05.38 – PADRE NOSTRO VIII (Matteo 6.13)

05.38 – Padre nostro VIII (Matteo 6.13)

 

“…13e non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male. Perché tuo è il regno, la potenza e la gloria nei secoli. Amen.”

Come già preannunciato in un altro incontro, la parte finale del verso 13 non compare in tutte le traduzioni ed è ritenuta da molti un inserto, per così dire, rituale o “liturgico”. Credo però che così facendo si snaturi in parte il senso di questa preghiera perché qui si dichiara la ragione, il perché le richieste precedenti vengano rivolte al Padre: a Lui e a nessun altro appartengono i tre elementi, il regno, la potenzae la gloria nei secolicitati da Gesù. La prima parola da considerare è infatti il “perché”, traducibile con “poiché”, “siccome”, “in quanto”, concetto che ci richiama all’unicità del Padre che ascolta e provvede al quale vanno indirizzate le nostre preghiere. La conclusione del “Padre nostro” è allora una dossologia importante perché costituisce una confessione di appartenenza, è la parte finale di un Credo che trova nell’ “Amen” finale, suo quarto elemento, la nostra firma.

Abbiamo cercato di esaminare il concetto di “Regno” quando abbiamo affrontato le parole “Venga il tuo Regno”, ma il questo concetto è immenso per significati e applicazioni: come parlare del regno di Dio, come presentarlo, definirlo? Qualunque sua esposizione risulterebbe limitata perché noi siamo tali e Lui no. È il Suo progetto di comunione e condivisione con l’uomo e, per quanto argomento su cui torneremo molte altre volte, non potremo far altro che affrontarlo in modo riduttivo proprio perché il Regno non è qualcosa che è stato o che sarà, ma una realtà che esiste ed è legata indissolubilmente allo suo essere di Dio. Il Regno è Lui stesso, come noi siamo Lui in una trasformazione costante in vista di quella piena che avremo. È un progetto destinato a realizzarsi, che si può intravedere leggendo il Pentateuco e i libri storici, ma che fu visto come reale ed esistente dai profeti e fu descritto dall’apostolo Giovanni nell’Apocalisse in momenti di attesa e di compimento, per non parlare delle notizie che Gesù diede ai suoi che tuttavia non recepirono perché allora non ne erano in grado. Dobbiamo sempre tenere presente che gli argomenti della Scrittura possono essere visti e spiegati solo in parte e non può esservi nessuno che può avere la pretesa di esaurirne un solo argomento, altrimenti non sarebbe Parola divina e sappiamo che, quando alcuni uomini di Dio si trovarono di fronte alla Sua vastità, non poterono fare altro che soccombere di fronte ad essa e spesso non riuscirono a parlarne in termini umani. Alcuni di loro, come Paolo di Tarso, definirono impronunciabili le parole che ascoltarono e altri, non riuscendo ad esporre le loro visioni, ricorsero a una simbologia tutta particolare confidando che questa fosse recepita dai loro lettori e interpreti.

Sono assolutamente convinto del fatto che, quando riconosciamo a Dio Padre la legittima detenzione del Regno, non possiamo che rifarci, anche e non solo, a quel progetto che iniziò, alla presenza e con la partecipazione del Verbo, con le parole “Sia la luce”. Tutte le sei ere che caratterizzarono la creazione, infatti, non ebbero lo scopo di manifestare la “bravura” di Dio come costruttore in senso autocelebrativo, ma in vista di quella creatura luminosa, Adamo, che con Eva avrebbe dovuto popolare il territorio santo e circondato dai quattro fiumi che prendeva il nome di Eden, cioè “delizia”. Lì l’uomo, così diverso da noi, creato libero, sceglieva ogni giorno di rapportarsi con YHWH liberamente, discorrendo con lui faccia a faccia senza quella limitazione che si sentì dire un giorno Mosè in Esodo 33.20: “Tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo”.

Ho scritto all’inizio che il Regno è un concetto e una realtà: alle origini tutto era in Eden o, meglio, là c’era una sua parte, un aspetto visto in quella comunione che ebbe termine quando, dopo la trasgressione all’unico comandamento, Adamo e sua moglie ne furono estromessi. Se leggiamo l’episodio, però, possiamo notare che quel luogo non fu distrutto, ma che “Il Signore Dio lo scacciò dal giardino di Eden, perché lavorasse il suolo da cui era stato tratto. Scacciò l’uomo e pose ad oriente del giardino di Eden i cherubini con una spada fiammeggiante, per custodire la via all’albero della vita” (Genesi 3.23,24).

A questo punto individuiamo alcuni elementi: primo, Adamo e sua moglie, che avevano desiderato essere come Dio, si vedono estromessi e avrebbero passato la loro esistenza lavorando la terra dalla quale erano stati tratti. Il loro sguardo, cioè, sarebbe stato costantemente rivolto verso il basso, avrebbero compreso il significato della parola “morte” (“Nel giorno in cui ne mangerai, per certo morirai”) e sarebbero tornati polvere, tutto questo portando in loro il ricordo di ciò che erano. Secondo, la via all’albero della vita non viene preclusa, ma protetta, custodita affinché né Adamo, né Eva, né i loro discendenti a prescindere dalle epoche, l’avessero potuta trovare un giorno e diventare immortali. Terzo e ultimo, quello su cui desidero soffermarmi oggi, abbiamo nominati per la prima volta i Cherubini, creature molto particolari che esistono nel Regno spirituale, quello che non vediamo, ma che per noi ebbero il privilegio di vedere e descrivere i profeti e l’apostolo Giovanni.

Il Cherubino è comunemente ritenuto un angelo, ma più che portare messaggi agli uomini pare avere una funzione di esecutore, di guardiano, di protettore, con un’incessante opera di salvaguardia e adorazione davanti al trono di Dio. L’Avversario, Satana, così potente, era uno di loro e, se non il primo, uno dei più importanti. Leggiamo in Ezechiele al capitolo 28.12-15 “Tu eri al sommo, pieno di sapienza e perfetto in bellezza. Tu eri in Eden, giardino di Dio; tu eri coperto di pietre preziose, di diamanti, di grisoliti, di pietre d’onice, diaspri, zaffiri, smeraldi e carbonchi e di oro; l’arte dei tuoi tamburi e dei tuoi flauti era presso di te, quella fu ordinata nel giorno in cui fosti creato. Tu eri un cherubino unto, protettore e io ti avevo stabilito, tu eri nel monte santo di Dio, tu camminavi in mezzo alle pietre di fuoco. Tu sei stato compiuto nelle tue faccende, dal giorno che tu fosti creato, finché si è trovava iniquità in te”.

Questa era la funzione che aveva quando si chiamava Lucifero, cioè “Portatore di luce”. Di lui è detto in Isaia 14.12-15 “Come mai sei caduto dal cielo, Lucifero, figlio dell’aurora? Come mai sei stato steso a terra, signore dei popoli? Eppure tu pensavi «Salirò al cielo, sulle stelle di Dio innalzerò il trono, dimorerò sul monte dell’assemblea, nelle parti più remote del settentrione. Salirò sulle regioni superiori delle nubi, mi farò uguale all’altissimo». E invece sei stato precipitato negli inferi, nelle profondità dell’abisso!”.

Raccordando tra loro i due versi, rileviamo il nome che aveva l’Avversario nel Regno spirituale di Dio, la sua presenza del Giardino, il grado di eccellenza che possedeva testimoniato dalle pietre preziose che lo ricoprivano, la sua funzione unica di “Unto” e “Protettore” e la perfezione vista nel suo camminare in mezzo alle pietre infuocate essendo il fuoco riferimento al vaglio e al giudizio cui era immune stante la sua condotta. Ma ci è dato di comprendere come, a un certo punto, fu trovata iniquità in lui e questa si manifestò in un progetto che aveva come risultato finale il “farsi uguale all’altissimo”. Sono le stesse parole che, preso possesso del serpente, disse ad Eva: “Dio sa che il giorno in cui ne mangereste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male” (Genesi 3.5). Nella sua improponibile volontà distruttiva, cercava un alleato. Il figlio dell’aurora sapeva benissimo che non avrebbe potuto farsi uguale a Dio essendo stato creato da lui, ma diventare un dio in un mondo corrotto dal peccato certamente sì. E così fu.

Se allora prima di questi eventi ciò che era in cielo e sulla terra – o meglio in Eden – formavano un tutt’uno, nel terribile dopo possiamo affermare che si crearono due regni, due territori differenti, uno santo e un altro impuro; il primo abitato da Dio e dagli esseri spirituali che di Lui sono l’emanazione, il secondo popolato da uomini incompatibili con lui parte dei quali però cercavano la Sua comunione, benevolenza, aiuto: erano quelli che, informati da Adamo e sua moglie delle modalità della caduta e ancor più del vestito che il Creatore aveva loro confezionato, lo pregavano di aver pietà e soccorso in quella vita così ostile che si trovavano ad affrontare loro malgrado. Ogni giorno constatavano delle avversità che non avrebbero dovuto conoscere. Seppero così i nostri progenitori dell’esistenza di due regni, uno terreno e l’altro spirituale. “Venga il tuo Regno”, allora, perché il Tuo è l’unico a durare per sempre.

Il Cherubino ritorna poi nella Legge. Non è un personaggio che compie azioni particolari come gli angeli che distrussero Sodoma e Gomorra o parlarono a molti, ma è ordinato che venga rappresentato sul coperchio dell’arca. Non è una figura minacciosa, non ha una spada, ma: “Farai due cherubini d’oro: li farai lavorati a martello sulle due estremità del coperchio. Fa’ un cherubino ad una estremità e un cherubino all’altra estremità. Farete i cherubini tutti di un pezzo con il coperchio alle sue due estremità. I cherubini avranno le due ali stese di sopra, proteggendo con le ali il coperchio; saranno rivolti l’uno verso l’altro e le facce dei cherubini saranno rivolte verso il coperchio. Porrai il coperchio sulla parte superiore dell’arca e collocherai nell’arca la Testimonianza che io ti darò. Io ti darò convegno appunto in quel luogo: parlerò con te da sopra il propiziatorio, in mezzo ai due cherubini che saranno sull’arca della Testimonianza, ti darò i miei ordini riguardo agli Israeliti” (Esodo 25.18-22).

Per quanto il Cherubino comparisse anche raffigurato sui teli che costituivano il velo della dimora a conferma del fatto che è un essere a diretto contatto con la Santità di Dio e con lui compatibile, è la sua presenza sul coperchio dell’arca a rivelarci elementi che ci consentono delle connessioni molto importanti; i cherubini non erano due belle statuine saldate sul coperchio, ma costituivano un tutt’uno con lui, erano un pezzo solo, d’oro puro – il solo metallo che è riferito costantemente a Dio – posti uno di fronte all’altro. Due e non quattro perché non era un riferimento ai punti cardinali, ma alle dimensioni semplici intese come destra e sinistra, uomo e donna, bene e male, di qua o di là. Le loro ali proteggevano il coperchio: sono estremità che consentono uno spostamento diverso dal nostro, che avviene solo sulla terra, ma che adombrano e proteggono, difendono. In più, i cherubini sono posizionati sì frontalmente, ma il loro sguardo è rivolto verso il coperchio, guardando idealmente all’interno dell’arca che conteneva un vaso d’oro con la manna raccolta nel deserto, il bastone d’Aaronne che era fiorito e le tavole della Legge, quelle che Mosè tagliò e sulle quali Iddio scrisse il decalogo, da destra a sinistra, cinque per ogni tavola secondo il Talmud di Gerusalemme. Anche qui, è interessante il rapporto tra le due tavole e i due Cherubini.

Nel meditare però il passo di Esodo 25 mi sono chiesto perché queste due creature, a parte le ali spiegate, avessero lo sguardo verso il basso, metaforicamente a guardare all’interno dell’Arca quasi a contemplarne il contenuto, cioè la manna per la provvidenza di Dio, il bastone a ricordare il serpente che si mangiò tutti quelli creati dai maghi del Faraone e quindi la supremazia di YHWH e le tavole rappresentanti l’osservanza che il Signore si aspetta dall’uomo, oggi per noi misura di ciò che è bene e ciò che è male.

Non credo sia possibile avere una risposta diversa dall’indizio che ci offre l’apostolo Pietro nella sua prima lettera quando, parlando degli avvenimenti con cui Dio si caratterizzò nei tempi antichi a testimonianza del Regno, scrive: “…perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa, mentre raggiungete la meta della vostra fede: la salvezza delle anime. Su questa salvezza indagarono e scrutarono i profeti, che preannunciavano la grazia a voi destinata; essi cercavano di sapere quale momento o quali circostanze indicasse lo Spirito di Cristo che era in loro, quando prediceva le sofferenze destinate a Cristo e le glorie che l’avrebbero seguite. A loro fu rivelato che non per se stessi, ma per voi erano servitori di quelle cose che ora vi sono annunciate mediante lo Spirito Santo, mandato dal cielo: cose nelle quali gli angeli desiderano fissare lo sguardo” (1.8-12). Ed è interessante sottolineare che alcune traduzioni riportano “guardare dentro”.

Il contenuto dell’Arca testimoniava l’amore di Dio e le Sue esigenze, i profeti scrissero e parlarono di un tempo allora imminente, di un regno che sarebbe dovuto venire a suo tempo ma che esisteva già, pronto e preordinato a tal punto che la sua realizzazione piena, così importante per tutte le negatività che verranno annullate e che ogni salvato attende, può sembrare un dettaglio. Perché la cittadinanza eterna già la possediamo ed è quello che ci spinge a vivere. Amen.

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05.37 – PADRE NOSTRO 7/9 (Matteo 6.9-13)

05.37 – Padre nostro – VII (Matteo 6.9-13)

 

9Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome,10venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. 11Dacci oggi il nostro pane quotidiano, 12e rimetti a noi i nostri debiti  come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori, 13e non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male.14Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi;15ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe.”.

NON INDURCI IN TENTAZIONE, MA LIBERACI DAL MALE

Ho preferito riportare il verso 13 nella versione comunemente insegnata del “Padre nostro”. “Non indurci”è certo la traduzione più sbagliata di quelle proposte rispetto alla più corretta “non esporci”, o “non abbandonarci”: leggiamo in Giacomo 1.13 che “Nessuno, quando è tentato, dica «Sono tentato da Dio» perché Dio non può essere tentato al male e non tenta nessuno al male”. Con la richiesta espressa dalla preghiera insegnata da Gesù ci troviamo allora di fronte a qualcosa di più complesso, a qualcosa che non chiede, ma implica la presenza di elementi che dobbiamo possedere e che sono raggiungibili anche attraverso la preghiera perché la tentazione intesa come peirasmòs, cioè quella prova morale che serve a mettere in luce il carattere dell’uomo, è inevitabile. Sappiamo che la fede come sentimento è buona cosa, ma ha bisogno di venire dimostrata, di essere messa alla prova e sempre Giacomo, contrastando quelli che si affidavano a un sentimento generico ritenendosi a posto con la propria coscienza, dice in 2.19-24 “Tu credi che c’è un Dio solo? Fai bene; anche i demòni lo credono e tremano! Ma vuoi sapere, o insensato, come la fede senza le opere è senza valore? Abramo, nostro padre, non fu forse giustificato per le opere, quando offrì Isacco, suo figlio, sull’altare? Vedi che la fede cooperava con le opere di lui, e che per le opere quella fede divenne perfetta e si compì la Scrittura che dice: E Abramo ebbe fede in Dio e gli fu accreditato a giustizia, e fu chiamato amico di Dio. Vedete che l’uomo viene giustificato in base alle opere e non soltanto in base alla fede”.

Per le opere, la fede diventa perfetta. È la dimostrazione, la conferma, l’inattaccabilità di fronte a quel “fuoco” che sappiamo “farà la prova dell’opera di ciascuno”, cioè di quanto avremo costruito sopra il fondamento, la fede nell’opera di Cristo. Già nella scorsa riflessione era stato accennato al fatto che, come cristiani, c’è un cammino da compiere e che la nostra non è una strada facile perché ci troviamo di fronte a scelte che gli uomini comuni non si pongono, oppure non affrontano e non comprendono. È un percorso in cui non possiamo essere soli e che richiede un aggiornamento dal “non indurci in tentazione” a “non abbandonarci”, cioè, “non lasciarci soli” perché altrimenti falliremmo, cadremmo inevitabilmente.

Entriamo qui in un campo complesso, che contempla la nostra natura umana che si contrappone alla spirituale descritta dall’apostolo Paolo con queste parole: “Io so infatti che in me, nella mia carne, non abita il bene. C’è il me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo. Infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Io trovo dunque in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. Infatti acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra. Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte? Siano rese grazie e Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore! Io dunque con la mente servo la legge di Dio, con la carne invece la legge del peccato” (Romani 7.18-25). Con queste parole ci viene data la descrizione del combattimento interiore che sarebbe destinato a fallire sempre se dovessimo contare unicamente sulle nostre forze: la mente, infatti, accetta la teoria, ma fatica enormemente a tradurla in pratica perché si ritrova a fare i conti con un corpo che vorrebbe ogni cosa per sé. Tendenzialmente non siamo fatti per il “no”, esattamente come il corpo è fatto per star bene e per questo, in natura, all’occorrenza assume da solo posizioni antalgiche, si protegge, reagisce con l’istinto alle minacce che gli si pongono davanti.

La persona che ha accettato Gesù Cristo come suo personale Salvatore non deve e non può sottrarsi a un percorso di crescita, eppure spesso tende a sottovalutare le insidie dell’avversario che “Va girando come un leone che ruggisce cercando chi possa divorare”. Ecco allora che il riferimento nel Padre nostro non è tanto a quelle situazioni occasionali in cui una persona può cadere, sbagliare e pentirsi, ma al sistema, al progetto specifico dell’Avversario a danno della creatura. Nelle espressioni “il giusto pecca sette volte al giorno”, e “se uno cade, si rialza” abbiamo l’inevitabilità del peccare da parte nostra, ma quello a cui allude Nostro Signore è piuttosto il “laccio”, cioè quella condizione nella quale il credente può cadere e rimanere intrappolato.

Il laccio di cui parla la scrittura ha riferimento con la vita di tutti i giorni di allora (e non solo), quando per catturare animali selvatici si faceva un nodo scorsoio con una corda. Tra i sinonimi di “laccio” troviamo “trappola, tranello, vincolo, impaccio, qualcosa che soffoca”. Il laccio dev’essere proporzionale alla forza della preda perché, se troppo sottile, questa potrebbe liberarsi e fuggire, cosa che il cacciatore non vuole. Il laccio è quindi il risultato di un calcolo, di uno studio in questo caso molto serio perché Satana, “principe di questo mondo”, ha la potestà su di esso e non ha interesse ad occuparsi di chi già gli appartiene, ma dei credenti. I primi li tiene per sé, i secondi li combatte e mira alla loro caduta come fece alle origini. È noto il versetto che dice “…per sedurre se possibile anche gli eletti”: di qui un progetto volto a menomare il rapporto che i credenti hanno con Dio. Per prendere un uomo, come fece in Eden coi nostri progenitori, Satana deve impostare un piano su misura per lui, partendo dalle sue debolezze e attirarlo al loro interno senza che se ne accorga sapendo che, spesso, la sua vittima è un superficiale e si rende conto di esservi caduto dentro se non quando è troppo tardi. È bello per noi sapere che esiste una promessa: “Le mie pecore ascoltano la mia voce, e io le conosco, ed esse mi seguono; e io do loro la vita eterna e non periranno mai, e nessuno le rapirà dalla mia mano. Il Padre mio che me le ha date è più grande di tutti; e nessuno può rapirle dalla mano del Padre” (Giovanni 10.27-29). Anche se Gesù non parla di perdita, la possibilità del danno esiste sempre. Certo Satana distrugge quel che può distruggere, ma là dove questo gli è impedito danneggia e compromette. È in questo contesto che, fondamentalmente, dobbiamo intendere quel “non abbandonarci alla tentazione”.

E penso ai discepoli, quando erano dei semplici uomini che avevano seguito ammirati il loro Maestro senza capirne la reale portata se non quando lo Spirito Santo scese su di loro, stabiliti per essere colonne della Chiesa, colonna e sostegno a sua volta della Verità. Penso a loro quando fuggirono spaventati all’arresto di Gesù, penso a quei due di loro delusi sulla via di Emmaus e a Pietro, quando gli fu detto “Simone, Simone, ecco, Satana ha chiesto di vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno. E tu, quando sarai convertito, conferma i tuoi fratelli” (Luca 22.31,32). E così fece.

Io non so se chi mi legge ha mai provato l’esperienza di essere preso in un laccio spirituale: è un’esperienza terribile e umiliante in cui, alla consapevolezza dello Spirito presente e della propria dignità, si affianca un senso di paralisi, d’incapacità a prendere decisioni. Si vorrebbe, ma non si riesce ad uscire. E si ha paura e ci si dibatte come in un perfetto labirinto perché qualunque decisione che si può prendere si pensa sia sbagliata, non si sa più ciò che si è veramente e la mente corre il rischio di ammalarsi. E male come gli “amici” di Giobbe fanno quei “fratelli” che si sentono santi e in grado di giudicare e non trovano meglio che citare versi a sproposito, primo fra tutti Isaia 40.28,31 “Non lo sai forse? Non lo hai udito? Dio eterno è il Signore, creatore di tutta la terra. Egli non si affatica e non si stanca, la sua intelligenza è inscrutabile. Egli dà forza allo stanco e moltiplica il vigore allo spossato. Anche i giovani si affaticano e si stancano, gli adulti inciampano e cadono; ma quanti sperano nel Signore riacquistano forza, mettono ali come aquile, corrono senza affannarsi, camminano senza stancarsi”. E così, citando parole di verità, ma fuori dal contesto in cui si trova la persona, feriscono e annichiliscono perché le citano senza vedere il problema, senza capire, avulsi dalla carità. Proprio come Elifaz, Bildad e Zofar.

Eppure Dio libera e risponde a quel “non abbandonarci”. Lo fa coi suoi tempi e quando siamo pronti a individuare il Suo intervento liberatorio per ringraziarlo ed amarlo ancora di più. Ancora una volta andiamo alle parole dell’apostolo Paolo che, scrivendo alla travagliata Chiesa di Corinto, scrisse “Nessuna tentazione vi ha presi, se non umana; infatti Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche la via d’uscita e la forza per sopportarla” (1 Corinti 10.12-13). La via d’uscita, quella che o non vedevamo, o non avevamo il coraggio di intraprendere.

Tornando alla frase della preghiera esposta da Gesù, ci conclude con le parole “ma liberaci dal male”. E quel “ma” sta a indicare un intervento che solo lui può compiere. Il male: quale? Tradotto così suona generico, potrebbe essere banalmente definito come tutto ciò che non appartiene alle categorie del bene. Ma chi decide tra gli uomini ciò che è giusto o sbagliato, se non il sentire comune di un popolo e la propria cultura che si è sviluppata nei secoli? La morale cambia continuamente, soprattutto nel tempo in cui viviamo; a parte il furto e l’omicidio, gli altri sono concetti opinabili, ciò che costituisce reato per un popolo, per un altro non lo è, oppure azioni che oggi sono considerate riprovevoli domani non lo sono più.

L’illuminazione che procede da Dio, però, è diversa: è Lui stesso che ha rivelato la Sua volontà nell’Antico Patto attraverso il Sommario della Legge e i corollari relativi ad essa, o nel Nuovo il Suo amore e perfezione ufficialmente incarnatosi nel proprio Figlio Gesù Cristo. Il Male, allora, è da inquadrare come la diretta espressione di Satana e quel “Male” andrebbe più correttamente tradotto con “Maligno” che trova appunto nella sua opposizione a Dio la propria ragion d’essere e il proprio fine distruttivo.

Pietro ebbe da Gesù la promessa: “Io ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno”. Nella circostanza, certo, parlò a lui, ma la stessa preghiera l’aveva rivolta al Padre per tutti coloro che si sarebbero aggiunti alla Chiesa: “Non prego solo per questi, ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola; perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato” (Giovanni 17.20,21).

Ricordiamo ancora le parole di Paolo a Timoteo: “Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato la forza perché io potessi portare a compimento l’annuncio del Vangelo e tutte le genti lo ascoltassero: e così fui liberato dalla bocca del leone. Il Signore mi libererà da ogni male e mi porterà in salvo nei cieli, nel suo regno. A lui la gloria nei secoli. Amen” (2 Timoteo 4.18).

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05.36 – PADRE NOSTRO 6/9 (Matteo 6.9-13)

05.36 – Padre nostro – VI (Matteo 6.9-13)

 

9Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome,10venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. 11Dacci oggi il nostro pane quotidiano, 12e rimetti a noi i nostri debiti  come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori, 13e non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male.14Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi;15ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe.”.

…COME NOI LI RIMETTIAMO AI NOSTRI DEBITORI.

La volta scorsa abbiamo accennato alla differenza che intercorre tra “debito” e “debiti”, anticipando che, riguardo alla reciprocità che contraddistingue i cristiani, è impossibile che non si comportino tra loro utilizzando il perdono come uno dei principali metodi di rapporto interpersonale. Abbiamo anche citato come punto di orientamento fondamentale la parabola del “servitore spietato” che va necessariamente esaminata per comprendere la nostra posizione spirituale, cosa eravamo un tempo e chi siamo ora. La parabola, come amava precisare un fratello, non è una favoletta più o meno edificante, ma un racconto che presenta, tramite la descrizione di episodi di facile memorizzazione, delle profonde verità dottrinali. Nel caso della remissione dei debiti da parte di Dio e dell’azione conseguente da parte nostra, la parabola è quella detta del “servo spietato” che troviamo in Matteo 18.21-35, esposta a seguito di una domanda dell’apostolo Pietro che “gli si avvicinò, e gli disse «Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.A proposito, il regno dei cieli è simile a un re che volle fare i conti con i suoi servi. Incominciati i conti, gli fu presentato uno che gli era debitore di diecimila talenti. Non avendo però costui il denaro da restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, con i figli e con quanto possedeva, e saldasse così il debito. Allora quel servo, gettatosi a terra, lo supplicava: Signore, abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa. Impietositosi del servo, il padrone lo lasciò andare e gli condonò il debito. Appena uscito, quel servo trovò un altro servo come lui che gli doveva cento denari e, afferratolo, lo soffocava e diceva: Paga quel che devi! Il suo compagno, gettatosi a terra, lo supplicava dicendo: Abbi pazienza con me e ti rifonderò il debito. Ma egli non volle esaudirlo, andò e lo fece gettare in carcere, fino a che non avesse pagato il debito. Visto quel che accadeva, gli altri servi furono addolorati e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: Servo malvagio, io ti ho condonato tutto il debito perché mi hai pregato. Non dovevi forse anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te? E, sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non gli avesse restituito tutto il dovuto. Così anche il mio Padre celeste farà a ciascuno di voi, se non perdonerete di cuore al vostro fratello»”.

Anche se si tratta di un testo che esamineremo in futuro, si possono effettuare alcune sottolineature, prima fra tutte l’ammontare del debito che questo servitore, da individuare certamente in un dignitario di corte, aveva accumulato probabilmente distraendo delle somme a proprio vantaggio: il re della parabola “volle fare i conti” con i responsabili del suo patrimonio e, poco dopo aver iniziato le verifiche, ecco emergere questo personaggio e la frode a danno del suo signore. Va osservato che subito Pietro, ed eventualmente gli altri che ascoltavano Gesù parlare, si resero conto dell’enormità della somma poiché il talento di allora era l’equivalente di 32 kg circa d’argento. Il talento, però, poteva anche essere anche in oro per cui il debito accumulato era di 320 tonnellate a prescindere dal metallo distorto. È chiaro che quella persona non avrebbe mai potuto restituire la somma, ma secondo le leggi del tempo era possibile che pagasse comunque per la colpa venendo venduto unitamente alla sua famiglia come schiavo. Avrebbe cessato di esistere come individuo, non avrebbe avuto più nulla e lo stesso i suoi famigliari.

Contrariamente ad ogni previsione, però, quel re ebbe pietà di quel contabile e, ben sapendo che non avrebbe mai potuto mantenere quanto gli prometteva – ricordiamo le parole che gli disse dopo esserglisi gettato a terra, “Abbi pazienza con me e ti rifonderò il debito” – andando contro i suoi interessi, mosso unicamente da un sentimento di pietà, gli azzerò la somma che avrebbe dovuto restituire. Ora stupisce il comportamento che quest’uomo ebbe non appena incontrò una persona, che si suppone fosse un suo pari grado, debitore nei suoi confronti di 100 denari, somma rapportabile allo stipendio di poco più di tre mesi di un operaio: era un’inezia rispetto a quella che a lui era stata condonata. Ma rimase inflessibile e fu crudele verso di lui. Anche quel debitore si gettò a terra esattamente come aveva fatto l’altro col suo re, dicendo le stesse parole, questa volta però pronunciando una promessa plausibile. Eppure abbiamo letto che “non volle esaudirlo, andò e lo fece gettare in carcere, fino a che non avesse pagato il debito”. Questa azione ci dice molto sullo spirito che dominava il servitore spietato: per lui esisteva solo il proprio io: quando si era trovato davanti al suo signore il terrore che aveva provato all’emersione del debito, il sentirsi perduto, lo aveva spinto a gettarsi a terra e a chiedere sinceramente pietà, ma ogni paura era svanita una volta ottenuto il condono ed era tornato quello che era, un essere insensibile attento solo ai propri interessi. Abbiamo letto la sua fine: “Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non gli avesse restituito tutto il dovuto” cioè mai, vista l’enormità del debito.

È allora facile individuare nella somma che il servitore spietato avrebbe dovuto restituire al re, la condizione di peccato in cui versano tutti gli uomini che non hanno ricevuto il perdono di Dio. Quando un uomo scopre di essere nella condizione di quel servo, di non avere di che pagare ma soprattutto che per quanto farà non riuscirà mai a soddisfare le esigenze del Suo Signore e gli chiede pietà nonostante tutto, ottiene un perdono che non può non trasmettere agli altri. La sua persona, cioè, non può che venire trasformata da quell’atto di pietà e amore. Certo non possiamo salvare nessuno, ma gestire il perdono per quanto ci è dato, sicuramente sì. Ecco allora che ancora una volta ci troviamo di fronte a un “debito”, che riguarda la verticalità del rapporto uomo – Dio, e a dei “debiti” che rientrano invece nell’orizzontalità del rapporto tra esseri umani visti nei 100 denari della parabola: piccole cose, tranquillamente rifondibili, elementi che sappiamo che addirittura dovremmo aspettare ci venissero restituiti dalla persona senza chiederli indietro.

Il problema però è che non solo Gesù, ma tutta la Scrittura parla in larga parte per simboli e qui non si tratta solo di denaro, ma di offese, di torti, di azioni ingiuste che abbiamo eventualmente patito. Si potrebbero citare molti versi in proposito, di cui una parte sono già stati scritti in riflessioni precedenti quando abbiamo affrontato l’amore per i nemici, il porgere l’altra guancia e altri; qui credo però sia necessario andare al libro del Siracide, un deuterocanonico che, pur non avendo l’autorità spirituale di altri come i Proverbi o il Qoélet (Ecclesiaste), è interessante perché scritto da una persona che dedicò la propria vita a studiare anche i meccanismi psicologici che regolano i rapporti umani. Ben Sira, il suo autore, è scritto che chiese a Dio la sapienza e la ottenne. Conosciuto anche come “Ecclesiastico” è databile attorno al 180 a.C.. Scrive Aldo Moda che l’autore del libro era uno scriba ed espose il frutto del suo studio, intrapreso per grande passione per autentica vocazione fin dalla giovinezza, alla gioventù aristocratica di Gerusalemme che frequentava la sua scuola. Arricchì la sua cultura con numerosi viaggi all’estero, forse anche giovane entrò al servizio di un re straniero in qualità di funzionario. La sua professione di scriba gli permise di essere attento alla realtà sociale ed al culto nel Tempio. Alcuni studiosi lo avvicinano alla corrente sadducea, allora al suo sorgere.

Ebbene, nel grandissimo numero degli argomenti, Jehoshua Ben Shira affronta il tema dell’offesa e quindi dei “debiti” che gli uomini possono contrarre fra loro e il loro spontaneo regolarsi. Ben Shira non fa mai riferimento a tribunali o a terze persone che possano costringere a saldare i debiti, ma valuta indirettamente ed in modo tanto semplice quanto profondo le cause e gli effetti delle offese: “Se hai sguainato la spada contro un amico, non disperare, può esservi un ritorno. Se hai aperto la bocca contro un amico, non disperare, può esserci riconciliazione, tranne il caso di insulto e di arroganza, di segreti svelati e di un colpo a tradimento; in questi casi ogni amico scomparirà” (22.21,22). Perché? Perché in tutti questi casi viene a mancare il rispetto, il riguardo per la persona e la sua dignità in quanto amico e persona, per cui solo una radicale revisione del modo i pensare di chi si è comportato così può spingere a chiedere il perdono e trovarlo. Certo Ben Shira non conosceva la Grazia e parlava a livello umano, non sbagliando le sue valutazioni di base né contraddice a priori le parole di Gesù sul perdono, settanta volte sette. E non esiste perdono senza confessione e prima ancora ravvedimento, tra uomo e uomo e tra questi e Dio stesso.

Fatta questa parentesi necessaria, una delle tante che dimostrano la serietà del perdono che non può essere generalizzato e dato a prescindere, la frase conclusiva di Gesù alla parabola del servo spietato illumina su quanto sia attento lo sguardo di Dio sui suoi figli: “Così anche il mio Padre celeste farà a ciascuno di voi, se non perdonerete di cuore al vostro fratello”; questa si raccorda a quella pronunciata proprio a conclusione dell’esposizione del “Padre nostro”: “Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il padre vostro perdonerà le vostre colpe” (Matteo 6.14,15). Ecco la reciprocità. Ecco l’impensabilità dei doppi pesi e delle doppie misure che in un rapporto fraterno non possono esistere. Senza la reciprocità, non rimane che la religione che, in sintesi, altro non è se non la pretesa puerile di essere ascoltati a prescindere da quello che siamo veramente, nella nostra essenza, nel nostro cuore. Perché il perdono è l’espressione della partecipazione ad un progetto, di un cammino che non percorriamo da soli, ma con il Padre. Che, appunto, è nostro. Amen.

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05.35 – PADRE NOSTRO 5/9 (Matteo 6.9-13)

05.35 – Padre nostro – V (Matteo 6.9-13)

 

9Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome,10venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. 11Dacci oggi il nostro pane quotidiano, 12e rimetti a noi i nostri debiti  come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori, 13e non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male.14Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi;15ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe.”.

 

RIMETTI A NOI I NOSTRI DEBITI…

Il verso 12 è molto chiaro e parrebbe non necessario di approfondimenti: si chiede al Padre la remissione dei debiti che abbiamo con Lui come noi ci impegniamo a fare altrettanto con chi li ha verso di noi o, meglio, perché abbiamo avuto, accettando il Vangelo, lo stesso trattamento da Lui. Anche se è così, possiamo dire che questo è un verso molto impegnativo e la comprensione di quanto esprime credo possa far del bene a tutti noi, stante il rapporto profondo e continuo esistente tra Antico e Nuovo Patto. Ancora una volta dobbiamo partire dalla realtà conosciuta dagli uditori di Gesù che, nell’attesa che la parola “debito” venisse spiegata con la parabola del servo spietato, potevano collegarsi alla preghiera che Salomone rivolse a YHWH quando l’Arca dell’alleanza fu trasferita nel tempio. La preghiera è contenuta in 1 Re 8.36-50 e ne riportiamo una parte: “Quando il tuo popolo Israele sarà sconfitto di fronte al nemico perché ha peccato contro di te, ma si converte a te, loda il tuo nome, ti prega e ti supplica in questo tempio, tu ascolta nel cielo, perdona il peccato del tuo popolo Israele e fallo tornare sul suolo che hai dato ai loro padri. Quando si chiuderà il cielo e non ci sarà pioggia perché hanno peccato contro di te, ma ti pregano in questo luogo, lodano il tuo nome e si convertono dal loro peccato perché tu li hai umiliati, tu ascolta nel cielo, perdona il peccato dei tuoi servi e del tuo popolo Israele, ai quali indicherai la strada buona su cui camminare, e concedi la pioggia alla terra che hai dato in eredità al tuo popolo. Quando sulla terra ci sarà fame o peste, carbonchio o ruggine, invasione di locuste o bruchi, quando il suo nemico lo assedierà nel territorio delle sue città o quando vi sarà piaga o infermità di ogni genere, ogni preghiera e ogni supplica di un solo individuo o di tutto il tuo popolo Israele, di chiunque abbia patito una piaga nel cuore e stenda le mani verso questo tempio, tu ascoltala nel cielo, luogo della tua dimora, perdona, agisci e da’ a ciascuno secondo la sua condotta, tu che conosci il suo cuore, poiché solo tu conosci il cuore di tutti gli uomini, perché ti temano tutti i giorni della loro vita sul suolo che hai dato ai nostri padri”.

Qui viene descritta una realtà che è presa d’atto di una sconfitta, di eventi che, per la dispensazione in cui si trovava il popolo, potevano essere chiaramente riconducibili ad un intervento di Dio teso a punire una condizione di peccato. Allo stato di cose descritto, cioè l’essere vinti dal nemico, la presenza della siccità, della malattia o altro, segue una vera richiesta di perdono dovuta a un forte dolore interiore. Il popolo, cioè, non avrebbe dovuto soltanto “chiedere perdono” come in un banale rito, ma convertirsi (ricordiamo le parole di Giovanni Battista, “ravvedetevi, perché il regno dei cieli è vicino”).  Salomone stesso dice “Se si convertono dal loro peccato”, ponendo la condizione, la sola in grado di testimoniare che il ravvedimento è avvenuto e che la richiesta di perdono è sincera. Possiamo dire che, relativamente alla remissione del peccato da parte di Dio, la stessa cosa avviene anche oggi: in questo tempo in cui le calamità naturali sono una conseguenza delle violenze che uomini scellerati hanno perpetrato su un pianeta prossimo al collasso, non possiamo certo fare gli stessi collegamenti dell’Israele allora; tuttavia per ogni uomo viene il momento in cui si ritrova a fare i conti con delle sconfitte di fronte alle quali è obbligato a chiedersi se queste derivino dal naturale svolgersi della vita, oppure siano un richiamo di Dio alla conversione e questo vale anche per i credenti.

Nell’ultima parte della preghiera di Salomone, poi, vediamo come veda il popolo come organismo di individui, passando ad esaminare il singolo perché facente parte di esso e per questo dotato di individualità e responsabilità: “Dà a ciascuno secondo la sua condotta, tu che conosci il suo cuore”. Lo stesso avviene anche oggi per noi.

Nel Padre nostro Gesù parla di “debiti”perché, come vedremo, esiste un “debito” con Dio, quello che non c’è uomo sulla terra che non abbia, e dei “debiti”. Il primo è quello che rendeva i cristiani incompatibili con Lui visto nella condizione di peccato ereditata alla nascita, i secondi sono quelli che come credenti possiamo sempre contrarre a causa di una mancata vigilanza sulle nostre azioni, cioè quelli che possiamo commettere nella carne perché siamo defettibili. Essere dei salvati non implica l’essere santi e puri a prescindere delle nostre azioni, cioè che siamo stati liberati dal peccato una volta per tutte e che quindi non peccheremo più, ma percorrere una strada fatta di astensione da ciò che offende la nostra dignità e posizione di credenti penalizzando anche fortemente il rapporto che abbiamo con Lui.

Cos’è il peccato? È un termine che si riferisce a qualsiasi azione che possiamo commettere estranea alla volontà e santità di Dio. Il “peccato” è prima di tutto un modo di ragionare, di essere e di vivere, quello di chi esiste ignorando più o meno deliberatamente la Sua presenza, le Sue aspettative nei confronti della creatura che si ritrova così abbandonata a se stessa e cerca di soddisfarsi da un punto di vista fisico e psichico raggiungendo lo scopo per brevi periodi. Ora sappiamo che, grazie al sacrificio di Cristo sulla croce, chiunque lo comprenda e lo accetti consapevolmente per la propria salvezza eterna, in tal modo accogliendolo, viene fatto figlio di Dio venendo liberato dalla sua condizione di peccatore: viene accolto così com’è, viene perdonato, cessa di essere straniero ed avventizio secondo versi che abbiamo citato diverse volte.

L’Agnello di Dio toglie il “peccato del mondo”, non “dal” mondo, non elimina la possibilità di compierlo anche da parte di chi è salvato e redento. E per “togliere” si intende prendere su di sé. C’è un’opinione diffusa in certe Chiese cristiane secondo la quale chi ha creduto, perdonato una volta per sempre dal sangue versato di Cristo, non abbia più bisogno di domandare il perdono dei suoi peccati quotidiani perché non può più peccare. Eppure Giovanni nella sua prima lettera sappiamo che scrive “…se qualcuno ha peccato, noi abbiamo un Avvocato presso il Padre: Gesù Cristo giusto“ (1 Giovanni 2.1).

Davide scrisse “Per il tuo nome, Signore, perdona la mia colpa, anche se grande” (Salmo 25.11), e “Liberaci e perdona i nostri peccati, a motivo del tuo nome” (Salmo 79.9), richieste rivolte a chi è tanto giusto quanto pietoso nei confronti della creatura che a Lui si rivolge. Possiamo dire che la preghiera del “Padre nostro” si occupa non del debito originale, ma di quelli che si accumulano o possono presentarsi lungo il nostro cammino terreno di cui chiediamo la remissione, possibile a due condizioni: perché ne abbiamo compreso la portata e perché li abbandoniamo, la sola azione che possa dimostrare, come già detto, l’avvenuto ravvedimento. Quando ero bambino e andavo a confessarmi, al termine c’era l’”atto di dolore” che si concludeva con le parole “propongo di non offendervi mai più, Signore misericordia perdonatemi”: col tempo, mi sono chiesto se pronunciare quelle parole a distanza di giorni non fosse un alibi, un modo per legittimare certi miei comportamenti perché tanto venivo perdonato e assolto comunque. La stessa cosa succede a molti anche oggi, che pongono in essere comportamenti liberi sapendo che tanto poi, andandosi a confessare, si pentono formalmente regolando così i propri “debiti”.

Nulla di più sbagliato. Si tratta di un modo di ragionare falso e distorto, utilitaristico, che non ha nulla a che vedere con lo Spirito e tutto ha a che fare con l’essere umano carnale, diabolico e ipocrita perché sapere che non esiste peccato che non possa essere rimesso non è una realtà che possiamo distorcere a nostro vantaggio, servircene per i nostri fini personali. Chi agisce così è una persona che, se non si ravvede, sarà solo un religioso, cioè uno che rientra nelle categorie di cui Gesù sappiamo disse “Questo è il premio che ne hanno”.

Utile in proposito un breve commento e relativa lettura su Efesi 4.17-32 che si apre con un paragone importante. L’apostolo Paolo si rivolge a dei credenti che avevano da poco abbandonato il paganesimo e quindi risentivano inevitabilmente dei suoi retaggi e per questo vengono invitati a meditare sulla loro condizione: “Vi dico dunque e vi scongiuro nel Signore: non comportatevi più come i pagani con i loro vani pensieri, accecati nella loro mente, estranei alla vita di Dio a causa dell’ignoranza che è in loro e della durezza del loro cuore. Così, diventati insensibili, si sono abbandonati alla dissolutezza e, insaziabili, commettono ogni sorta di impurità”. Qui vediamo che il paganesimo, la vita normale quotidiana, “orizzontale”, si caratterizza con vani pensieri, cioè “privi di consistenza, internamente vuoti”, cecità mentale, estraneità alla vita di quell’unico Dio che la vita può dare. Ignoranza e durezza del cuore, entrambe coltivate più o meno consapevolmente, hanno portato insensibilità spirituale e piena disposizione a ciò che è animale e terreno non dando loro altra scelta se non quella di rifugiarsi nella dissolutezza che va a tamponare l’insoddisfazione. I germi del paganesimo, che si concretano nell’anarchia spirituale, li porteremo sempre con noi, se non altro come bagaglio storico. C’è però un’avversativa lapidaria vista nel “Ma” che apre il verso 20: “Ma non così– cioè comportandovi in quel modo – voi avete imparato a conoscere il Cristo, sedavvero gli avete dato ascolto e sein lui siete stati istruiti, secondo la verità che è in Gesù, ad abbandonare con la sua condotta di prima l’uomo vecchio che si corrompe seguendo passioni ingannevoli, a rinnovarvi nello spirito della vostra mente e a rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità”.

Qui abbiamo un grande insegnamento: prima di tutto io noto dei “se”, che vanno idealmente a collegarsi alla preghiera di Salomone citata poco prima; è un “se” che fa la differenza, è una verifica, è un garanzia. Facile dire che si conosce Gesù Cristo e che si ha il Suo Spirito soprattutto in certi ambienti evangelici; molto meno agevole è dimostrare di avere abbandonato l’uomo vecchio che si corrompe seguendo passioni ingannevoli e ancor di più il suo metodo di giudicare. L’uomo vecchio segue le proprie passioni e si basa su di esse, ma alla fine queste crollano. Siamo chiamati a rinnovarci e a rivestire l’uomo nuovo. Siamo chiamati a non rimanere immobili nelle nostre posizioni perché la stasi non esiste e comprometterebbe gravemente la nostra realtà. Chi non si evolve, come ci dimostra la “parabola dei talenti”, in realtà va indietro e peggiora progressivamente senza rendersene conto.

Agire senza rinnovarsi, senza cercare di portare il nostro modo di pensare e di essere a un livello superiore coltivando lo Spirito ma continuando nelle azioni dell’ ”uomo vecchio”, equivale a contristarlo: “E non vogliate rattristare lo Spirito Santo di Dio, con il quale foste segnati per il giorno della redenzione. Scompaiano da voi ogni asprezza, sdegno, ira, grida e maldicenze con ogni sorta di malignità. Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato voi in Cristo”. Ecco un’altra applicazione col debito rimesso: lo Spirito Santo abbiamo letto che è un “segno” dato per il giorno della redenzione, ma la presenza dentro di noi di elementi dominanti estranei, come quelli che caratterizzano l’uomo vecchio che a volte torna a manifestarsi, fanno parte di quei tanti “debiti” che abbiamo il diritto dovere di chiedere al Padre che ci siano rimessi. E siccome le stesse azioni negative le possono compiere dei fratelli nei nostri confronti, chiedere che ci venga perdonato senza che noi perdoniamo, è un’assurdità. L’uomo che un giorno si è messo alla ricerca di Dio, trovandolo, non può venire lasciato solo nel proprio cammino di ricerca e edificazione spirituale.

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