05.36 – Padre nostro – VI (Matteo 6.9-13)
“9Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome,10venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. 11Dacci oggi il nostro pane quotidiano, 12e rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori, 13e non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male.14Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi;15ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe.”.
…COME NOI LI RIMETTIAMO AI NOSTRI DEBITORI.
La volta scorsa abbiamo accennato alla differenza che intercorre tra “debito” e “debiti”, anticipando che, riguardo alla reciprocità che contraddistingue i cristiani, è impossibile che non si comportino tra loro utilizzando il perdono come uno dei principali metodi di rapporto interpersonale. Abbiamo anche citato come punto di orientamento fondamentale la parabola del “servitore spietato” che va necessariamente esaminata per comprendere la nostra posizione spirituale, cosa eravamo un tempo e chi siamo ora. La parabola, come amava precisare un fratello, non è una favoletta più o meno edificante, ma un racconto che presenta, tramite la descrizione di episodi di facile memorizzazione, delle profonde verità dottrinali. Nel caso della remissione dei debiti da parte di Dio e dell’azione conseguente da parte nostra, la parabola è quella detta del “servo spietato” che troviamo in Matteo 18.21-35, esposta a seguito di una domanda dell’apostolo Pietro che “gli si avvicinò, e gli disse «Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.A proposito, il regno dei cieli è simile a un re che volle fare i conti con i suoi servi. Incominciati i conti, gli fu presentato uno che gli era debitore di diecimila talenti. Non avendo però costui il denaro da restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, con i figli e con quanto possedeva, e saldasse così il debito. Allora quel servo, gettatosi a terra, lo supplicava: Signore, abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa. Impietositosi del servo, il padrone lo lasciò andare e gli condonò il debito. Appena uscito, quel servo trovò un altro servo come lui che gli doveva cento denari e, afferratolo, lo soffocava e diceva: Paga quel che devi! Il suo compagno, gettatosi a terra, lo supplicava dicendo: Abbi pazienza con me e ti rifonderò il debito. Ma egli non volle esaudirlo, andò e lo fece gettare in carcere, fino a che non avesse pagato il debito. Visto quel che accadeva, gli altri servi furono addolorati e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: Servo malvagio, io ti ho condonato tutto il debito perché mi hai pregato. Non dovevi forse anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te? E, sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non gli avesse restituito tutto il dovuto. Così anche il mio Padre celeste farà a ciascuno di voi, se non perdonerete di cuore al vostro fratello»”.
Anche se si tratta di un testo che esamineremo in futuro, si possono effettuare alcune sottolineature, prima fra tutte l’ammontare del debito che questo servitore, da individuare certamente in un dignitario di corte, aveva accumulato probabilmente distraendo delle somme a proprio vantaggio: il re della parabola “volle fare i conti” con i responsabili del suo patrimonio e, poco dopo aver iniziato le verifiche, ecco emergere questo personaggio e la frode a danno del suo signore. Va osservato che subito Pietro, ed eventualmente gli altri che ascoltavano Gesù parlare, si resero conto dell’enormità della somma poiché il talento di allora era l’equivalente di 32 kg circa d’argento. Il talento, però, poteva anche essere anche in oro per cui il debito accumulato era di 320 tonnellate a prescindere dal metallo distorto. È chiaro che quella persona non avrebbe mai potuto restituire la somma, ma secondo le leggi del tempo era possibile che pagasse comunque per la colpa venendo venduto unitamente alla sua famiglia come schiavo. Avrebbe cessato di esistere come individuo, non avrebbe avuto più nulla e lo stesso i suoi famigliari.
Contrariamente ad ogni previsione, però, quel re ebbe pietà di quel contabile e, ben sapendo che non avrebbe mai potuto mantenere quanto gli prometteva – ricordiamo le parole che gli disse dopo esserglisi gettato a terra, “Abbi pazienza con me e ti rifonderò il debito” – andando contro i suoi interessi, mosso unicamente da un sentimento di pietà, gli azzerò la somma che avrebbe dovuto restituire. Ora stupisce il comportamento che quest’uomo ebbe non appena incontrò una persona, che si suppone fosse un suo pari grado, debitore nei suoi confronti di 100 denari, somma rapportabile allo stipendio di poco più di tre mesi di un operaio: era un’inezia rispetto a quella che a lui era stata condonata. Ma rimase inflessibile e fu crudele verso di lui. Anche quel debitore si gettò a terra esattamente come aveva fatto l’altro col suo re, dicendo le stesse parole, questa volta però pronunciando una promessa plausibile. Eppure abbiamo letto che “non volle esaudirlo, andò e lo fece gettare in carcere, fino a che non avesse pagato il debito”. Questa azione ci dice molto sullo spirito che dominava il servitore spietato: per lui esisteva solo il proprio io: quando si era trovato davanti al suo signore il terrore che aveva provato all’emersione del debito, il sentirsi perduto, lo aveva spinto a gettarsi a terra e a chiedere sinceramente pietà, ma ogni paura era svanita una volta ottenuto il condono ed era tornato quello che era, un essere insensibile attento solo ai propri interessi. Abbiamo letto la sua fine: “Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non gli avesse restituito tutto il dovuto” cioè mai, vista l’enormità del debito.
È allora facile individuare nella somma che il servitore spietato avrebbe dovuto restituire al re, la condizione di peccato in cui versano tutti gli uomini che non hanno ricevuto il perdono di Dio. Quando un uomo scopre di essere nella condizione di quel servo, di non avere di che pagare ma soprattutto che per quanto farà non riuscirà mai a soddisfare le esigenze del Suo Signore e gli chiede pietà nonostante tutto, ottiene un perdono che non può non trasmettere agli altri. La sua persona, cioè, non può che venire trasformata da quell’atto di pietà e amore. Certo non possiamo salvare nessuno, ma gestire il perdono per quanto ci è dato, sicuramente sì. Ecco allora che ancora una volta ci troviamo di fronte a un “debito”, che riguarda la verticalità del rapporto uomo – Dio, e a dei “debiti” che rientrano invece nell’orizzontalità del rapporto tra esseri umani visti nei 100 denari della parabola: piccole cose, tranquillamente rifondibili, elementi che sappiamo che addirittura dovremmo aspettare ci venissero restituiti dalla persona senza chiederli indietro.
Il problema però è che non solo Gesù, ma tutta la Scrittura parla in larga parte per simboli e qui non si tratta solo di denaro, ma di offese, di torti, di azioni ingiuste che abbiamo eventualmente patito. Si potrebbero citare molti versi in proposito, di cui una parte sono già stati scritti in riflessioni precedenti quando abbiamo affrontato l’amore per i nemici, il porgere l’altra guancia e altri; qui credo però sia necessario andare al libro del Siracide, un deuterocanonico che, pur non avendo l’autorità spirituale di altri come i Proverbi o il Qoélet (Ecclesiaste), è interessante perché scritto da una persona che dedicò la propria vita a studiare anche i meccanismi psicologici che regolano i rapporti umani. Ben Sira, il suo autore, è scritto che chiese a Dio la sapienza e la ottenne. Conosciuto anche come “Ecclesiastico” è databile attorno al 180 a.C.. Scrive Aldo Moda che l’autore del libro era uno scriba ed espose il frutto del suo studio, intrapreso per grande passione per autentica vocazione fin dalla giovinezza, alla gioventù aristocratica di Gerusalemme che frequentava la sua scuola. Arricchì la sua cultura con numerosi viaggi all’estero, forse anche giovane entrò al servizio di un re straniero in qualità di funzionario. La sua professione di scriba gli permise di essere attento alla realtà sociale ed al culto nel Tempio. Alcuni studiosi lo avvicinano alla corrente sadducea, allora al suo sorgere.
Ebbene, nel grandissimo numero degli argomenti, Jehoshua Ben Shira affronta il tema dell’offesa e quindi dei “debiti” che gli uomini possono contrarre fra loro e il loro spontaneo regolarsi. Ben Shira non fa mai riferimento a tribunali o a terze persone che possano costringere a saldare i debiti, ma valuta indirettamente ed in modo tanto semplice quanto profondo le cause e gli effetti delle offese: “Se hai sguainato la spada contro un amico, non disperare, può esservi un ritorno. Se hai aperto la bocca contro un amico, non disperare, può esserci riconciliazione, tranne il caso di insulto e di arroganza, di segreti svelati e di un colpo a tradimento; in questi casi ogni amico scomparirà” (22.21,22). Perché? Perché in tutti questi casi viene a mancare il rispetto, il riguardo per la persona e la sua dignità in quanto amico e persona, per cui solo una radicale revisione del modo i pensare di chi si è comportato così può spingere a chiedere il perdono e trovarlo. Certo Ben Shira non conosceva la Grazia e parlava a livello umano, non sbagliando le sue valutazioni di base né contraddice a priori le parole di Gesù sul perdono, settanta volte sette. E non esiste perdono senza confessione e prima ancora ravvedimento, tra uomo e uomo e tra questi e Dio stesso.
Fatta questa parentesi necessaria, una delle tante che dimostrano la serietà del perdono che non può essere generalizzato e dato a prescindere, la frase conclusiva di Gesù alla parabola del servo spietato illumina su quanto sia attento lo sguardo di Dio sui suoi figli: “Così anche il mio Padre celeste farà a ciascuno di voi, se non perdonerete di cuore al vostro fratello”; questa si raccorda a quella pronunciata proprio a conclusione dell’esposizione del “Padre nostro”: “Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il padre vostro perdonerà le vostre colpe” (Matteo 6.14,15). Ecco la reciprocità. Ecco l’impensabilità dei doppi pesi e delle doppie misure che in un rapporto fraterno non possono esistere. Senza la reciprocità, non rimane che la religione che, in sintesi, altro non è se non la pretesa puerile di essere ascoltati a prescindere da quello che siamo veramente, nella nostra essenza, nel nostro cuore. Perché il perdono è l’espressione della partecipazione ad un progetto, di un cammino che non percorriamo da soli, ma con il Padre. Che, appunto, è nostro. Amen.
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