05.25 – Amare il proprio nemico (Matteo 5.43-48)
“43Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimoe odierai il tuo nemico. 44Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, 45affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. 46Infatti, se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? 47E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? 48Voi dunque, siate perfetti come è perfetto il padre vostro celeste”.
L’esposizione di Gesù su quanto insegnato dalla Legge e tramandato dai suoi maestri prosegue con la citazione di Levitico 19.18 in cui leggiamo “Non far vendetta e non servare odio a quelli del tuo popolo, anzi ama il tuo prossimo come te stesso”: da questo passo vediamo quanto fosse presente la considerazione in ciascun israelita dovesse tenere il suo prossimo che non era qualsiasi essere umano, ma in chi apparteneva allo stesso Israele in virtù del progetto salvifico che Dio aveva in serbo per lui. L’odio per il nemico, invece, non lo troviamo prescritto da nessuna parte della Scrittura e possiamo ritenere che fosse non tanto comandato, quanto tollerato da quanti che insegnavano la Legge, ritenendo gli altri popoli impuri. L’amore per il prossimo era allora ristretto, negli insegnamenti farisaici, ai soli connazionali e, restringendo il concetto di “prossimo”, gli anziani avevano tratto la conclusione che bisognava odiare il nemico, cioè chi “prossimo” non era. Non a caso i romani accusavano gli ebrei di “odium humani generis”, poi diventato capo d’accusa anche per i cristiani sotto la persecuzione neroniana del 64.
Ebbene, Gesù irrompe nella credenza popolare, nel facile acquisito umano ancora una volta con le parole “Ma io vi dico”, non tanto ordinando un cambio di atteggiamento, quanto piuttosto invitando a considerare quanto sia facile amare e odiare secondo il comportamento di chi ci circonda, oppure reagire secondo gli istinti in base a come il nostro prossimo si comporta con noi. Ancora un volta non ci viene detto che “dobbiamo essere buoni”, ma ci è chiesto di entrare in una dimensione corrispondente alla nostra fede che non è un’ideale, ma un modo di vivere che si basa su uno stato, una verità rivelata. L’amore non è qualcosa che può essere insegnato o praticato senza che sia mosso da qualcosa: non può essere simulato, ma deve appunto avere un motore, una motivazione profonda e questa la si trova e può esistere solo se siamo stati amati per primi da Dio, se il suo amore lo avvertiamo davvero. Allora, non potremo che comportarci come Lui. Il “Padre nostro che è nei cieli”, infatti, dando corso agli eventi naturali non fa distinzione tra buoni e cattivi, fa sorgere lo stesso sole e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti, termini che si riferiscono alle condizioni di vita che cambiano a vantaggio o a svantaggio della persona perché possa riflettere, chiedere o ringraziare delle attenzioni che riceve, interrogarsi sul piano di Dio per lui e avvicinarglisi sempre di più. C’è sempre un motivo nelle cose che avvengono nella vita nostra e dei popoli; ricordiamo Atti 14.16,17: “Egli, nelle generazioni passate, ha lasciato che tutte le genti seguissero la loro strada, ma non ha cessato di dar prova di sé beneficiando, concedendovi dal cielo piogge per stagioni ricche di frutti e dandovi cibo in abbondanza per la letizia dei vostri cuori”. “Dar prova di sé” come ha fatto con la perfezione assoluta degli equilibri presenti in natura che l’uomo, non Lui, sta stravolgendo così tragicamente.
Il verbo “amare”, nonostante sia uno, in italiano ha tanti significati che però il greco suddivideva meglio avendo un verbo per indicare l’affezione morale (agapào) e un altro per l’affetto personale (filéo), chiaramente diversi e, nel verso in esame, è usato proprio il primo, che in questo caso allude chiaramente a una manifestazione fattiva che dimostra il desiderio per il bene altrui. E qui abbiamo un primo significato, un primo campo d’agire che esprime una netta separazione tra il comportamento del nemico e la pietà del giusto. Va ripetuto: l’odio per il nemico non è prescritto né raccomandato negli scritti dell’Antico né tantomeno del Nuovo Patto, anzi possiamo citare l’episodio in cui Saul, partito alla ricerca di Davide con tremila uomini per ucciderlo, fu trovato da Davide e dai suoi uomini in una caverna. Gli tagliò un lembo del mantello senza che se ne accorgesse – notare quanto fosse affilata la sua spada – e poi gli disse “Guarda, padre mio, guarda il lembo del tuo mantello nella mia mano. Quando ho staccato questo lembo dal tuo mantello nella caverna, non ti ho ucciso. Riconosci dunque e vedi che non c’è in me alcun male né ribellione, né ho peccato contro di te; invece tu vai insidiando la mia vita per sopprimerla. Sia giudice il Signore tra me e te e mi faccia giustizia il Signore nei tuoi confronti, ma la mia mano non sarà mai contro di te. (…). Il Signore sia arbitro e giudice fra me e te, veda e difenda la mia causa e mi liberi dalla tua mano” (1 Samuele 24.12-16).
Abbiamo già visto in una precedente riflessione che l’odio di Saul verso Davide fu generato dall’invidia. Ora è chiaro dal testo che Davide avrebbe potuto ucciderlo anziché tagliargli il mantello, ma ebbe pietà di lui e, invece di approfittare della possibilità che aveva in quel momento, decise di lasciare a Dio il compito di difenderlo, rimettendo a Lui il compito di giusto Giudice, mettendo così in secondo piano la propria vendetta. In quell’occasione Davide distinse la sua posizione da quella di Dio, non si intromise ed ebbe pietà del suo nemico o, meglio, di chi provava un odio umano nei suoi confronti. Tra l’altro va tenuto ben presente il rispetto che portava a Saul, unto re a differenza sua, per cui rispettò questa distinzione che era anche spirituale: poteva farsi giustizia da sé, ma chiese quella di Dio. Leggiamo in Proverbi 25.21,22 “Se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare. Se ha sete, dagli acqua da bere, perché così ammasserai carboni ardenti sul suo capo e il Signore ti ricompenserà”: perché? Perché così facendo non solo non avrai fatto a lui quello che certamente lui non avrebbe mai fatto a te, ma riconoscerai a Dio il potere di renderti giustizia! Chiediamoci che senso abbiano i “carboni ardenti”: sono la figura di un giudizio imminente e la frase “Il Signore ti ricompenserà” sta a indicare la benedizione conseguente dal fatto che chi si è comportato col nemico sfamandolo e dissetandolo ha dimostrato di estraniarsi dalla logica dell’ostilità così facile, umana, umiliante perché guarda sempre, ostinatamente, verso il basso.
L’amore per il nemico, quindi, trova il suo apice non nel fatto che si provi un sentimento positivo e di piena disponibilità nei suoi confronti, ma nel rifiuto dell’idea di vendetta. Un giorno conobbi una persona, credo depravata o dai principi quanto meno discutibili, che sosteneva di mettere in pratica questo metodo col fine specifico del radunare i “carboni ardenti” sul capo delle persone a lei ostili. Inutile dire che queste sue azioni si ritorcevano inevitabilmente contro di lei.
Ricordiamo invece l’agire di Gesù che “…insultato, non rispondeva con insulti. Maltrattato, non minacciava vendetta, ma si affidava a Colui che giudica con giustizia” (1 Pietro 3.9): se la fede è vera, autentica, la certezza assoluta del giudizio di Dio non prevale né si abbassa al livello del nemico. Ricordiamo le parole “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno” in cui Nostro Signore si fa intercessore dei soldati romani che lo crocifiggevano, per i quali altri non era che un semplice malfattore. Non condannò neppure i sommi sacerdoti, i capi del popolo, e il popolo stesso: lo fecero da soli quando, di fronte a Pilato che si lavò le mani pubblicamente a sottolineare la sua estraneità e contrarietà a quell’esecuzione, dissero “Il suo sangue ricada sopra di noi e sopra i nostri figli” (Matteo 27.24-26). Ricordiamo anche Stefano che, lapidato dal Sinedrio, morì dicendo “Signore, non imputar loro questo peccato” (Atti 7.60): non era una frase detta “per fare bella figura”, ma una richiesta di perdono per quelli che, lapidandolo, si trovavano nelle stesse condizioni di Saulo da Tarso, poi diventato Paolo, presente e consenziente alla sua morte – “approvava la sua uccisione” – (8.1). Tra di loro c’erano persone che erano veramente convinte di difendere la Legge e i Profeti ed erano in buona fede. Se Saulo avesse portato avanti la sua persecuzione come gli Scribi e i Farisei odiavano Gesù e lo ostacolavano anche senza argomenti, non sarebbe mai stato chiamato ad essere apostolo.
Il terzo significato delle parole di Gesù che stiamo esaminando è per la Chiesa, quella che dovrebbe essere la legittima e unica testimone di Cristo sulla terra: sotto questo aspetto sono chiare e illuminanti le parole “Da questo conosceranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Giovanni 13.35). “Se”, la condizione. Una Chiesa senza amore vero tra i fratelli è un albero senza frutti, è un’associazione religiosa fatta di persone che si comportano senza alcun segno distintivo che non consista in un riunirsi per abitudine, per essere a posto con la propria coscienza in un presunto ritenersi superiori a tutti coloro che non condividono il suo credo, i suoi equilibri fatti di usanze e dogmi più o meno veri, ma altrettanto più o meno vuoti. Una Chiesa, un cristiano senza amore ha già fallito ed è destinata o a spegnersi. Non a caso leggiamo a proposito della Chiesa di Gerusalemme queste parole: “Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno. Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo della simpatia di tutto il popolo. Intanto il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità coloro che erano salvati” (Atti 2.44-48). Alla mancanza di amore spirituale non si può che sopperire se non con quello umano, ingannevole, lo stesso facile dell’amare chi ci ama e il salutare settariamente solo i propri fratelli; la stessa cosa la facevano i pubblicani e i pagani citati da Gesù col fine di suscitare disagio nel suo uditorio: io odio pubblicani e pagani e poi mi comporto come loro.
Credo che di tutto il discorso di Nostro Signore che abbiamo esaminato, sia l’ultima parte la più impegnativa. Con quel “Siate perfetti come lo è il Padre vostro che è nei cieli”, non furono pochi quelli che, tra i presenti, pensarono alle parole di Dio ad Abrahamo “Io sono Dio l’Onnipotente, cammina davanti a me e sii integro” (Genesi 17.1). Come può un mortale essere trovato integro da Colui che è tre volte Santo? Camminando davanti a Lui, cioè avendo presente la propria identità da un lato e la Sua dall’altro, “tendendo alla perfezione” come scrive l’apostolo Paolo ai Corinti, oppure ai Filippesi in 3.12-15: “Non ho certo raggiunto la meta, non sono arrivato alla perfezione, ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Cristo Gesù. Fratelli, io non ritengo ancora di averla conquistata. So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la meta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù”.
Questa era l’esperienza di Paolo, il suo cammino. Non lo faceva da solo, ma invitava tutti i credenti a fare lo stesso talché in Colossesi 2.6,7 scriveva “Come dunque avete accolto Cristo Gesù, in lui camminate, radicati e costruiti su di lui, saldi nella fede come vi è stato insegnato, sovrabbondando nel rendimento di grazie”.
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