05.22 – NON GIURARE IL FALSO (Matteo 5.33-37)

5.23 – Non giurerai il falso (Matteo 5.33-37)

33Avete anche inteso che fu detto agli antichi: «Non giurerai il falso, ma adempirai verso il Signore i tuoi giuramenti». 34Ma io vi dico: non giurate affatto, né per il cielo, perché è il trono di Dio, 35né per la terra, perché è lo sgabello dei suoi piedi, né per Gerusalemme, perché è la città del grande Re. 36Non giurare neppure per la tua testa, perché non hai il potere di rendere bianco o nero un solo capello. 37Sia invece il vostro parlare: «Sì, sì», «No, no»; il di più viene dal Maligno”.

“Avete inteso… ma io vi dico”. Un annuncio storico, una rivelazione, una comunicazione data “agli antichi”, agli uomini di un tempo, contrapposta a un annuncio nuovo dato da chi la Legge non l’abolisce, ma l’adempie e quindi ha pieno diritto per estenderla, spiegarla, tracciare le linee guida di base che poi lo Spirito Santo, tramite gli apostoli, la svilupperà per la Chiesa. Chi legge oggi il discorso della montagna deve tener sempre presente che Gesù parla in un momento storico preciso e a persone diverse da noi: le sue parole vanno lette alla luce della conoscenza di quel tempo che si basavano sia sulla Legge che sull’insegnamento degli Scribi e dei Farisei che avevano finito per formare con lei un tutt’uno. Per questo, fino a questo momento, Gesù dichiara aperte le beatitudini e sviluppa alcuni comandamenti quali il sesto e il settimo, cardini delle relazioni umane che vanno a compromettere gravemente, se infranti, anche quelle fra uomo e Dio. Con le parole che abbiamo letto, “né per il cielo, né per la terra, né per Gerusalemme, né per la tua testa” vengono fatte delle estensioni non tanto sul nono punto “Non pronuncerai falsa testimonianza contro il tuo prossimo”, ma piuttosto sul terzo “Non pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio, perché il Signore non lascia impunito chi pronuncia il suo nome invano” che Gesù non pronuncia testualmente, ma riferendosi al suo compendio che troviamo in due passi integrativo-paralleli.

Il primo di questi è reperibile in Levitico 19.12 “Non giurerete il falso servendovi del mio nome: profaneresti il nome del tuo Dio. Io sono il Signore, vostro Dio”, il secondo in Numeri 30.2 “Quando uno avrà fatto un voto al Signore o si sarà impegnato con giuramento a un obbligo, non violi la sua parola, ma dia esecuzione a quanto ha promesso con la bocca”. Sottolineiamo che, nel passo del Levitico, Dio parla di un suo “Nome” che va inteso non come proprio di persona, poiché Egli è Unico e non ha bisogno di distinguersi da un altro, ma di unicità di riferimento, di potenza e sovranità sull’uomo così come si presentò ufficialmente e legalmente all’apertura del Decalogo: “Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile: non avrai altri dèi di fronte a me”.

Per capire meglio le ragioni che spinsero Gesù a soffermarsi su questo punto della Legge, occorre sostare brevemente su questo verso perché in esso Dio si presenta. “Io sono il Signore” è già un’apertura che, se ci pensiamo, lascia senza parole perché con lui il Creatore, il Progettista, l’Architetto dell’universo non solo si presenta, ma si rivela alla creatura. “Tuo Dio”, possessivo e qualifica, contrappongono l’uomo, che ha la polvere come origine e fine, alla massima potenza del creare e del pensare propria di Dio. In più, in queste parole di presentazione non si fa cenno ai sei giorni, alle promesse ad Abrahamo o ai grandi giudizi visti nel diluvio o nella distruzione di Sodoma e Gomorra, ma alla liberazione da due elementi impossibili senza un Suo intervento, “dalla terra d’Egitto” e “dalla condizione servile” cioè dalla promiscuità, da un ambiente estraneo in cui gli israeliti erano costretti a convivere con gente straniera in una condizione non solo di inferiorità, ma appunto “servile”, senza diritti, personalità, privi di quell’esistenza libera che consente possibilità di scelta. Costretti ai lavori più umili, alle dipendenze di qualsiasi capriccio di un faraone o delle sue guardie.

In altre parole Dio, con il primo verso del Sommario della Legge, si presenta in modo tale da rammentare senza possibilità di equivoco quello che ha fatto per il popolo facendogli capire la continuità della sua assistenza, a dirgli “non ti ho chiamato ed eletto per poi disinteressarmi di te. Per questo non avrai altri dèi all’infuori di me, lasciali agli altri che non mi hanno mai conosciuto”.

La questione del “nome” certo può essere ampliata ulteriormente, ma in estrema sintesi è qui anche perché Dio, se non può essere chiamato come un uomo, può essere però designato con titoli e così è stato fatto: basta consultare qualsiasi dizionario biblico alla voce “nomi di Dio” per trovarne tanti, ciascuno rispondente a una rivelazione, a un carattere che traspare da un dato episodio scritturale. Leggiamo però Esodo 3.13-15: “Mosè disse a Dio: «Ecco, io vado dagli Israeliti e dico loro “Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi”. Mi diranno «Qual è il suo nome?» E io cosa risponderò loro?». Dio disse a Mosè: «Dirai agli Israeliti “Io-Sono mi ha mandato a voi”». Dio disse ancora a Mosè: «Dirai agli Israeliti “Il Signore, Dio dei vostri padri, Dio di Abrahamo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, mi ha mandato a voi. Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione».

Arriviamo così al tetragramma, il “nome” di Dio fondato su quattro consonanti, pronunciato dal Sommo Sacerdote una volta all’anno nel luogo santissimo nel giorno del Kippur la cui corretta, antica pronuncia è andata perduta non solo nel timore di infrangere il terzo comandamento, ma perché quel “questo è il mio nome per sempre”, ebraico el-‘olam, può essere letto anche el-‘allem, “da nascondere”. Così, essendoci nell’antico ebraico scritto le sole consonanti, Dio viene chiamato “il Santo, che Benedetto sia”, oppure, semplicemente è indicato con l’espressione “il Nome”.

Ora Gesù dichiara che l’uomo non deve giurare perché non è lecito e ne spiega i motivi: se abbiamo bisogno di giurare significa che ammettiamo che la verità – che è e non ha bisogno di rafforzativi – non la diciamo. Chi di noi da bambino non ha “giurato” su qualcosa per rassicurare i propri compagni di gioco che diceva il vero? Appunto, eravamo bambini e, nella nostra ingenuità, capivamo istintivamente molte cose, magari senza esserne consapevoli, prima fra tutte che l’uomo è mentitore.

Gesù, trattando il passo in esame, implicitamente si riferisce a un’aggiunta che i Farisei avevano fatto al comandamento che aveva subito trovato delle eccezioni: “…ma se giurerai per qualche altra cosa che per il nome del Signore, potrai spergiurare impunemente”. Ancora oggi fra gli orientali, in particolare presso gli arabi di basso ceto sociale e ignoranti, è molto frequente l’uso del giuramento su membri della propria famiglia, sulla propria salute, su loro stessi o su qualunque situazione negativa volta a punirli in caso di infrazione (“Possa morire adesso se non dico il vero” e simili). L’adulto non deve giurare non perché risponde a questa descrizione, ma in quanto non gli appartiene proprio nulla e le parole con cui si esprime sono importanti perché lo qualificano.

Cosa abbiamo da dare a garanzia del fatto che diciamo il vero? La legge italiana punisce la falsa testimonianza nel processo, preceduta da una dichiarazione di impegno a dire la verità, con la reclusione da due a sei anni (Art. 372 C.P), ma a parte questo il giuramento tra persone non ha senso perché adempiere un “Sì” o un “No” è già cosa non da poco.

Gesù, dopo aver detto “Non giurate affatto”, passa ad esaminare i modi di dire più frequenti del suo tempo in cui i discorsi venivano enfatizzati da espressioni che chiamavano in causa il cielo, la terra e Gerusalemme, elementi che all’uomo non competevano. Addirittura la terra, da lui calpestata, è in realtà “lo sgabello” dei piedi di Dio e quindi l’uomo non è che un ospite, un utilizzatore secondario. Non solo, ma essendo la terra opera Sua, ne chiama direttamente in causa il “Nome”. Escluse queste possibilità di chiamare in causa qualcosa per rafforzare una testimonianza, teoricamente non rimarrebbe che la propria vita vista nel “capo” ma anche qui, viene detto che “non hai potere di rendere bianco o nero un solo capello”. Là dove “bianco” e “nero” sono riferiti non alla possibilità di usare delle tinture, ma proprio a quel processo di invecchiamento e modifica che subiamo tutti e di fronte al quale non possiamo far nulla se non salvare le apparenze con interventi estetici. È il primo capello bianco che, nella vita della persona, avvisa che il tempo sta passando. Non si torna indietro.

Qui non si tratta tanto di un mettere a confronto ciò che è nel potere di Dio e quanto può fare l’uomo, ma della descrizione, se vogliamo “cruda”, di quanto è ristretto l’ambito in cui possiamo agire come creature: un capello è cosa da nulla, una persona normale ne perde dai 40 ai 120 al giorno o anche di più in base al suo stato di salute. Altrove è detto che “I capelli del vostro capo sono tutti contati” (Matteo 10.30) a conferma delle attenzioni che il Signore ci riserva e la conoscenza che ha di noi. Possiamo costruire, realizzare, portare a termine compiti, ma di fronte a un capello bianco o nero non possiamo far nulla ed è per questo che tutto quanto va oltre un semplice “sì” o “no” “viene dal maligno” nel senso che non serve, è inutile e dannoso.

Con le parole “viene dal maligno” Nostro Signore non vuole riferirsi tanto a Satana, quanto piuttosto al suo sistema: in un mondo in cui l’Avversario è il principe e gli effetti del peccato si rivelano anche nelle ingiustizie sociali, quindi nella ricchezza smodata di pochi e nella povertà di molti, i simili non si fidano l’uno dell’altro e hanno bisogno di vincolarsi da contratti e giuramenti. La prima perversione del sistema di Satana la vediamo proprio nel fatto che un uomo come noi, alla cui esistenza è stato dato un termine, ci fa del male, ci danneggia, ci ferisce per cui abbiamo bisogno di contratti, di leggi, di organi giudiziari.

Paolo però, parlando di credenti di Efeso, suggerisce un modo naturale di relazione: “Bando alla menzogna e dite ciascuno la verità al suo prossimo, perché siamo membri gli uni degli altri” (4.25). Questo in opposizione al mondo che conosciamo in cui ognuno pensa per sé e subisce la cultura del colpire per primo per non soccombere. Giacomo stesso, probabilmente pensando alle parole di Gesù, scrive “Soprattutto, fratelli miei, non giurate né per il cielo, né per la terra e non fate alcun altro giuramento. Ma il vostro «sì» sia sì e il vostro «no» no per non incorrere nella condanna” (5.12). Quale? L’umiliazione di constatare che, per convincere qualcuno di qualcosa o di promettere, si sia assorbito un sistema estraneo a quella che è la principale, basilare procedura cristiana. Ricordiamo le parole di Gesù in Matteo 12.35,37: “L’uomo buono dal suo buon tesoro trae fuori cose buone, mentre l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori cose cattive. Ma io vi dico: di ogni parola vana che gli uomini diranno, dovranno rendere conto nel giorno del giudizio; infatti in base alle tue parole sarai giustificato e in base alle tue parole sarai condannato”. Per assurdo, è l’uomo che ha in sé il suo peggior nemico, si fa danno da solo per cui quel “pianto e stridore di denti” di cui spesso fa menzione nostro signore allude a quella reazione di crisi che prenderà gli esclusi dal regno quando constateranno di essersi condannati da soli. Dalle tue parole sarai “giustificato” o “condannato”. Non ci sarà la possibilità di un appello.

Personalmente considero un “di più” anche una promessa perché so, come essere umano, di poter garantire nulla. Nella Scrittura numerosi sono gli esempi di persone che hanno dato la loro parola con leggerezza, costretti a mantenerla salvo poi pentirsene, come ad esempio Erode Antipa quando Salome lo irretì quando era già ebbro e si fece promettere, tramite sua madre, la testa di Giovanni Battista su un vassoio. Leggiamo che “Il re ne fu addolorato, ma, per il giuramento fatto e non volendo sfigurare davanti ai suoi invitati, ordinò di dare alla ragazza ciò che aveva chiesto” (Matteo 14.9). Ricordiamo il pianto amaro di Pietro, quando si trovò di fronte alla sua fragilità dopo aver contestato a Gesù la sua predizione sul fatto che lo avrebbe rinnegato tre volte: “Anche se dovessi morire con te, non ti rinnegherò in alcun modo” (Matteo 26.35). Pietro non aveva promesso nulla, ma sicuramente vi fu un impegno nel futuro che non poteva assumersi. Trovandoci un questa condizione di precarietà anche di fronte alla nostra volontà, Nostro Signore ci dice che un «sì» o un «no» sono già di per sé impegnativi.

C’è comunque un altro tema, neppure tanto nascosto nelle parole di Gesù sul giuramento, ora decaduto: quello verso il Signore. Vale anche qui il principio del “Non giurare affatto” e, per le parole che abbiamo letto, anche l’azione del “fare un voto” tanto cara a molti, rientra nelle categorie del “di più, che viene al maligno”. È questo un aggiornamento forse traumatico per alcuni, ma il voto, praticato nell’antica dispensazione e giustificato dal modo che Dio aveva di rivelarsi, non è accettabile nel tempo della Grazia nonostante il suo uso.

Quello del “voto” è un sistema perverso in cui un essere umano chiede un favore a Dio credendo di poterlo barattare con un’atto per ringraziarlo di un favore eventualmente ottenuto. Chiediamoci: l’apostolo Paolo non scrisse forse “In Cristo ho tutto pienamente”?; Gesù stesso, nell’occasione di questo sermone, non disse forse “Cercate prima il Regno di Dio, e tutte le altre cose vi saranno sopraggiunte”? Non basta la preghiera, quando sappiamo che il Padre sa già quello che gli chiederemo? Può essere accolta una preghiera il cui senso sia il baratto, vale a dire “io do una cosa a te se tu dai una cosa a me”? Con il “voto” si offre a Dio qualcosa, solitamente di “buono” che costa fatica e che non si farebbe altrimenti: può essere un comportamento considerato legittimo, o piuttosto è una presa in giro? Cosa si può offrire, se non la propria vita, a chi si è offerto a noi per primo?

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