri nei punti di passaggio della gente e offrono pubblicazioni dedicate a come risolvere il problema dell’ansia, sapendo quanto sia importante per molti guarirne; ad essa si sostituisce la religione intesa come osservanza di precetti e pseudo conoscenza, del fare-non fare, totalmente inutile senza un cuore rinnovato da Cristo e dallo Spirito Santo. Al suo posto si instaura forse un senso di soddisfazione perché si crede in qualcosa, ma il pericolo di avere e rivolgersi a un amico immaginario rimanendo imbottigliati in uno stallo è reale e molto spesso così avviene. Aderire a Cristo è, prima che ubbidienza, esame e ricerca, confronto, ascolto, attesa e, soprattutto, una costante vigilanza su se stessi. Questo è ciò che Nostro Signore esorta a fare ai suoi uditori: non adagiarti sul fatto che fai parte del popolo eletto, ma guarda a te stesso, parti dal principio elementare che, se ragioni e ti comporti come un pagano, essere “mio” a nulla ti serve. Ecco perché dobbiamo tener sempre presente che, sottoposti come tutti a problemi e ai seri motivi di preoccupazione che il mondo e non solo ci danno, siamo chiamati a verificare il nostro comportamento e a valutarci prima di cadere nel comodo giudizio delle opere e dei pensieri altrui: “Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo? Come puoi dire al tuo fratello «Fratello, lascia che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio» mentre tu stesso non vedi la trave che è nel tuo? Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello” (Luca 6.41,42). Vedere bene, collegamento al trinomio visto tempo fa, significa fare proprio un lungo lavoro di perfezionamento sincero su se stessi, un esame continuo cui Gesù allude con l’imperativo “Vegliate, perché non sapete né il giorno, né l’ora”. Vediamo sempre qualcosa che non va negli altri, mai in noi. E qui viene in mente il comportamento di Giobbe che, pensando ai suoi figli, “offriva olocausti per ognuno di loro. Infatti pensava: «Forse i miei figli hanno peccato e hanno maledetto Dio nel loro cuore»” (Giobbe 1.5), segno che non trascurava nulla pur di tenersi unito al Dio che lo aveva benedetto fino ad allora.

C’è però un’ultima annotazione che riguarda un altro motivo per cui Gesù si espresse così a proposito delle preoccupazioni della vita: sapeva quanto potessero essere dominanti e andare a minare profondamente la fede e il rapporto con Lui. Per questo più avanti esporrà la parabola dei terreni su cui cade il buon seme: c’è la strada, il sassoso, quello su cui sono cresciuti i rovi e infine quello buono. Del seme che cade sul terreno tra i rovi leggiamo: “Quello che è seminato tra i rovi è colui che ascolta la Parola, ma la preoccupazione del mondo e la seduzione della ricchezza soffocano la Parola ed essa non dà frutto” (Matteo 13.22). Attenzione alla pianta scelta da Nostro Signore: il rovo è infestante, si diffonde rapidamente e si eradica con difficoltà perché tagliarlo o bruciarlo non risolve il problema. Quando poi è presente in gran numero, finisce per aggredire e soffocare la vegetazione circostante. Questi sono gli effetti del rovo per la terra, questi sono gli effetti della “preoccupazione del mondo” e della “seduzione della ricchezza” per l’uomo.

C’è quindi chi ascolta il Vangelo, s’interessa, ma crede a modo suo, vale a dire comprende quanto sia necessaria una scelta di vita diversa da quella che ha avuto fino all’annuncio della Parola, ma non ce la fa ad alzarsi in volo perché rimane ancorato proprio ai due elementi contestati da Gesù nel nostro passo. La “Preoccupazione del mondo” è qualcosa che schiaccia perché l’idea della sopravvivenza, intesa come conseguimento di aspirazioni e desideri oltre il proprio sostentamento basilare, si fa dominante. La “Seduzione della ricchezza” ha poi riferimento all’attrazione viva e irresistibile che suscita in molti anche solo l’dea di possedere denaro e beni che in tal modo restano appunto sedotti, quindi ingannati. È il trionfo dell’apparenza. Ho conosciuto persone dare un valore esagerato ai loro averi e poi, giunta la malattia degli ultimi giorni, scoprire troppo tardi che ciò in cui avevano posto le loro speranze non li poteva accompagnare da nessuna parte, era lì, conservato immobile in qualche luogo e all’improvviso si era fatto enormemente lontano da loro, estraneo. E si sentivano persi e completamente soli. Ciò che era stato loro, improvvisamente li stava lasciando come la vita che non potevano più trattenere. Penso al momento finale, quello in cui Dio chiama ogni essere umano a render conto di come ha speso la propria vita: lì vengono tirate le somme, lì abbandoniamo tutto ciò che ci avrà accompagnato fino a quel momento.

Il fatto è che tutto si ricollega non tanto alla morte, passaggio inevitabile e obbligato, ma alla destinazione finale: se non si accetta e soprattutto non si comprende che la vita terrena è un passaggio, un periodo datoci per agire secondo il volere di Dio e non il nostro, ecco allora che ci si affida più o meno inconsapevolmente a quel paganesimo che, ora che il Vangelo è stato rivelato, non ha più ragione di esistere. E dobbiamo fare attenzione perché il mondo, la terra con tutte le sue sollecitudini, ci attira a sé come la forza di gravità che àncora ogni cosa.

L’ansia deriva dalla preoccupazione e dalla mente che, contrariamente a quello che pensiamo, non è controllabile nei suoi automatismi: il pensiero ossessivo e ansioso trova le sue origini dalla solitudine che abbiamo in determinate circostanze, ma di fatto il cristiano sa benissimo che, “solo” non lo è. È stato amato a tal punto che il Figlio stesso è sceso dai cieli, dov’era con il Padre, per farsi uomo e dare la sua vita per lui. Sono molti i cristiani che, pur appropriatisi di questo messaggio e aver fatto una professione di fede, vivono preoccupandosi del domani. Ma indipendentemente dal problema che può opprimerli, non possono consentire che divenga dominante a tal punto da interferire nel loro rapporto col Dio che ascolta e parla comunque: se questo accade, se cioè l’ansia diventa dominante, sono chiamati a chiedersi se la casa che hanno costruito sulla roccia non vada rinforzata, se non sia il caso di rivedere i calcoli fatti a suo tempo per la sua stabilità. La roccia, infatti, garantisce l’edificazione ottimale, ma chi porta i materiali, li sceglie e li assembla è sempre l’uomo, per quanto aiutato dello Spirito Santo che dev’essere messo nelle condizioni di agire.

Ecco allora che qui ritornano le parole di Gesù sui pagani che “di queste cose vanno in cerca”: se tu che sei cristiano ti ritieni superiore agli altri e li giudichi ritenendoli impuri e perduti, stai attento a quello che hai dentro, al tuo tesoro, ai tuoi occhi e al tuo cuore perché, se poi ti comporti come loro, rischi di trovarti in una posizione ancora peggiore. Certo, questo vale quando l’eccezione diventa un abitudine e tutta la vita è improntata su un continuo compromesso tra ciò in cui si dice di credere e ciò che realmente si fa, si pensa, si è. Così si fallisce nella testimonianza e si rischia di assumere quella temperatura che è definita “tiepida”. E leggiamo in Apocalisse 3.15: “Oh, fossi tu pur freddo o fervente! Così, perché sei tiepido e non sei né freddo, né fervente, io ti vomiterò dalla mia bocca”. Questo Gesù volle far capire ai suoi uditori, che si trovarono di fronte a princìpi e a verità che nessuno aveva mai rivelato prima di allora. Sappiamo che la gente che lo ascoltava “stupiva della sua dottrina”: finalmente potevano capire, i Suoi erano concetti semplici, quelli “nascosti ai sapienti” chiusi nei loro calcoli e nella loro cultura, enormemente lontani da quell’amore che ignoravano. Amen.

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