05.34 – PADRE NOSTRO 4/9 (Matteo 6.9-13)

05.35 – Padre nostro – IV (Matteo 6.9-13)

9Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome,10venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. 11Dacci oggi il nostro pane quotidiano, 12e rimetti a noi i nostri debiti  come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori, 13e non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male.14Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi;15ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe.”.

 

SIA FATTA LA TUA VOLONTÀ COME IN CIELO COSÌ IN TERRA

Con questa terza e ultima dossologia abbiamo il punto ideale di congiunzione tra il credente e Dio Padre; sicuramente è la più impegnativa e responsabilizzate perché ci chiama in causa davvero in modo diretto. Sono convinto che, quando molti cristiani recitano il “Padre nostro”, non pensino che in realtà s’impegnino di fronte a Dio in modo categorico perché, a prescindere dalle richieste che rivolgiamo davanti al Trono della Sua Grazia, chiediamo che venga fatta la Sua volontà e non la nostra. E il nostro essere naturale viene così a trovarsi, obiettivamente, davanti a un muro, a ciò che è il perimetro del nostro territorio, dell’ambito in cui viviamo contrapposto alla volontà di Dio che può essere, come spesso avviene, diversa dalla nostra.

Tutto ciò ci porta a Gesù, che sperimentò nella sua perfezione e totalità il dolore e l’angoscia giungendo pregare perché gli fosse risparmiato l’immenso patire che avrebbe subito dall’arresto alla crocifissione e, infine, la morte. Sofferenza non solo fisica, ma spirituale, quella che più lo opprimeva. Gesù stesso è il primo riferimento a quel “Sia fatta la tua volontà” perché ne ha dato il più illustre esempio. Leggiamo il testo: “Allora Gesù andò con loro in un podere, chiamato Ghetsemani, e disse ai discepoli: «Sedetevi qui, mentre io vado là a pregare». E presi con sé Pietro e i due figli di Zebedeo, cominciòa provare tristezza e angoscia. E disse loro: «La mia anima è triste fino alla morte; restate qui e vegliate con me». Andò un poco più avanti, cadde faccia a terra e pregava, dicendo: «Padre mio, se è possibile, passi via da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!». Poi venne dai suoi discepoli e li trovò addormentati. E disse a Pietro: «Così, non siete capaci di vegliare con me una sola ora? Vegliate e pregate per non entrare in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole». Si allontanò una seconda volta e pregò dicendo: «Padre mio, se questo calice non può passare via senza che io lo beva, si compia la tua volontà». Poi venne e li trovò di nuovo addormentati, perché i loro occhi si erano fatti pesanti. Li lasciò, si allontanò di nuovo e pregò per la terza volta, ripetendo le stesse parole”(Matteo 26.36-44).

Personalmente rilevo in questi versi che Gesù, nonostante avesse perfettamente chiaro fin dall’inizio del suo ministero pubblico, ma anche prima della fondazione del mondo, che lo scopo della prima sua venuta sulla terra sarebbe stato quello della morte in croce, qui inizia a provare un sentimento assolutamente umano (ricordiamo che sudò sangue, a differenza di Adamo che col sudore del volto si sarebbe guadagnato il pane). Non si trattava della paura del dolore fisico, ma di quello morale e spirituale che sarebbe consistito nell’abbandono del Padre che avrebbe provato per la prima e unica volta. Quel grido, “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” non credo possa essere descritto, quanto a significato di sofferenza, con termini adeguati. Eppure, nonostante questo, Nostro Signore dichiara “Sia fatta la tua volontà” mettendosi in secondo piano rispetto al volere del Padre che era il risultato di un piano concordato dalle tre persone racchiuse nella parola “Elohim” e raffigurate nel tetragramma YHWH.

Poi, notiamo che Gesù rivolse al padre la richiesta di non bere quel calice per tre volte, non una di più, a conferma di un comportamento assolutamente dignitoso, di una preghiera in cui la consapevolezza di venire ascoltato a prescindere dall’esaudimento era l’elemento più importante.

La meravigliosa e perfetta dignità con la quale Nostro Signore accettò il suo ultimo compito, dall’arresto all’ultima parola sulla croce, poi, ci presenta tra gli infiniti spunti di riflessione quanto fosse stata reale, vera l’accettazione della volontà del Padre: Gesù non cede mai. Non si lamenta. Non ha un solo movimento o frase inconsulti giungendo a rifiutare l’anestetico che i soldati romani porgevano ai condannati. “Sia fatta la tua volontà”,principio che per Lui rappresentava una fonte di nutrimento: “Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera”(Giovanni 4.34). E il “compiere” comportava bere quel “calice” a Lui riservato e di cui chiedeva, se possibile, che gli fosse risparmiato.

Un secondo esempio lo troviamo in Atti 21 in un contesto molto particolare: l’apostolo Paolo aveva terminato il suo viaggio attraverso la Macedonia e la Grecia e intendeva tornare a Gerusalemme. Dice il testo: “…giungemmo a Cesarea ed entrati nella casa di Filippo l’evangelista, che era uno dei Sette, restammo presso di lui. Egli aveva quattro figlie nubili, che avevano il dono della profezia. Eravamo qui da alcuni giorni, quando scese dalla Giudea un profeta di nome Agabo. Egli venne da noi e, presa la cintura di Paolo, si legò i piedi e le mani e disse: «Questo dice lo Spirito Santo: l’uomo al quale appartiene questa cintura, o Giudei a Gerusalemme lo legheranno così e lo consegneranno nelle mani dei pagani». All’udire queste cose, noi e quelli del luogo pregavamo Paolo di non salire a Gerusalemme. Allora Paolo rispose: «Perché fate così, continuando a piangere e a spezzarmi il cuore? Io sono pronto non soltanto ad essere legato, ma anche a morire a Gerusalemme per il nome del Signore Gesù», E poiché non si lasciava persuadere, smettemmo di insistere dicendo: «Sia fatta la volontà del Signore»(Atti 21.8-14).

Qui siamo in un contesto diverso, in cui gli interessati sono dei credenti che manifestano il loro affetto spirituale e umano legato ad un ambito personale: consci del valore dell’apostolo e di tutto quello che aveva fatto per loro, rifiutano l’idea che Paolo potesse subire una sorte a lui “sfavorevole”, dimenticandosi che il solo che può disporre veramente della vita e stabilire i percorsi di ciascuno di loro sia in realtà il Padre. La resa manifestata dalle loro ultime parole, le sole che Luca riporta in modo preciso, risiede proprio in quel “Sia fatta la volontà del Signore”dalle quali rileviamo l’accettazione di quei credenti del piano di Dio per Paolo. È un verso molto bello perché ci insegna che, per quanto sia lecito pregare in base alle nostre aspettative, l’importante è la Sua “volontà” e non la nostra. Sicuramente quei cristiani accettarono il fatto che l’apostolo partisse per Gerusalemme come un esaudimento alla loro preghiera, capendo che le vie del Signore possono essere differenti da quelle che ci aspettiamo. E giunto là, Paolo fu arrestato nel Tempio e dovette successivamente affrontare il tribunale ebraico.

Conseguenza diretta di questo episodio, spiritualmente, è l’atteggiamento raccomandato a tutti i veri cristiani: “Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare per poter discernerela volontà di Dio, cioè che è buono, a lui gradito e perfetto” (Romani 12.2). Sono parole importanti che ci rivelano ciò che da soli non sapremmo. Vivendo in questo mondo, per lo più circondati da gente che vive un sistema che pensa unicamente alla propria sopravvivenza inevitabilmente a danno di altri sempre e comunque, abbiamo l’invito a non conformarci a lui, cioè adeguarsi alla sua mentalità, ai suoi metodi di vita, ai suoi obiettivi che sono innati anche in noi e si sviluppano dal preciso momento in cui ascoltiamo la nostra carne e la sua volontà. Il lasciarsi trasformare, poi, implica un’azione docile, un lasciarsi trasportare senza resistenza perché in quel caso porremmo una forza di attrito a quella benefica dello Spirito. Resistere a qualcosa implica fatica, ma opporsi allo Spirito comporta un danno al nostro stato di “nuova creatura” che rimarrebbe inevitabilmente penalizzata. Solo rinnovando il nostro modo di pensare antico, nel quale purtroppo a volte torniamo, è possibile “discernere la volontà di Dio, cioè che è buono, a lui gradito e perfetto”. Anche questo è racchiuso in quel “Sia fatta la tua volontà” ed ecco perché ho scritto che, per chi recita il Padre nostro indipendentemente dal fatto che lo utilizzi come preghiera recitata o modello, sono parole che impegnano profondamente e non possono venire pronunciate alla leggera, non confermandole con un comportamento – impegno consono all’importanza che rivestono. Pronunciarle significa porre la nostra persona in secondo piano dichiarando la nostra disponibilità ad accettare qualunque progetto che Dio ha per noi.

Successivamente Gesù ci indica dove debba compiersi questa volontà e lo fa citando la totalità dei luoghi coinvolti, il cielo e la terra. È una congiunzione tra i due elementi, il planare perfetto del volere del Padre che dall’alto, o meglio dalla dimensione perfetta dello spirito, la quarta, arriva fino a noi. Obiettivamente, presa alla lettera la prima parte, sembrerebbe una richiesta senza senso, poiché il Padre agisce indipendentemente dalla volontà dell’uomo, non ha chiesto il permesso a nessuno quando ha dato inizio alla creazione e neppure il nostro prima di farci venire al mondo; anzi, dalla lettura di Giobbe 38.8-41 emerge quanto siano distanti la nostra conoscenza, volontà e possibilità dalle sue. Ricordiamo parte delle parole di questo passo: “Cingiti i fianchi come un prode: io ti interrogherò e tu mi istruirai: quando ponevo le fondamenta della terra, tu dov’eri? Dimmelo, se sei tanto intelligente! (…) Chi ha chiuso tra due porte il mare, quando usciva impetuoso dal seno materno, quando io lo vestivo di nubi e lo fasciavo di una nuvola oscura, quando gli ho fissato un limite e gli ho messo chiavistello e due porta dicendo «Fin qui giungerai e non oltre e qui s’infrangerà l’orgoglio delle tue onde»?(…) Da quando vivi, hai mai comandato al mattino e assegnato il posto all’aurora, perché afferri la terra per i lembi e ne scuota i malvagi, ed essa prenda forma come creta premuta da sigillo e si tinga come un vestito e sia negata ai malvagi la loro luce e sia spezzato il braccio che si alza a colpire? Sei mai giunto alle sorgenti del mare e nel fondo dell’abisso hai passeggiato? Sei mai giunto fino ai depositi della neve, hai mai visto i serbatoi della grandine, che io riserbo per il giorno della sciagura, per il giorno della guerra e della battaglia?”.

Ecco, in questo dialogo abbiamo un racconto di alcune fasi della creazione e del diluvio, che non esistono nel libro della Genesi, da cui traspare la perfetta scienza e autonomia di Dio. Allora la risposta alla domanda sul perché di una simile richiesta nel “Padre nostro” non può essere se non il voler aderire ancora una volta e con forza al progetto del Creatore: è una dichiarazione totale che, come già detto, non può essere pronunciata alla leggera, ritualmente, distrattamente, ma richiede piena partecipazione non come atteggiamento, ma come condivisione. “Sia fatta la tua volontà” è una confessione, è la dichiarazione mediante la quale ci riconosciamo dei subordinati a lui perché la volontà che si deve compiere non può essere che la sua, come comprese quel lebbroso che disse a Gesù “Signore, se tu vuoi, puoi guarirmi” (Marco 1.40). Sappiamo che fu quella frase a suscitare in Nostro Signore la compassione, cioè a immedesimarsi nella sua condizione che contemplava sì la malattia, ma anche tutto quel sentimento di riverenza, fede e non pretesa. “Se tu vuoi, puoi”, è una frase che potremmo definire parente stretta di quel “Sia fatta la tua volontà” espressa nel Padre nostro.

La volontà del Padre in cielo è un riferimento a tutto ciò che non conosciamo relativamente ai Suoi piani, alla totalità di quel creato che possiamo soltanto intravedere e dal quale siamo stati esclusi per quanto riguarda la nostra vita in una terra in cui sperimentiamo costantemente le conseguenze del peccato dei nostri progenitori. Esprimere la preghiera per cui sia fatta la volontà del Padre in cielo come in terra, esprime l’adorazione profonda dell’uomo al suo Dio: “Il Signore ha posto il suo trono nei cieli e il suo regno domina l’universo. Benedite il Signore, angeli suoi, potenti esecutori dei suoi comandi, attenti alla voce della sua parola. Benedite il Signore, voi tutte sue schiere, suoi ministri che eseguite la sua volontà” (Salmo 103.19-21). Amen.

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05.33 – PADRE NOSTRO 3/9 (Matteo 6.9-13)

05.33 – Padre nostro – III (Matteo 6.9-13)

 

9Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome,10venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. 11Dacci oggi il nostro pane quotidiano, 12e rimetti a noi i nostri debiti  come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori, 13e non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male.14Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi;15ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe.”.

VENGA IL TUO REGNO

Siamo giunti al secondo dei tre “tuo”che, nel “Padre nostro”, indicano l’area di pertinenza di Dio. Così come è il Suo Nome che deve essere santificato, in opposizione a quello di altri, così deve venire il Suo Regno, non uno dei tanti che gli uomini hanno cercato di instaurare, a volte riuscendovi per quanto temporaneamente. Così, in questi “ultimi giorni” cui abbiamo accennato la volta scorsa, questa speranza, questo desiderio del nostro spirito, è inevitabile che si faccia più pressante stante la presenza di un altro regno, a lui opposto, che il “principe di questo mondo” sta realizzando ed è di imminente instaurazione: si tratta di un sistema che sarà costituito da un potere economico assolutamente immorale in mano a pochi, che richiederà totale adesione di coscienza e azione, che combatterà con tutti i mezzi a sua disposizione chi dissentirà da lui. Uno stato di cose che finirà con la distruzione del pianeta che, come sappiamo, è scritto che “si logorerà come un vestito”. Il Regno vero, quello di Dio, si realizzerà definitivamente quando avverrà ciò che l’apostolo Giovanni vide dopo il giudizio finale: “Poi vidi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il primo cielo e la prima terra erano passati e il mare non c’era più. E io, Giovanni, vidi la santa città, la nuova Gerusalemme, che scendeva dal cielo presso Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. E udii una gran voce dal cielo, che diceva «Ecco il tabernacolo di Dio con gli uomini! Ed Egli abiterà con loro, ed essi saranno suo popolo e Dio stesso sarà con loro e sarà il loro Dio. E Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi, e non ci sarà più la morte, né cordoglio, né grido né fatica, perché le cose di prima son passate»” (Apocalisse 21.1-4).

Va sempre tenuto presente il dualismo esistente in ogni elemento: il “regno“ ha come definizione quella di uno stato monarchico inteso come ente politico, come territorio e come insieme dei cittadini. Indica un ambito e un luogo più o meno grande su cui il potere viene esercitato e in cui qualcuno domina. Questa definizione non ci può far venire in mente l’impossibilità che ha l’essere umano di servire a due padroni e quindi di appartenere a un contesto piuttosto che a un altro. Del resto, sappiamo che Satana si trova a suo agio sulla terra, che percorre alla ricerca tanto di chi possa perdere, quando di chi possa tentare. Incontrando Dio in Giobbe, alla domanda “Da dove vieni?” risponderà “Da un giro sulla terra che ho percorso” o, come in un’altra versione, “Dall’andare avanti e indietro sulla terra e dal percorrerla su e giù” (Giobbe 1.7).

Il Regno di cui preghiamo la venuta deve ancora venire, ma chiunque crede e fa la volontà di Dio ne fa già parte, pur vedendolo ancora in lontananza. E qui si dovrebbe aprire una grande parentesi, perché dovremmo affrontare il tempo come dimensione in cui agiscono gli uomini a prescindere dall’epoca in cui sono vissuti. Leggiamo in Giovanni 8.56 “Abramo desiderò vedere il mio giorno; lo vide e ne gioì. Ancora in Matteo 13.17 “In verità vi dico: molti profeti e giusti hanno desiderato vedere ciò che voi vedete, e non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, e non lo ascoltarono”. Ricordiamo Ebrei 11.13 “Nella fede morirono tutti costoro, senza avere ottenuto i beni promessi, ma li videro e li salutarono da lontano, dichiarando di essere stranieri e pellegrini sulla terra”. Ecco perché il “Regno” è il tutto, come lo è Cristo presente alla creazione, che venne al mondo con un corpo simile al nostro, che tornerà a giudicare il mondo e a realizzare il compimento definitivo delle promesse. Molto belle le parole di San Girolamo in proposito: “Vedi qui dunque come l’Antico Testamento si unisce al Nuovo; poiché se i Profeti fossero stati servitori di un Dio estraneo o contrario a Cristo, mai avrebbero desiderato vederlo” (Catena aurea: glossa continua super Evangilia). Il “Regno” si realizza attraverso ogni singolo istante e in ogni anima che crede in Gesù e lo accoglie, cambiando vita e scopo di esistenza. Il Regno è quel luogo che Gesù descrisse con poche parole ai Suoi quando disse loro “Il vostro cuore non sia turbato: credete in Dio, e credete anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore; se no ve lo avrei detto. Io vado a prepararvi un posto. E quando sarò andato e vi avrò preparato il posto, ritornerò e vi accoglierò presso di me, affinché dove sono io siate anche voi. Voi sapete dove vado, e sapete anche la via” (Giovanni 24.1-4).

Il Regno che deve venire non fu rivelato in Eden, territorio in cui l’uomo, allora sì a immagine e somiglianza di Dio, poteva vederlo, parlargli e camminare assieme per il giardino nel fresco della sera. Con la catastrofe conseguente all’infrazione dell’unico comandamento ricevuto, l’uomo, divenuto incompatibile con quel luogo santo e la trasformazione della sua fisiologia da immortale a mortale, ascoltò la condanna del serpente e la promessa di un riscatto visto nella progenie della donna che gli avrebbe schiacciato il capo.

Ecco, lì fu annunciato per la prima volta, per quanto in modo velato, ma alla fine della dispensazione dell’innocenza, quando i nostri predecessori entrarono in quella della coscienza. Da lì in poi, attraverso quella della Legge e poi della Grazia nella quale viviamo tuttora, non mancarono mai le rivelazioni di Dio che promettevano un radicale cambiamento della condizione amara in cui erano soggetti subendo il male con persecuzioni umane o con le tentazioni mirate dell’Avversario.

Il Regno di Dio fu rivelato ed è tuttora in costruzione attraverso i tempi. Gesù Cristo, testimone nell’eternità e nel tempo umano, disse parlando alle subdole autorità religiose di allora “Abrahamo, vostro padre, giubilò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e se ne rallegrò” (Giovanni 8.56): questo avvenne probabilmente attraverso una visione profetica in uno dei colloqui con “l’Angelo del Signore”. La progressione del Regno attraverso i secoli la vediamo agli inizi della storia umana, anche quando, in Genesi 4.26, a proposito della posterità di Adamo, che dopo Abele generò Set, è scritto “Anche a Set nacque un figlio, e lo chiamò Enos. Questi cominciò a invocare il nome del Signore”. Il tutto mentre esistevano, come progenie di Caino, “i figli degli uomini”.

Il Regno di Dio, nel suo punto di svolta che vi sarebbe stato con la morte e resurrezione di Cristo, lo vediamo anche nell’incontro sul monte della trasfigurazione al quale parteciparono anche Mosè ed Elia che “parlavano con lui della sua dipartita che stava per compiersi a Gerusalemme” (Luca 9.31).

Il Regno di Dio, però, al di là della sua manifestazione definitiva di cui siamo in attesa, è anche qualcosa che permea: quando infatti Nostro Signore fu interrogato dai farisei “…su quando sarebbe venuto il Regno di Dio, rispose loro e disse «Il regno di Dio non viene in maniera che si possa osservare, né si dirà Eccolo qui o Eccolo là, poiché ecco, il regno di Dio è dentro di voi»” (Luca 17.20-21) là dove un’altra traduzione, ugualmente corretta stante l’ambivalenza del significato, recita “È già in mezzo a voi”. Si tratta di un regno spirituale che si manifesta in molte modalità: quante volte Gesù iniziò alcune sue parabole con le parole “Il regno dei cieli è simile a…”? Ricordiamo ad esempio:

il seme della senape (Matteo 13.32,32)

«Il regno dei cieli è simile a un granello di senape, che un uomo prese e seminò nel suo campo. 32Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande delle altre piante dell’orto e diventa un albero, tanto che gli uccelli del cielo vengono a fare il nido fra i suoi rami».

il mercante che trova una perla di enorme valore (Matteo 13.44-46)

“Il regno dei cieli è anche simile a un mercante che va in cerca di belle perle;
e, trovata una perla di gran valore, se n’è andato, ha venduto tutto quello che aveva, e l’ha comperata”.

la rete gettata nel mare (Matteo 13.47,48)

“Il regno dei cieli è simile anche a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci. Quando è piena, i pescatori la tirano a riva e poi, sedutisi, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi. Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti.”

al lievito nelle tre misure di farina (Matteo 13.33)

«Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata».

E ve ne sono molte altre che richiederebbero uno studio a parte stante la ricchezza di elementi che ne potrebbe scaturire. “Venga il tuo regno” allora è un’espressione che include tutti questi significati senza contare la nostra posizione che va vagliata continuamente perché sappiamo, in altre parabole, quanto sia importante la vigilanza del servo vista anche nelle vergini stolte e in quelle savie. Poter dire “venga il tuo regno”, per un cristiano, significa esprimere un desiderio forte di comunione col suo Signore e confermare al tempo stesso la sua appartenenza a lui. Viceversa, sarebbe un controsenso perché, per la generazione di Caino, la venuta del regno comporterà il giudizio: “Io sono l’Alfa e l’Omega, il principio e la fine. A chi ha sete darò in dono della fonte dell’acqua della vita. Chi vince erediterà tutte queste cose e io sarò per lui Dio ed egli sarà per me figlio. Ma per i codardi, gli increduli, gli immondi, gli omicidi, i fornicatori, i maghi, gli idolatri e tutti i bugiardi, la loro parte sarà nello stagno che arde con fuoco e zolfo, che è la morte seconda”(Apocalisse 21.6-8).

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05.32 – PADRE NOSTRO 2/9 (Matteo 6.9-13)

05.32 – Padre nostro – II (Matteo 6.9-13)

9Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome,10venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. 11Dacci oggi il nostro pane quotidiano, 12e rimetti a noi i nostri debiti  come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori, 13e non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male.14Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi;15ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe.”.

 

SIA SANTIFICATO IL TUO NOME

Prima delle speranze o lodi espressa nella terna dei versi 9 e 10 che riguarda le aspettative spirituali. Teniamo presente che l’insegnamento di questa frase venne pronunciata in un tempo particolare, quando era imminente l’aperto rifiuto di Israele ad accettare Gesù come Messia e la Parola sarebbe stata predicata ai pagani. “Sia santificato”, cioè sia considerato come santo, riverito e glorificato da ogni creatura ragionevole, dotata di anima e libero arbitrio secondo la rivelazione di Cristo. Scrive l’apostolo Giovanni nel suo Vangelo “Dio nessuno lo ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato” (1.18), di qui il fatto che nessuno può andare al Padre se non per mezzo di Lui, che è “l’immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni creatura” (Colossesi 1.15).

Il primo elemento del “Padre nostro”, che qui consideriamo, ci parla di tempo e di scelta. Penso che si tratti di una frase sicuramente attuale dato che la dispensazione della grazia è ancora aperta, ma non si può non pensare ad alcune riflessioni sugli “ultimi tempi” che l’apostolo Pietro, guidato dallo Spirito Santo, già definiva consistere in quelli della venuta al mondo di Gesù facendo riferimento al fatto che, quando si esaurirà la Grazia, seguiranno eventi terribili per quell’umanità che non Lo avrà riconosciuto. C’è un periodo in cui l’accesso a Dio è aperto, ma ce ne sarà uno in cui sarà chiuso e già il profeta Isaia, nello scrivere l’invito del Messia a tutti gli assetati di giustizia, scriveva “Cercate l’Eterno mentre lo si può trovare, invocatelo mentre è vicino” (55.6). Ancora: “Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere innaffiato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare in modo da dare il seme al seminatore e pane da mangiare, così sarà la mia parola uscita dalla mia bocca: essa non ritornerà a me a vuoto senza aver compiuto ciò che desidero e realizzato ciò per cui l’ho mandata” (9-11). Ecco descritto il progetto di Dio per l’uomo: la Sua parola non torna a vuoto indipendentemente dal fatto che la creatura la accetti o meno, la scelga o la rifiuti. Un risultato lo produce in ogni caso, di benedizione o di esclusione.

I tempi in cui viviamo sono sia quelli di cui Paolo scrisse “…ci troviamo negli ultimi termini dei tempi” (1 Cor. 10.11): non erano importanti quanti anni o secoli mancassero, ma il fatto che erano gli “ultimi giorni” comunque: “Ora sappi questo: che negli ultimi giorni verranno tempi difficili, perché gli uomini saranno amanti di se stessi, avidi di denaro, vanagloriosi, superbi, bestemmiatori, disubbidienti ai genitori, ingrati, scellerati, senza affetto, implacabili, calunniatori, intemperanti, crudeli, senza amore per il bene, traditori, temerari, orgogliosi, amanti dei piaceri invece che amanti di Dio. Aventi l’apparenza della pietà, ma avendone rinnegata la potenza. Da costoro, allontànati” (2 Timoteo, 3.1-4). Ora le caratteristiche degli uomini degli “ultimi giorni” esistono da sempre. Pensiamo solo all’amara constatazione di Dio prima di procedere col diluvio: disse “L’uomo non è altro che carne”, ebraico “basar” che sta ad indicare non tanto il corpo fisico, appunto di ossa, muscoli, e organi, ma le forze mentali istintive che lo governano. L’uomo degli ultimi giorni però, a differenza dei suoi predecessori, è quello che cerca legittimazione e ufficializzazione a tutti i costi delle proprie azioni malvage a differenza del suo omologo di quelli antichi che, pur contravvenendo alle leggi della “comunità civile” o comunque fautore di infrazioni che la stessa avrebbe riprovato anche solo moralmente, agiva di nascosto e mai sarebbe stato portato come esempio. Questo accade oggi in cui, paradossalmente, i trasgressori sono coloro che cercano di vivere la loro vita e fede cristiana autentica, già minata all’interno dello stesso cristianesimo a prescindere dalla denominazione.

Pur non sopportando personalmente il moralismo, è fuor di dubbio che nostri sono i giorni in cui molte libertà e concetti elementari di regole di vita stanno stravolgendosi con un ritmo sempre più allarmante. Satana, che sa di avere poco tempo, fa sì che vengano minate proprio le identità cristiane precise e costituisce poco a poco una religione al servizio della politica e del governo mondiale che, salvo ormai dettagli, è realizzato. È questo il tempo in cui alla pietà e alla carità si sostituiscono opere di facciata e ai giovani è rivolta tutta una strategia di comunicazione mirante a renderli incapaci di riflettere a vantaggio della soddisfazione di qualunque istintività vista come un diritto da acquisire sempre e comunque.

Sia santificato il tuo nome”, lo ritengo allora un qualcosa di strettamente, urgentemente correlato ora più che mai ai successivi due elementi del Padre Nostro (“Venga il tuo Regno” e “Sia fatta la tua volontà”) affinché il disegno di Dio possa compiersi presto, fermo restando che i tempi sono, come sempre Suoi.

Sia santificato il tuo nome”, però, implica una collaborazione dell’uomo: senza una testimonianza attiva da parte di chi ha creduto, il “Nome” di Dio non sarebbe mai stato conosciuto. Ai tempi dell’Antico Testamento erano i prodigi e i giudizi, a volte sul singolo, altre sull’intero popolo d’Israele, altre ancora sui popoli che con lui avevano a che fare; ai tempi del Nuovo, a produrre questa santificazione del Nome, sono stati i miracoli fatti da Gesù e dagli apostoli e quindi la predicazione, la conversione e la testimonianza di coloro che, in virtù della loro fede, cambiavano vita spiegando agli altri le ragioni del loro comportamento, il perché di una scelta.

Nonostante quello che ho detto sui motivi che produssero in me la certezza che non vi fosse altro Dio all’infuori di quello annunciato da Cristo, la mia sarebbe stata solo una convinzione personale se non avessi trovato uomini e donne che avessero rivolto il loro cuore a Lui e che mi avessero dato l’esempio particolarissimo di persone che, nonostante i loro limiti e imperfezioni, avevano una meta, un obiettivo da raggiungere anche a costo di sforzi e scelte non facili. Persone che avevano messo da parte il loro io e si erano messe a cercare la santità.

Molto spesso si pensa, come cristiani, di essere chiamati a compiere grandi cose, ma ci si dimentica che dobbiamo esercitarci nelle piccole, perché “chi è fedele nel poco, è fedele anche nel molto e chi è ingiusto nel poco, lo è anche nel molto” (Luca 16.10); ricordiamoci del premio di quel servitore che si sentì dire “Bene, buono e fedele servo: tu sei stato fedele in poca cosa e io ti costituirò sopra molte cose; entra nella gioia del tuo Signore” (Matteo 25.21).

Ogni azione che il credente compie per Colui che lo ha salvato, la porta avanti anche per se stesso: si tratta di quel tesoro che mettiamo da parte quando tutto ciò che avremo fatto in vita verrà vagliato quando saremo alla Sua presenza. “Secondo la grazia di Dio che mi è stata data, come savio architetto io ho posto il fondamento ed altri vi costruisce sopra, perché nessuno può porre altro fondamento diverso da quello che è stato posto, cioè Gesù Cristo. Ora, se uno costruisce sopra questo fondamento con oro, pietre preziose, argento, legno, fieno, stoppa, l’opera di ciascuno sarà manifestata mediante il fuoco, e il fuoco proverà quale sia l’opera di ciascuno. Se l’opera che uno ha edificato sul fondamento resiste, egli ne riceverà una ricompensa, ma se la sua opera è arsa, egli ne subirà la perdita. Non di meno sarà salvato, ma come attraverso il fuoco” (1 Cor. 3.10-15).

Ecco, il cristiano e la Chiesa di cui fa parte sono coinvolti nella santificazione del Nome perché, senza la testimonianza di ciascuno, il concetto di Dio sarebbe assolutamente sterile, identico a quello di altre confessioni. Indubbiamente, nonostante Satana si sia dato da fare parecchio e purtroppo con successo anche all’interno della Chiesa, il “rimanente fedele” ha resistito e ha annunciato il Vangelo sia con la predicazione che con l’esempio di una vita dedicata a Colui che lo ha salvato. Il cristianesimo non è grido, funzioni solenni che attirano curiosi, grandi movimenti acclamanti o processioni che tanto fanno pensare al paganesimo, ma molto spesso è silenzio e servizio muto. E naturalmente fatti concreti.

Il “Nome” di Dio, fermo restando che non non ha uno come il nostro che usiamo per distinguerci gli uni dagli altri, credo che sia da ricercarsi nella terza persona del verbo essere, “Colui che è”. Non c’è bisogno di affannarsi per chiamarlo o definirlo perché quell’ “È” esclude la presenza di qualsiasi altro. Dio “è”, tempo presente che viene dall’eternità come Gesù ebbe a dire: “Prima che Adamo fosse nato, io sono” (Giovanni 8.58) e collegato a quel “Gesù Cristo è lo stesso di ieri, di oggi e in eterno” (Ebrei 13.8). Giovanni, in 8.58, non aggiunge altro. Forse nessuno osò chiedere ragguagli a Gesù sulla sua frase. Io di domande gliene avrei fatte molte. La pericope di Giovanni implica il fatto che presso di Lui non esiste interrogativo che non possa avere una risposta, un elemento che non possa avere un posto. L’ordine del tutto scaturito dal nulla, poiché prima del mondo, alla nostra portata, non esisteva niente.

Sia santificato il tuo nome”, allora, è frase che esprime la preghiera, o la speranza, per cui tutti possano riconoscerlo come unico Dio, vero risolutore del problema basilare della nostra origine e fine. L’unico, tra i tanti, troppi, falsi che il mondo ci propone.

Sia santificato il tuo nome”, quindi non quello di altri e qui non possiamo non fare un riferimento all’elemento che apre il decalogo contenuto sulle tavole che Dio e non Mosè scrisse: “Io sono il Signore Iddio tuo, che ti ho tratto fuori dal paese d’Egitto, dalla casa di servitù. Non avere altri dei nel mio cospetto”; come Israele fu liberato dal Paese in cui era schiavo, il cristiano è stato liberato dalla schiavitù del peccato nel senso che gli è stata data l’opportunità di vivere non più dominato da lui. Non avere altri dèi, per chi crede davvero e mette in pratica, ora significa non avere più dei riferimenti estranei per la sua realizzazione spirituale, non avere altri punti di riferimento. Questo significa, per il credente, santificare il nome del Padre suo. Del Padre nostro. Amen.

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05.31 – PADRE NOSTRO 1/9 (Matteo 6.9-13)

05.32 – Padre nostro – I (Matteo 6.9-13)

 

9Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome,10venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. 11Dacci oggi il nostro pane quotidiano, 12e rimetti a noi i nostri debiti  come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori, 13e non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male.14Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi;15ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe.”.

Se dovessi definire il “Padre nostro”, personalmente lo farei in tre modi: è una preghiera, è un modello di preghiera, è un inno con una sua struttura precisa. Partendo dall’ultima caratteristica, quella dell’inno, vediamo che ha una struttura bipartita A-B. Nella A abbiamo l’espressione di tre “speranze”, o più propriamente “lodi”, e nella B quattro preghiere anche se la formula “non indurci in tentazione”insegnata per la recitazione mnemonica è errata essendo più proprio “non abbandonarci”o “non esporci”. Ancora una volta abbiamo allora il numero 3, indice di perfezione e completezza assieme al 7 e al 10, e il 4, tipico dell’uomo o, meglio, di qualcosa di cui necessita per avere stabilità. Nella parte A, vista nelle espressioni “sia santificato il tuo Nome”, “venga il tuo regno” e “sia fatta la tua volontà”, c’è chi ha riconosciuto un andamento discendente per l’essere umano, partendo dall’alto del Suo nome giungendo all’adempimento della Sua volontà, mentre nella B troviamo un percorso ascendente, partendo dal “pane quotidiano” per arrivare alla liberazione dal maligno (o dal male che è la sua diretta emanazione). Dio si piega verso l’uomo che, se lo riconosce, ha il dovere di elevarsi e di iniziare un cammino.

Il “Padre nostro” è un modello di preghiera perché, se quel “pregate così” fosse riferito ad un’unica formula accettata da Dio significherebbe avere il possesso di una sorta di “password” e che qualunque altro contenuto sarebbe rigettato. Naturalmente non è così anche perché il parallelo di Luca è lievemente diverso e, nel Nuovo Patto, troviamo tante preghiere diverse e specifiche, frutto dello Spirito e non di memorizzazione.

Il “Padre nostro” è una preghiera anche se una parte della cristianità piuttosto radicale si vanta di non recitarla mai accusando chi la utilizza di essere un perditempo o un superstizioso sostenendo (quasi) a spada tratta che qui Gesù ci indica le cose che dobbiamo chiedere e non le parole che dobbiamo pronunciare. Personalmente non ho mai capito questo accanimento, tanto più che le varie Chiese cristiane hanno degli inni che, anche se non parlati, ripetono le stesse parole ogni volta che vengono cantati dall’Assemblea. Non capisco quindi la differenza tra una preghiera cantata qual è l’inno vero e proprio, e una recitata consapevolmente qual è appunto il “Padre nostro” che, fra l’altro, inno, oltre che preghiera, a mio giudizio è.

Le tre speranze della prima parte non hanno solo un andamento discendente, ma si riferiscono anche a tutto il piano di Dio che si è sviluppato attraverso i secoli: il Padre che abita nei cieli, nella dimensione dell’eternità che un caro fratello amava definire come “quel concetto di tempo che non ha inizio né fine”, non lasciò solo Adamo dopo la caduta, ma fece la promessa in base alla quale la progenie della donna avrebbe schiacciato il capo al serpente in attesa della venuta del regno e alla volontà finale vista in quei “Nuovi cieli e nuova terra dove giustizia abita” che saranno pronti quando il numero dei salvati sarà completo e avremo il giudizio finale sull’Avversario e tutti coloro che lo avranno seguito.

Le quattro preghiere, d’altro lato, con il loro andamento ascendente, partono dalle elementari esigenze del corpo per il suo sostentamento e terminano con la liberazione dal maligno: questa coinciderà proprio con l’avvento del Regno che costituirà la liberazione da Satana e da tutto ciò che è sua diretta emanazione. L’ultima parte del periodo A, “Sia fatta la tua volontà”, punto di arrivo del piano di Dio per l’uomo, coincide con l’ultima parte del periodo B, “Liberaci dal maligno”, punto di arrivo del percorso dell’uomo che a Lui si è affidato: lo ha fatto per quanto peccatore, per quanto imperfetto e bisognoso di cure continue, ma santificato dal sangue di Colui che, morendo sulla croce, ha compiuto il sacrificio per eccellenza, gradito a Dio “una volta per sempre” (Ebrei 10.10).

Possiamo concludere questo breve sguardo in generale sulla preghiera insegnata da Gesù con questa annotazione: abbiamo l’espressione di tre speranze, o lodi, e quattro richieste per un totale di sette elementi, preceduti da un’invocazione per un totale di otto episodi. Ecco allora che l’ottavo elemento, cioè l’invocazione, sta a significare ancora una volta il compimento, l’indirizzo perfetto a cui inviamo le nostre richieste, ben diverse da una divinità generica che non ha orecchi per udire e potenza per rispondere proprio come il Baal al quale i suoi profeti si rivolgevano nel passo che abbiamo citato nelle precedenti riflessioni, appartenete al capitolo 18 del primo libro dei Re.

 

  1. PADRE NOSTRO CHE SEI NEI CIELI

In questa pericope vengono contemporaneamente espresse le idee della prossimità e della distanza. La prima fornisce una caratteristica di Dio alla quale gli ebrei non erano abituati, essendo usi a chiamare Dio con una quantità notevole di nomi, o più propriamente attributi. Ricordiamo Elohim, in forma plurale, il primo incontrato in Genesi 1.1. Troviamo poi “El” come suffisso accompagnato a un sostantivo come ad esempio El Hane’eman (Il Dio fedele), El Elyon (Il Dio altissimo), El Olam (Il Dio d’eternità), El Echad (L’unico Dio), ma anche “il Dio d’Israele”, “del cielo e della terra” e molti altri.

Abbiamo poi il tetratramma YHVH, tradotta come “Signore”, rivelato per la prima volta a Mosé al pruno ardente: “Io sono colui che sono”, tetragramma proveniente dal verbo “essere”. Di questo nome, pronunciato da alcuni YEHOWAH e dal altri YAHVEH, non si conosce in realtà la pronuncia corretta poiché l’uso di utilizzarlo nel linguaggio parlato presso gli ebrei cessò nel 200 d.C. temendo di infrangere il comandamento “Non usare il nome dell’Eterno, che è il Dio tuo, in vano; perché l’Eterno non terrà per innocente chi avrà usato il suo nome invano” (Esodo 20.7). Oggi i rabbini spiegano che nel tetragramma è anche compreso il senso del nascondere e da qui l’impronunciabilità del Nome.

Il Dio rivelato ad Israele era quindi innanzitutto l’Unico vero, giusto e terribile, ma anche amorevole come sappiamo fu testimoniato, fin dagli inizi della storia umana, dal vestito confezionato ai nostri progenitori e dalla promessa della progenie della donna che avrebbe schiacciato il capo al serpente.

La qualifica di Dio come “Padre”, tuttavia, era quasi sconosciuta, potremmo definirla come velata e veniva usata per ricordare agli israeliti la loro ribellione. Ad esempio vediamo Isaia 1.2 “Udite, o cieli, e ascolta, o terra, perché L’Eterno ha parlato: «Ho allevato dei figli e li ho fatti crescere, ma essi si sono ribellati contro a me”. Malachia 1.6 riporta le parole di Dio “«Un figlio onora il padre e un servo il suo signore. Se dunque io sono padre, dov’è il mio onore? E se sono signore, dov’è il timore di me?» dice l’Eterno degli eserciti a voi, sacerdoti «che disprezzate il mio nome» e dite «In che cosa abbiamo disprezzato il tuo nome?».

Ora invece abbiamo questo titolo di Dio, Padre, che in tutti e quattro i Vangeli verrà utilizzato 80 volte in passaggi indicanti il legame tra il credente e Dio e tra Cristo e Colui che lo ha mandato: non è poco. Gesù quando pregava si rivolgeva a Dio chiamandolo Padre e la stessa cosa possiamo fare noi, sotto la nuova rivelazione, la nuova dispensazione, epoca, periodo della Grazia fino a quando Dio riterrà opportuno farla durare. Con la rivelazione della parola “Padre” abbiamo l’apertura di un ponte reso possibile, in tutta la sua ufficialità, con la resurrezione e ascensione al cielo di Cristo perché fu quella a sancire in modo definitivo che era Gesù e non altri il Figlio di Dio promesso.

Qui possiamo aprire una parentesi riguardante la religione in genere. Al mondo ce ne sono tante, ciascuna che propone un modello di vita più o meno austero o rigido, ciascuna che propina una o più verità e ciascuna di loro ha un fondatore. La religione implica aderire ad essa in modo più o meno radicale, comporta l’osservanza di riti e atteggiamenti che molto possono adattarsi ai versi letti tempo fa, quelli relativi al “premio” che a nulla serve. Religione a parte ci sono poi correnti di pensiero, o ideali, ai quali molti aderiscono e si impegnano con forme di attivismo più o meno accentuate. Sono però fedi basate sull’uomo. Alcune di loro possono anche sembrare positive, ma riguardano uno o più settori che, se possono far sentire meglio chi si inserisce in loro, tutto possono fare tranne che salvare perché l’unica scelta possibile in tal senso è Gesù Cristo. E dico questo non per propagandare una Chiesa o uno stile di vita religioso, ma perché posso dire di avere sperimentato personalmente di non avere alcuna alternativa o scelta che possa risolvere il problema relativo al mio essere umano.

L’ateo, colui che è convinto nel profondo che non esista alcuna forma di vita superiore o creatrice, non dovrebbe avere nessun problema perché, ritenendosi il frutto di un incidente molecolare, sa di venire dal nulla e di ritornare al nulla. Chi tuttavia non riesce a concepire come il caso abbia potuto far nascere, per quanto nei millenni, anche una semplice drosophila, s’interroga inevitabilmente su chi possa essere o quale sia stata la Forza che ha creato l’Universo: ora, il problema è che tutti i fondatori delle religioni o delle forme di pensiero ad esse afferenti, sono morti. Alcuni, quelli delle numerose sette in particolare – mi riferisco sia a quelle che hanno tratto spunto dalla Bibbia che a quelle tipo Scientology – sono morti da tempo e hanno comunque lasciato imperi economici tutt’altro che irrilevanti e avuto eredi che hanno portato avanti la loro “missione”.

Gesù Cristo, però, è stato l’unico ad essere risorto, nonostante la prima reazione dell’autorità costituita fu quella di nascondere la cosa: sappiamo infatti che i soldati posti a guardia del sepolcro in cui il corpo era stato posto, corsero a riferire ai capi sacerdoti quanto avevano visto ma quelli, “radunatisi con gli anziani, deliberarono di dare una cospicua somma di denaro ai soldati dicendo loro «Dite: i suoi discepoli sono venuti di notte e l’hanno rubato mentre noi dormivamo. E se la cosa verrà agli orecchi del governatore. Lo placheremo noi e faremo in modo che voi non siate puniti». Ed essi, preso il denaro, fecero come erano stati istruiti e questo si è divulgato fra i Giudei fino ad oggi” (Matteo 28.11-15).

Ma perché credere alla resurrezione? Per quanto mi riguarda, la lettura dei Vangeli mi ha insegnato che i discepoli di Gesù, che credettero in lui nei suoi tre anni di ministero, entrarono in crisi profonda con il suo arresto e morte. Parlano credo a nome di tutti gli altri i due discepoli sulla via di Emmaus che dissero: “…ora noi speravamo che fosse lui che avrebbe liberato Israele; invece, con tutto questo, siamo già al terzo giorno da quando sono avvenute queste cose. Ma anche alcune donne tra di noi ci hanno fatti stupire perché, essendo andate di buon mattino al sepolcro, e non avendo trovato il suo corpo, sono tornate dicendo di avere avuto una visione di angeli che dicono essere lui vivente. E alcuni dei nostri sono andati al sepolcro e hanno trovato le cose come avevano detto le donne, ma lui non lo hanno visto” (Luca 24.21-24).

Vediamo l’incredulità di questi due discepoli che sicuramente rappresentavano quella di tutti: se non avessero visto il loro Maestro resuscitato non una, ma molte volte come leggiamo in Atti 1.3 – “Ad essi, dopo aver sofferto, si presentò vivente con molte prove convincenti, facendosi vedere da loro per quaranta giorni e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio” – se ne sarebbero tranquillamente tornati alle loro case e ai loro mestieri. Se quindi Pietro e tutti gli altri non avessero avuto la prova finale della resurrezione, non avrebbero avuto alcun interesse a propagandare una nuova dottrina che non solo non li avrebbe arricchiti, ma avrebbe fatto di loro dei perseguitati e soprattutto dei martiri. Qui, come uomo razionale, ho dovuto arrendermi perché all’evidenza non avevo era tanto l’ordine nell’Universo indice di un Creatore, ma la testimonianza di uomini come me che non avrebbero mai dato la loro vita per una persona, per quanto sapiente, buona e fautore di miracoli, che non avesse sancito le Sue parole con la resurrezione. Poi la Grazia ha fatto altro e ha prodotto l’uomo nuovo.

Gesù Cristo quindi visse, morì, risorse e salì al cielo. Come questo avvenne è narrato in Atti 1.9-11: “Dette queste cose, mentre essi guardavano, fu sollevato in alto e una nuvola lo accolse e lo sottrasse ai loro occhi. Come essi avevano gli occhi fissi in cielo, mentre egli se ne andava, ecco due uomini in bianche vesti si presentarono loro e dissero: «Uomini galilei, perché state a guardare verso il cielo? Questo Gesù, che è stato portato in cielo di mezzo a voi, ritornerà nella stessa maniera con cui lo avete visto andare in cielo»”. Mi fermo, purtroppo, solo sul fatto della nuvola, chiaro rimando agli episodi in cui Dio, nell’Antico Patto, manifestava la sua presenza attraverso di essa o da lei parlava. Non è che Gesù salì in cielo e continuò nella sua ascesa fino alla ionosfera e oltre: fu accolto in una nuvola ed entrò in quella dimensione così a noi lontana, ma spiritualmente non così tanto, che è quella dei “cieli” in cui il Padre Nostro abita.

Il “Padre” implica quanto l’apostolo Paolo scrive ai Romani in 8.16,17: “Lo Spirito stesso rende testimonianza al nostro spirito che noi siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi, eredi di Dio e coeredi di Cristo, se pure soffriamo con lui per essere anche con lui glorificati”. Il “Padre” è “nostro”, cioè è a noi pertinente, ci appartiene. Il “Nostro” implica relazione reciproca per cui è di ciascuno, uomo e donna, che in Lui crede. È di tutti i componenti della Chiesa, latino ecclesia, greco ek-kaleo, cioè coloro che sono “chiamati fuori” dal mondo in cui vivono. Infatti “…noi siamo debitori non alla carne per vivere secondo la carne, perché se vivete secondo la carne voi morrete, ma se per mezzo dello Spirito fate morire le opere del corpo, voi vivrete, poiché tutti coloro che sono condotti dallo Spirito di Dio sono figli di Dio. Voi infatti non avete ricevuto uno spirito di schiavitù per cadere nuovamente nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito d’adozione per il quale gridiamo «Abba, Padre»” (Ibid. v. 12-15) dove “Abba” è una parola derivante dall’aramaico traducibile con “padre” oppure il famigliare “papà”. È una relazione che si possiede, poiché un figlio è e rimane tale, ma che va al tempo stesso mantenuta e non autorizza il cristiano a comportarsi come se non fosse, appunto, un figlio.

Tornando al testo, se gli uomini di Dio dell’Antico Testamento potevano rivolgersi a Dio chiamandolo “Signore”, in Cristo ora possiamo dire “Abba, Padre”, “nostro che sei nei cieli” e che, nonostante questa distanza, è vicino e pronto ad accogliere chi lo cerca con cuore sincero e desideroso di diventare erede della promessa della vera Vita Eterna.

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